mercoledì 1 novembre 2017

La Stampa TuttoScienze 1.11.17
Le acrobazie dei neuroni che ci rendono smart
di Marco Cambiaghi

Rodrigo Quian Quiroga e Arnaldo Benini sono pronti a stupirci, parlando di noi. O meglio, del nostro cervello e di quello che pensiamo sia in grado (o non in grado) di fare. Concetti controintuitivi che, tuttavia, sono quelli che ci rendono umani, come l’importanza di dimenticare o il senso variabile del tempo, che non è diverso da quello delle api o delle formiche, e che noi stessi creiamo. Il primo è professore di neuroscienze all’Università di Leicester, nel Regno Unito, il secondo è professore emerito di neurochirurgia all’Università di Zurigo: racconteranno i loro studi in due conferenze, il 3 e il 4 novembre, al Festival della Scienza di Genova.
Quiroga nella lezione «Borges e la memoria: l’importanza di ricordare tutto e di saper dimenticare» dimostrerà che nel cervello esistono neuroni soprannominati «cellule di concetto»: lui li ha definiti «neuroni di Jennifer Aniston» - alcuni si attivano solo quando guardiamo la foto della star americana - e svolgono un ruolo-chiave nella formazione della memoria. «Sembra incredibile, ma abbiamo trovato un neurone che si attivava solo di fronte alla cartina dell’Italia e solo di fronte a una specifica mappa», ci spiega. Queste cellule si trovano per lo più nell’ippocampo, noto per essere un’area fondamentale per la memoria. «È da qui che è partito il legame con Borges, perché in un’area responsabile per la memoria ci sono neuroni che rappresentano concetti: se non ci fossero, avremmo una rappresentazione solo dei dettagli e non saremmo in grado di ragionare e quindi di pensare».
Come nel «Funes, o della memoria» di Borges, infatti, per pensare a qualcosa dobbiamo capirne il significato e per farlo dobbiamo astrarre. Per astrarre, poi, abbiamo bisogno di dimenticare i dettagli. «Se non posso estrarre questa informazione, non posso nemmeno arrivare al livello di pensiero profondo che caratterizza gli umani. È ciò che ancora ci distingue dai computer, che sono ottime macchine per immagazzinare informazioni in modo accurato. Il cervello umano, invece, fa l’opposto: immagazzina poche informazioni, dalle quali estrapolare il significato». Un concetto che va contro lo stereotipo, secondo il quale chi ricorda di più è migliore.
Benini, autore del saggio «Neurobiologia del tempo», edito da Raffaello Cortina, nella conferenza «Neurobiologia del tempo: l’orologio è nella testa» rincarerà la dose. Dice infatti: «Non esiste nel cervello un organo in grado di percepire il tempo. Il senso del tempo viene creato da diverse aree». Una serie di eventi biologici è quindi alla base della percezione del tempo, che risulta diverso da persona a persona, perché diverso è il cervello che lo crea. «Anche le emozioni - continua - influenzano il nostro senso del tempo, poiché lobi temporali e sistema limbico sono connessi: se siamo al semaforo rosso e abbiamo fretta, il tempo viene sentito come doppio o triplo rispetto a quando siamo tranquilli».
Einstein, per spiegare la Relatività, ricorreva alla metafora di un uomo seduto su una stufa, ma il concetto è simile. Eppure in entrambi i casi il tempo assoluto, quello dell’orologio, un marchingegno sempre creato dal cervello, è lo stesso. Sul fatto che il senso del tempo sia neuronale e venga trasmesso per via genetica nella forma di meccanismi nervosi non ci sono più dubbi. «Se in quattro punti differenti viene messa acqua zuccherata ogni 10 minuti a tempi diversi, un’ape che impara questo “timing” non sbaglia un colpo, andando a colpo sicuro solo quando è passato un certo intervallo temporale». Tutti gli organismi con un sistema nervoso hanno infatti un senso del tempo, anche se non numerico, come avviene nell’uomo. «Ma c’è di più - conclude -. A ulteriore conferma della natura nervosa del senso del tempo c’è la sua alterazione, fino alla scomparsa in caso di lesioni cerebrali, come avviene in molti pazienti colpiti da ictus o tumori cerebrali».