Corriere 10.11.17
Se la Svizzera dimezza il tempo della diagnosi di morte
di Paolo Di Stefano
«Non
so se mai ci incontreremo, io e la morte, ma ci rincorriamo da una
vita». È la frase, molto suggestiva, con cui si apre Io e Lei il libro
più recente del genetista Edoardo Boncinelli. Epicuro escludeva,
epicureisticamente, quell’incontro: quando ci siamo noi non c’è lei e
quando c’è lei noi non ci siamo più. Fatto sta che la rincorsa,
reciproca, tra l’individuo e la morte, parte nel momento in cui il
bambino ha il primo «contatto cosciente» con la fine, e diventa
consapevole del destino fisico suo e delle persone che lo circondano,
nonni, genitori, zii, fratelli, cugini, amici… In quel preciso momento è
come se uno starter, un giudice di partenza, desse il segnale di inizio
rincorsa. Da allora cominceremo a misurare la vita in giorni, mesi,
anni, talvolta con leggerezza, più spesso con umanissima angoscia. È da
quel momento che prende il via lo scorrere del tempo, o meglio la sua
percezione. Durante la rincorsa sentiremo il respiro del tempo al nostro
fianco: a tratti sembra un compagno di strada benigno, a tratti un
avversario feroce che vuole superarci a tutti i costi, senza farsi
scrupoli di allungare la gamba per uno sgambetto. Questa immagine
competitiva viene in mente leggendo una notizia che arriva dalla
Svizzera, la cui Accademia di scienze mediche ha deciso di dimezzare il
tempo della diagnosi di morte: non più dieci minuti dall’arresto
cardiaco ma cinque, il tempo che rende irreversibile l’interruzione
delle attività del telencefalo. Dopo cinque minuti, bruciando un po’ i
tempi, si potrà procedere all’espianto di organi. La decisione ha
provocato le proteste delle associazioni mediche ippocratiche,
cattoliche, di bioetica, che ritengono che l’attesa debba prolungarsi
finché si spenga anche il tronco encefalico. Dunque, adesso sappiamo che
la rincorsa, nel momento più sacro e insondabile del traguardo, si
conclude sempre al fotofinish. Urge una Var per capire se l’incontro
avviene o no.