La Stampa TuttoScienze 29.11.27
Cervello
Il vero e il falso su quello che si può fare con i neuroni
Perché
non è possibile imparare una lingua straniera in appena sette giorni e
perché la volontà supera ostacoli impensabili: le scoperte inattese di
Mariano Sigman
di Marco Cambiaghi
Come si può
imparare il cinese o un’altra lingua di cui non sapete nulla in 7
giorni? Come posso migliorare le capacità mnemoniche dopo una lezione
online? Ho rivolto queste domande a Mariano Sigman, neuroscienziato
argentino che si dedica allo studio dei processi decisionali e delle
dinamiche cognitive complesse. La sua risposta, a dire il vero, non ha
nulla di complesso e si può riassumere in tre parole: «Non è possibile».
E si prova un po’ di delusione, visto che i pop up con cui dobbiamo
combattere non appena apriamo un sito web sostengono il contrario.
Sigman
- insignito della Medaglia Pio XI della Pontificia Accademia delle
Scienze - affronta i confini, più o meno noti, del cervello nel suo
nuovo libro «La vita segreta della mente» (Utet), dedicando molto spazio
a capire che cosa succede nella nostra testa quando impariamo un nuovo
concetto o una nuova abilità. Qualche mito è da demolire, mentre altri
sono da smussare. Vediamoli.
Con l’età adulta il nostro cervello
fa più fatica ad imparare. Falso! «Se con il tempo cambia qualcosa, è la
nostra motivazione che si arena nella noia e nella difficoltà di
apprendere qualcosa di nuovo», ci spiega Sigman. Per imparare servono
tempo e impegno: «I bambini dedicano mesi e anni della loro vita a
imparare a parlare, camminare o leggere. Quale adulto può permettersi
tutto questo per imparare una cosa nuova?». In effetti, un radiologo,
che in un attimo identifica stranezze che nessun altro vede in una
lastra, ha imparato a «leggere» questo tipo di scrittura dopo anni di
esercizio quotidiano.
Vedere per imparare non basta. Vero, almeno
in parte. «Ci sono informazioni che il cervello non può richiamare
esplicitamente: pensate a una persona che fa spesso lo stesso tragitto,
ma da passeggero. Il giorno che deve guidare, però, non sa bene dove
andare». Ovviamente prestava attenzione al percorso, ma alcuni processi
di consolidamento della conoscenza hanno bisogno della prassi. «Una cosa
è assimilare un’informazione per sé, ben altro è esprimerla: pensiamo
anche ad un allievo che guarda il maestro di chitarra. Vede come si
articolano le dita per comporre un accordo, ma non è immediatamente in
grado di replicarlo».
Quelli che stanno più attenti imparano meno.
Vero, ma non usatelo come scusa per non seguire una lezione. Come
chiarisce Sigman, «abbiamo svolto un esperimento in cui si è visto che
quelli che imparano meno attivano di più la corteccia prefrontale,
ovvero si sforzavano di più e stavano più attenti. L’aspetto decisivo
dipende da ciò che già si conosce sull’argomento, anche in modo
frammentario». Chi ha meno conoscenze segue il dialogo passo per passo…
perdendosi nei particolari. Chi, invece, può saltare interi «paragrafi» –
perché li conosce – può imparare il cammino, poiché lo percorre senza
dover far attenzione ad ogni passo. «Un dato che va preso con le pinze: a
parità di conoscenze prestare più attenzione è meglio».
Il limite
delle prestazioni umane è genetico. Falso, anche se la genetica di
tenacia e talento viene spesso celata dal mito. Qui la questione si fa
complessa. «Può sembrare strano ma, quando è nato, Messi non era Messi e
Mozart non era Mozart. Restiamo nello sport: ci sono i Roger Federer,
con un grande talento, e i Rafael Nadal, uno di quelli che ci mette
anima e corpo». Di solito lo spettatore giudica separando grinta e
talento. «L’ammirazione per il talentuoso non è empatica, mentre la
grinta e la tenacia ci stanno più simpatiche, perché abbiamo
l’impressione che siano alla portata di chiunque ci metta il giusto
impegno». Sigman spiega però che la capacità di metterci l’anima ha una
forte componente genetica, sebbene ciò non significhi che sia qualcosa
di immutabile. «È solo più resistente al cambiamento. Gli allenatori
sanno che la resistenza fisica è facile da migliorare, mentre altri
parametri come la velocità, la grinta o, meglio, il temperamento
cambiano meno e con più fatica». Molti studi hanno confermato che il
20-60% del temperamento è riconducibile al corredo genetico: quindi, se
una metà del temperamento si spiega con i geni, l’altra metà dipende
dall’ambiente.
Il talento è un dono innato. «No… è quasi sempre
frutto di un duro lavoro. Se pensiamo all’orecchio assoluto di Mozart,
crediamo sia qualcosa di straordinario. Ma non è così: la maggior parte
dei bambini nasce con un orecchio quasi assoluto, ma, se non viene
esercitato, si atrofizza. Tant’è che, tra i bambini che iniziano presto
il conservatorio, c’è un’alta incidenza con orecchio assoluto… Quindi
non si tratta di genio, ma di lavoro». Sigman, che da buon argentino ama
il calcio, torna sull’esempio di Messi: «Credere che a 8 anni non fosse
un esperto è l’inizio dell’errore. A quell’età aveva già calciato più
palloni della maggioranza delle altre persone». Si potrebbe allora
ribattere che molti bambini calciano migliaia di palloni all’età di 8
anni, ma non diventano Messi. «Qui l’errore sta nel presupporre che si
possa predire quali bambini saranno i geni del futuro: è quasi
impossibile prevedere il limite massimo raggiungibile a partire dai
primi passi».
Si tratta di cambiare la macchina cerebrale, così da risolvere i problemi che incontriamo. Passo dopo passo.