Corriere 1.11.17
Vichy non fu solo infamia
Il filosofo
israeliano Avishai Margalit pone alcune questioni molto spinose in un
saggio edito da Einaudi. Il collaborazionismo perseguitò gli ebrei e
tradì l’eredità dell’illuminismo ma evitò alla Francia la sorte
terribile della Polonia
di Paolo Mieli
Il regime di Pétain ebbe vasti consensi
e alleviò gli orrori dell’occupazione
F
u tradimento quello di Pétain che collaborò con la Germania nazista,
dopo la sconfitta dell’esercito francese ad opera delle truppe
hitleriane (maggio del 1940)? E chi può essersi considerato tradito, se
la stragrande maggioranza dei francesi — nonché il loro Parlamento
eletto nella seconda metà degli anni Trenta in condizioni democratiche —
si schierarono dalla parte del maresciallo? È l’interessante
interrogativo posto da Avishai Margalit nella parte centrale del libro
Sul tradimento, che Einaudi sta per dare alle stampe con l’eccellente
traduzione di Barbara Del Mercato e Dario Ferrari. Margalit mette a
paragone il destino che toccò in quello stesso frangente storico alla
Polonia (brutalmente sottomessa e colonizzata dai tedeschi) e quello
della Francia a cui fu, appunto, concessa l’«opportunità di collaborare»
con gli invasori. Opportunità fatta propria da gran parte dei francesi,
i quali considerarono un fatto positivo che i tedeschi avessero
lasciato al regime di Vichy l’amministrazione di ben quattro quinti del
territorio nazionale. Ma a cui si mise di traverso il generale de
Gaulle, con l’effetto di essere considerato per lungo tempo egli stesso
un «traditore»: traditore della volontà della maggioranza dei suoi
connazionali. Eppure il collaborazionismo, scrive Margalit, è per
definizione «l’associazione con il nemico», e perciò «la forma più
odiosa di collaborazionismo è il tradimento da parte di individui o
gruppi che condividono l’ideologia dei vincitori». Questo
collaborazionismo «è più ripugnante di quello che segue un tornaconto
personale, dato che il tradimento qui non consiste solo nell’aiutare il
nemico, ma ne sostiene anche la superiorità spirituale, anziché
limitarsi a constatarne la superiorità della forza militare». Inoltre,
«l’identificazione ideologica con il nemico offre una giustificazione al
fatto che gli occupanti tengano ben stretti gli artigli sulle proprie
prede».
I tedeschi, fa notare Margalit, tra il 1940 e il 1944
governarono su oltre 38 milioni di francesi senza dover ricorrere ad
altri che ad una «minuscola parte dei propri amministratori e dei propri
poliziotti». L’interesse degli occupanti a ridurre al minimo il
dispendio degli uomini poté essere realizzato solo grazie ad una
«massiccia» collaborazione da parte della popolazione sottomessa. Tale
occupazione «morbida» ebbe un costo, per l’occupante tedesco: quello di
lasciare una certa autonomia all’occupato. Il guadagno fu però che in
questo modo la Germania nazista riuscì ad «acquistare» (per così dire)
il consenso degli sconfitti. E infatti i francesi scelsero di «farsi
comprare»: «Non tutti i francesi e non per tutta la durata
dell’occupazione ma la maggior parte dei francesi e per la maggior parte
dell’occupazione, accettarono di collaborare». La maggioranza dei
francesi si mostrò — forse anche per giustificarsi agli occhi di se
stessa — convinta che il collaborazionismo fosse «il solo modo per
limitare i danni della sconfitta e per evitare un governo gestito
direttamente dai nazisti». All’epoca de Gaulle, sottolinea Margalit,
risultava per molti suoi connazionali «irrilevante se non peggio,
irritante». L’autore tuttavia ha parole poco diplomatiche anche nei
confronti di coloro che si opposero a Pétain: il movimento della
resistenza francese, la resistenza interna, secondo lui, «sembrava
talvolta più un genere letterario che un’attività ribelle effettiva». Se
si misura la resistenza francese in base alle divisioni che i nazisti
impiegarono a combatterla, essa «non sembra essere stata molto
significativa». Le forze della Francia Libera di de Gaulle, scrive
Margalit, erano «abbastanza impressionanti per quanto riguardava le
cifre, ma non per l’equipaggiamento»; nel momento di massimo splendore,
verso la fine del conflitto, comprendevano 300 mila soldati.
Naturalmente, prosegue il filosofo israeliano, «dopo la guerra convenne a
tutti alimentare il mito secondo cui la Francia era spaccata tra una
maggioranza di resistenti e una minoranza di collaborazionisti».
Fandonie. Questo mito fu peraltro ridotto in frantumi già nel 1969 dal
documentario di Marcel Ophuls Le chagrin et la pitié, che mostrava in
modo assai persuasivo l’altissimo grado di consenso dei francesi
all’occupazione nazista e al regime di Vichy.
