La Stampa19.11.17
Tra degrado e impunità
Il “lungomuro” di Ostia dove muore il mare di Roma
Una scia criminale va dalla Magliana agli Spada e gli stabilimenti balneari fanno scudo alla spiaggia
di Mattia Feltri
Tira
proprio una bella aria. Ostia, stabilimento Orsa Maggiore, nove del
mattino. Poche decine di metri più a nord arriva e si conclude la
Cristoforo Colombo.
La conoscete tutti: è la strada dei film. Aldo
Fabrizi in coda per andare al mare, Vittorio Gassman che fa le corna al
vecchio nel Sorpasso. Qui non è un granché, di là della strada ci sono
palazzine bruttarelle di due piani, la vegetazione è anarchica. Eppure
l’Orsa Maggiore è molto frequentato, ogni tanto arrivano starlette, si
organizzano feste in spiaggia. Pochi anni fa se lo presero in società
Ferdinando Colloca, che era il capo di Casapound, un maresciallo della
Marina militare e il genero di Armando Spada dell’ormai letterario clan
Spada, il cui ultimo campione ha fracassato il naso a Daniele
Piervincenzi della Rai. Poi sono stati tutti condannati, insieme col
direttore dell’ufficio tecnico del municipio, Aldo Papalini, per dire il
garbo e l’ossequio alla legge con cui misero le mani sull’Orsa
Maggiore.
Oggi c’è il sole ma è pur sempre novembre, e sulla
Colombo non c’è traffico. Doveva chiamarsi la Via dell’Impero, nei
progetti di Benito Mussolini, che volle fare di Ostia il mare di Roma.
Verso nord, sul lungomare, si vedono i primi edifici liberty,
elegantissimi, alcuni sbrecciati, altri abbandonati con le finestre
aperte e il cartello vendesi scolorito. Appartenevano ai ricchi
villeggianti d’inizio Novecento, una fila di gioiellini, e poi la fila
dietro, a dare la prima idea di impianto ortogonale della città, le vie
larghe che si intersecano perpendicolari. Prima di arrivare lì, ci si
ferma allo stabilimento Le Dune. Una volta si chiamava Tibidabo. Anche
qui non è una meraviglia. Ostia poteva esserla, una meraviglia, e non lo
è. Qui ci sono centri commerciali in cemento e vetro, condomini anni
Sessanta o Settanta color mattone, uno via l’altro, che intristiscono e
si insudiciano più si va nell’entroterra. Alle Dune venivano quelli
della Banda della Magliana, quelli veri, il Dandi e il Freddo nella
versione delle fiction. Il titolare è Renato Papagni, da secoli capo dei
balneari di Ostia e da secoli dentro informative della polizia, ma alla
lunga candido come il lino, non fosse per un abuso edilizio: il
ristorante dovrebbe essere di sessanta metri ed è di quattrocento.
Fra
il liberty è poi spuntato il razionalismo del Ventennio,
miracolosamente rispettoso di proporzioni e spazi. La Colonia marina
Vittorio Emanuele III, ingigantita dal Duce, è il segno che il mare di
Roma era popolare. Su Youtube ci sono i filmati dei bambini che
trascorrevano l’estate fra bagni e coreografie militaresche e saluti
romani. Davanti c’è proprio l’ufficio tecnico dove fu intercettato il
direttore (sempre Papalini) che parlava con Armando Spada. Gli Spada si
sono spartiti Ostia con i Fasciani e coi Triassi (ormai declinanti), e
Armando diceva ora ci devi dare il chiosco di quelli che abbiamo
ammazzato noi. Proprio una bella aria. Sarà che dal mare non ne arriva:
la particolarità del lungomare è che non si vede il mare. Quasi mai. Lo
chiamano lungomuro. Per chilometri le cancellate, le cabine, i bar e i
ristoranti fanno barriera, niente vista, se non si paga non si va in
spiaggia. Quando era presidente di circoscrizione, anni Novanta, Angelo
Bonelli (oggi leader dei Verdi) scoprì che i titolari degli stabilimenti
dovevano dieci miliardi di lire al Comune e, siccome si mise in testa
di recuperarli, una sera sul pontile, di fronte a piazza Anco Marzio, il
cuore più antico della città, fu fermato da due che si facevano
chiamare Bafficchio e er Sorcanera e che gli diedero un coppino, roba da
film, «che te la sei presa? Sei il solito cazzaro. Lo sai che ti
vogliamo bene». Non li aveva mai visti. Basicchio e er Sorcanera
finirono poi ammazzati. E a Bonelli gli hanno bruciato la casa alle tre
di notte con venti litri di benzina. Quando gli hanno posato all’uscio
una scatola con un fegato e un cuore («il prossimo sarà il tuo», diceva
il biglietto) ha deciso di andarsene, al culmine di trent’anni di
battaglie.
Rimane invece Federica Angeli, cronista della
Repubblica, minacciata di morte e scortata. Potrebbe raccontare quale
boss si è incontrato con quale politico in ognuno degli stabilimenti di
Ostia. Qui c’è stato anche un incontro fra i balneari e i vertici
nazionali del Movimento cinque stelle: «Sono il meglio che c’è a Ostia»,
dissero. Proprio il meglio. All’estremo nord, poco prima dell’Idroscalo
dove morì Pier Paolo Pasolini, c’è il porto. Il presidente fino a
l’altroieri era Mauro Balini, titolare dei bagni Plinius e Hakuna
Matata, il Kursaal è di sua cugina. La gestione del parcheggio del porto
è stata a lungo affidata a uno conosciuto come l’Iracheno, reduce di
secondo piano della Banda della Magliana. L’anno scorso a Balini è stato
sequestrato tutto: misura preventiva secondo il codice antimafia. Fra
le altre cose, Balini si occupava del mantenimento della moglie di
Roberto Giordani, detto Cappottone, che gambizzò uno dei Triassi,
precisamente Vito, e poi è finito in prigione.
Questo è soltanto
il lungomare, un breve, sommario viaggio. Ci si potrebbe addentrare,
andare dove Federica Angeli ha assistito a una sparatoria fra gli Spada e
i Triassi. Andare dove Paolo Frau, guardaspalle di Danilo Abbrucciati,
sempre Banda della Magliana, fu ucciso con due colpi di pistola in
testa. Andare nei negozi taglieggiati. Dove si fanno scommesse
clandestine. Nei quartieri del racket della case popolari. Ma non serve:
si entra in città, in un reticolo orripilante di palazzi ossessivi,
scrostati, spazzatura ovunque, stendini sui marciapiedi, in un delirio
urbanistico che ha tradito il destino di Ostia, e tanto basta. Doveva
essere il mare di Roma, è diventato un sobborgo così brutto che genera
soltanto il brutto.