Corriere 10.11.17
La lettura di Susanna Mati
Nietzsche ovvero il signor N.
di Paola Capriolo
Nello
sterminato panorama degli studi dedicati all’autore dello Zarathustra,
il recente Friedrich Nietzsche di Susanna Mati (Feltrinelli, pp. 186, e
14) occupa una posizione particolare, distinguendosi nettamente da
quelle interpretazioni che, sulla scia di Heidegger, a partire dagli
anni Trenta si sono sforzate di ricondurne il pensiero a un «sistema»
filosofico più o meno implicito. Prendendo le mosse da certe intuizioni
critiche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Susanna Mati compie il
tentativo opposto: percorrere quest’opera labirintica prendendone
assolutamente sul serio lo «stile».
In altre parole, la sua
domanda non è: che cosa dice Nietzsche? (una domanda cui è quasi
impossibile rispondere in modo univoco di fronte a un filosofo che ha
affermato le tesi più contraddittorie), ma piuttosto: in che senso dice
ciò che dice? Ovvero, che cosa può mai significare un’affermazione per
colui che, annunciando la «morte di Dio» e il congedo da ogni
metafisica, è giunto a revocare il valore stesso della verità?
Proprio
questa «liquidazione della verità», per dirla con Gottfried Benn,
questa impossibilità di affermare una qualsiasi tesi, che fa di
Nietzsche «il vero e proprio punto di non ritorno della filosofia
occidentale», costituisce la premessa di una lucidissima argomentazione
volta a sottolineare il «tratto estetico» del suo pensiero. Non si
tratta però, puntualizza Mati, del ritorno a una metafisica dell’arte di
stampo romantico, bensì di una «sapienza della parvenza» che avvicina
nel modo più ambiguo la figura del pensatore a quella del commediante,
di una finzione consapevole di sé e tanto più autentica in quanto votata
al naufragio. Così, dalla Nascita della tragedia sino alla catastrofe
di Ecce homo , possiamo seguire tappa dopo tappa l’autorappresentazione
di questo «giullare dell’eternità» per il quale il pensiero si è
trasformato in un gioco di maschere perennemente in bilico sull’ambiguo
crinale tra verità e menzogna: fino alla maschera ultima, la follia,
«destinata a non essere più tolta da quanto è mimeticamente vera».
La
«follia» è l’esito estremo di uno sforzo teoretico che, nella sua «resa
dei conti all’ingrosso con la totalità del pensiero occidentale e con
le sue conseguenze», agisce come «una dinamite che fa saltare anche se
stessa»; ed è insieme il culmine di quella frantumazione dell’io in cui
il prospettivismo che caratterizza lo stile di Nietzsche e la sua
critica radicale all’idea di un soggetto stabile e unitario si fondono
in modo inestricabile con la sua stessa psicologia, o meglio,
non-psicologia. Il gioco di maschere, la possibilità di essere, come
egli afferma in una lettera a Jacob Burckhardt, «tutti i nomi della
storia», hanno quale presupposto un distacco da sé che rasenta
l’impersonalità: per questo, oltre che per rispecchiare in qualche modo
il «tratto estetico» della filosofia di Nietzsche, Mati lo designa
sempre con la sola iniziale, N., alludendo esplicitamente al K. dei
romanzi kafkiani.
Come il Josef K. del Processo e l’agrimensore K.
del Castello sono e non sono Kafka, così, sembra suggerirci l’autrice,
il personaggio di cui si parla nelle sue pagine è e non è il professor
Friedrich Nietzsche, il quale a sua volta è e non è Dioniso, lo «spirito
libero», Zarathustra. In tal modo il «gioco di maschere» viene
arricchito di uno strato ulteriore; ma soprattutto si scongiura
l’antinomia in cui rischierebbe di cadere l’intera argomentazione del
libro, se fosse svolta in quel linguaggio puramente teoretico e
affermativo del quale proprio Nietzsche ha decretato una volta per
sempre l’impraticabilità.