Ma se effettivamente
Pétain era sostenuto da gran parte dei suoi compatrioti, in che senso,
si domanda Margalit, li avrebbe traditi? E, data la sconfitta subita
dalla Francia, quali furono le colpe del regime che nacque da quel
rovescio? Nel caso di Vichy e di Pétain, secondo l’autore di Sul
tradimento , «depone contro di loro l’atto inconfutabilmente malvagio
dei rastrellamenti e delle deportazioni di ebrei francesi nei campi di
sterminio». Spogliare gli ebrei francesi della cittadinanza significava
«tradire la Francia come nazione votata alla sua missione universale». È
qui che, secondo Margalit, si annida il «tradimento». Perché? In
seguito alla Rivoluzione francese, Parigi si vedeva unanimemente votata
alla missione di realizzare la volontà universale: la Francia assumeva
«la prospettiva dell’umanità in senso lato», in opposizione «a qualsiasi
definizione etnica del popolo francese». Il regime di Vichy era volto a
«distruggere questa eredità della Rivoluzione francese». Il tradimento
collaborazionista ai danni degli ebrei francesi dovrebbe essere dunque
considerato come il tradimento dell’eredità della Rivoluzione, secondo
cui la solidarietà è fondata unicamente sulla cittadinanza conferita
universalmente.
A questo punto della sua ragionata ricostruzione,
Margalit piazza un colpo ad effetto che impreziosisce la sua
dissertazione e propone quello che lui stesso definisce «un argomento a
favore del collaborazionismo». Se il tradimento a danno degli ebrei
costituì la cartina di tornasole del collaborazionismo con la Germania,
scrive, esso presenta anche qualcosa «che gli apologeti del
collaborazionismo di Pétain possono utilizzare con profitto a proprio
vantaggio». Si parte da Drancy, il campo di transito da cui tra il 1942 e
il 1944 gli ebrei francesi vennero deportati nei campi di sterminio,
«ciò che costituisce innegabilmente una pagina terribile e tragica». È
vero: «Tra i deportati ci furono anche seimila bambini». È altrettanto
vero: i collaborazionisti del regime di Vichy ebbero «un ruolo
vergognoso in questa vicenda». Quel che si è testé detto (e che è
ampiamente documentato) è inoppugnabile. Ma «bisognerebbe mettere a
confronto le cifre» dalle quali balza agli occhi che «il destino degli
ebrei nei Paesi collaborazionisti fu molto migliore di quello che veniva
riservato loro nei Paesi che non collaborarono con i tedeschi». Si
scopre che «nei luoghi in cui la popolazione sceglieva il
collaborazionismo anziché la “polonizzazione”, sopravvisse una
percentuale più alta di ebrei». In Francia, dei 350 mila ebrei presenti
prima della guerra, «solo» 77 mila furono assassinati, mentre
nell’eroica Jugoslavia ne furono trucidati 60 mila su 78 mila. Nel
Belgio collaborazionista il rapporto fu di 29 mila assassinati su 66
mila israeliti di prima della guerra, mentre nella vicina Olanda,
governata direttamente dai tedeschi, ne vennero uccisi 100 mila su 140
mila. In sostanza «per gli ebrei fu meglio vivere sotto un regime
collaborazionista». Certamente nessun Paese scelse di collaborare con i
nazisti «per il bene degli ebrei». Ma «sembra che all’atto pratico per
gli ebrei il collaborazionismo sia stata una scelta migliore della
polonizzazione». Il collaborazionista nega che il suo sia «un gioco
rigorosamente competitivo in cui una parte guadagna esattamente ciò che
l’altra perde». Il collaborazionismo è odioso e umiliante, ma «entrambe
le parti, nonostante l’enorme asimmetria, possono guadagnarci». In che
senso? L’occupazione, scrive il filosofo, comporta una coercizione, ma
coercizione non significa che l’accordo offerto alla parte sconfitta,
ovvero la collaborazione, non sia migliore dell’assenza di ogni accordo:
il collaborazionismo, questa specifica forma di tradimento, secondo
Margalit, «è ciò che di meglio si può fare in alcune circostanze
nefaste». Coloro che detengono il potere e scelgono di accettare questo
genere di accordo «non dovrebbero essere considerati dei traditori ma
dei patrioti che hanno il coraggio di scegliere il male minore in una
situazione di estrema difficoltà». Nel corso della Seconda guerra
mondiale, per gli ebrei — pur in un dramma di proporzioni immani — fu
meglio trovarsi a vivere in Paesi «traditori» e collaborazionisti come
Francia e Belgio che in quelli che «non tradirono» e «non collaborarono»
come la Polonia o la Jugoslavia.
