venerdì 10 novembre 2017

Repubblica 10.11.17
Italo Svevo
Quattro racconti perduti per un amico di nome Joyce. Risalgono al 1926 e furono scritti per una conferenza dedicata allo scrittore irlandese. Saranno esposti a Roma
di Raffaella De Santis

La storia dell’amicizia tra Italo Svevo e James Joyce si arricchisce di un nuovo capitolo. Quattro racconti brevissimi che Svevo scrisse in preparazione della conferenza dedicata allo scrittore irlandese tenutasi a Trieste al circolo “Il Convegno” nel 1927. I dattiloscritti inediti sono stati di recente acquistati dalla Biblioteca Nazionale di Roma. Raccolti sotto il titolo “Storie di un uomo rispettabilissimo” e firmati con il vero nome dello scrittore, Ettore Schmitz, sono arrivati nelle mani di un libraio antiquario triestino che si era messo da tempo sulle loro tracce. È lui, il libraio Simone Volpato, ad averli poi venduti alla biblioteca. Negli
apologhi, Svevo si diverte a giocare con i temi classici della sua opera: c’è in tutti un personaggio che aspira alla gloria letteraria ma non ce la fa a coronare il proprio sogno. Dopo aver pubblicato tre romanzi, tra cui il recente La coscienza di Zeno (1923), Svevo potrebbe godersi il sospirato successo che sta finalmente arrivando grazie all’Omaggio che gli aveva tributato Eugenio Montale e al sostegno del suo amico Joyce. Invece sullo scrittore pesano ancora le stroncature, compresa quella di Giuseppe Prezzolini, ferite che lo tengono inchiodato al personaggio dell’inetto protagonista di questi inediti. Il primo raccontino, scritto come gli altri nel 1926, è il più bello e assurdo, di umorismo british. Un uomo “rispettabilissimo”, figlio di una famiglia di negozianti, muore all’improvviso. Il giorno del funerale riesce ad aprire gli occhi e a sentire cosa gli altri dicono di lui. Scopre allora che la sua fama di letterato è fasulla, che l’editore era stato pagato dalla famiglia per pubblicarlo e che le trionfalistiche recensioni erano su commissione. Finale a sorpresa. «Inseguivo queste carte da molto tempo», dice Simone Volpato. E ne svela il misterioso backstage. «Appartenevano all’archivio del Centro studi triestino Giani Stuparich, dismesso dopo la morte nel 1982 della sua creatrice, Anita Pittoni. Da allora molti documenti sono andati all’asta, altri sono finiti in mano agli eredi». Il fondo, che custodiva, tra gli altri, scritti di Saba, Virgilio Giotti, Bobi Bazlen e Scipio Slataper, si è disperso in mille rivoli. Volpato, che a Trieste gestisce la libreria antiquaria Drogheria 28, sapeva dell’esistenza di questi scritti per averne trovato traccia nelle carte di Anita Pittoni, la donna amata da Stuparich che a Trieste animava un ambito salotto letterario. Da lì è partita la caccia. Volpato è riuscito a rintracciare un erede di Anita e a comprare i dattiloscritti prima che finissero all’asta. Ne ha poi proposto l’acquisto alla Biblioteca nazionale di Roma, dove ora sono esposti nel museo letterario
Spazi900, ideato dal direttore Andrea De Pasquale. «Vogliamo riprendere l’antica tradizione delle biblioteche ad ospitare un museo. Per questo stiamo lanciando un nuovo allestimento e abbiamo comprato anche un diario di Filippo de Pisis, un volumetto di Sandro Penna ( Versi intimi) e il manoscritto autografo della poesia A mia moglie di Saba».
Ma veniamo a quella conferenza che preoccupa Svevo. Lo scrittore sa che dovrà parlare dell’opera dell’autore dell’Ulisse e non si sente all’altezza nei panni del critico letterario. Studia per giorni il suo intervento, è teso. Svevo e Joyce sono grandi amici, si sono conosciuti a Trieste nel 1905 quando Svevo era andato a prendere lezioni d’inglese alla Berlitz School, dove Joyce insegnava. Del loro rapporto e della conferenza tenutasi l’8 marzo del 1927 parla un recente libro di Maurizio Serra, Antivita di Italo Svevo (Aragno). «Credo che Svevo scrisse gli apologhi come divertissement, per stemperare i momenti di paura durante la preparazione della conferenza su Joyce», racconta Eleonora Cardinale, curatrice scientifica del museo Spazi900. Per Svevo quell’impegno era così gravoso da farlo sfogare con Montale in una lettera: «Passai due mesi laboriosi sull’Ulisse. M’incantò ma mi distrusse. Poi raccolsi tanto materiale che la mia conferenza sarebbe durata la notte intera. E ora sono al duro lavoro di condensare il tutto in una predica di 45 minuti che – come mi dicono – è l’estensione ammessa. Mai più accetterò una cosa simile». In uno degli apologhi, trasforma l’ansia in
boutade, raccontando di un letterato stressato che muore nel mezzo di una conferenza.
Svevo era stato aiutato nel suo lavoro di preparazione al convegno da Stanislao Joyce, il fratello del grande scrittore. Si era addirittura rifugiato a scrivere a casa sua, sommerso da carte e appunti. Quando finalmente arriverà al testo definitivo si ritroverà con una grande quantità di materiale in più da scartare, tra cui le quattro novelle, lasciate poi a casa di Stanislao. Sarà lo stesso Stanislao a donarle nel 1954, un anno prima di morire, ad Anita Pittoni. Sul fatto che siano di Svevo nessuno ha dubbi, né il libraio né la biblioteca. Troppi gli elementi che riconducono allo scrittore: i temi, senza dubbio, ma anche il fatto che i dattiloscritti sono in inchiostro rosso, come spesso le carte di Svevo. Perfino le correzioni a penna, delle piccole cassature fatte con lineette, sono tipiche dello scrittore. Tutto condito da un’ironia fulminante. Uno dei raccontini finisce con lo scrittore di fama che commenta così la morte improvvisa del povero letterato in cerca di gloria: «Anche per i letterati valgono le leggi di Darwin!».