N onostante ciò, secondo
Margalit, fu giusto considerare Pétain un traditore. È la «storia
condivisa del popolo francese», scrive, «che Pétain ha corrotto e
tradito». Il maresciallo «ha tradito con il suo tentativo di creare una
Francia sradicata dalla propria memoria e dall’eredità della Rivoluzione
francese». Avrebbe potuto sostenere «di aver radicato più di chiunque
altro le proprie azioni in un passato condiviso, un passato che la
Rivoluzione aveva distorto creando una Francia omogenea e artificiosa…
In questo senso, chi poteva accusare proprio lui, tra tutti, di aver
tradito il passato condiviso?». Ogni passato, tiene a specificare
Margalit, è composito, è una miscela di elementi nobili e ripugnanti.
Essere leali a un «passato condiviso» significa «qualcosa di più che
accettare tanto i lati positivi quanto quelli negativi». Significa
«impegnarsi a mantenere in vita ciò che si ritiene essere la parte
migliore del proprio passato». Ed è a questo impegno che Pétain, l’eroe
vittorioso della Prima guerra mondiale, è venuto meno. Se interpretiamo
«il tradimento come tradimento della volontà generale della popolazione
occupata», possiamo vedere nel collaborazionismo anche «il tradimento
delle generazioni passate». L’idea è che i rapporti forti di una
comunità in un Paese occupato vadano al di là della popolazione presente
in un determinato momento storico e dovrebbero anzi includere «la
comunità del passato». Un consenso contingente nella comunità che vive
sotto l’occupazione potrebbe «tradire la comunità del passato».
A
fine conflitto Pétain, il 15 agosto del 1945, fu condannato a morte per
alto tradimento (salvo poi vedere commutata la pena in ergastolo),
mentre de Gaulle fu acclamato come eroe nazionale. Ma anche de Gaulle,
per Margalit, merita qualche considerazione. Se portate d’urgenza in
ospedale un vostro amico privo di sensi, scrive, potete decidere a nome
suo, pur in assenza di una delega formale, su alcune questioni che
riguardano la sua salute. Si potrebbe vedere in de Gaulle un «amico» di
questo genere, il rappresentante informale dei francesi, «in uno stato
di necessità di una Francia momentaneamente priva di sensi», che in quel
lasso di tempo si sarebbe trovato «nella posizione migliore per
esprimere il bene comune del proprio Paese».
Ma, avverte l’autore,
«l’idea che in uno stato di necessità un rappresentante possa incarnare
il bene comune di una collettività è un’idea rischiosa: sembra un
invito rivolto a individui affetti da manie di grandezza o dal
cosiddetto “complesso del Messia” ad agire in nome del popolo con la
pretesa di insegnare alle persone ciò che è meglio per loro». E non è
solo un problema di porte spalancate ai megalomani. Si può anche
legittimamente avere paura che la «volontà generale» spiani la strada
alla «democrazia totalitaria». Però, una volta prese le dovute
precauzioni, conclude Margalit, «l’idea di una volontà generale in una
forma o nell’altra, è indispensabile per affrontare la questione di chi
ha diritto di parlare a nome di un popolo che appartiene ad un Paese
militarmente occupato».
Dopodiché il giudizio finale deve tener
conto di alcune importanti circostanze: «De Gaulle, che apparteneva al
medesimo ambiente conservatore di Pétain, aveva il corretto senso
storico di ciò che valeva la pena conservare della storia francese e,
cosa ancor più importante, di ciò che avrebbe comportato il suo
tradimento». Invece Pétain, oltre a un giudizio storico sbagliato,
«elaborò un giudizio morale erroneo, sostenendo un regime fondato sulla
distruzione dell’idea stessa di umanità». In un certo senso, Pétain
«tradì anche il popolo con il quale sentiva di avere un rapporto
estremamente forte, corrompendo i valori del passato condiviso». O anche
solo accettando che fossero corrotti.
In merito al
collaborazionismo, Margalit non si sottrae ad un giudizio sul «caso
orribile» degli Judenräte , i consigli ebraici che il regime nazista
istituì in molti ghetti, costretti a fornire manodopera forzata, a
tenere registri di coloro che venivano mandati nei campi di sterminio e a
collaborare alla deportazione. Non c’è dubbio, scrive il filosofo
israeliano, che nell’Europa sottoposta all’occupazione nazista gli ebrei
subissero, sia collettivamente che individualmente, una «brutale
costrizione». Ciò non ha evitato che dopo la guerra il termine Judenrat
tra gli ebrei divenisse sinonimo di collaborazionismo e di tradimento,
ed essere stato un membro di tali consigli equivaleva — nel loro
giudizio — ad esser stati collaborazionisti. Si trattava, scrive
Margalit, di un giudizio «crudele, sommario e non basato sulla
conoscenza dei fatti». Anche se poi «sullo scivoloso crinale del
collaborazionismo non ci sono appigli a cui aggrapparsi per attutire la
caduta». Il che indurrebbe a pensare che per il tradimento, anche quello
«a fin di bene», ci sia poi un prezzo da pagare. Sempre.