giovedì 9 novembre 2017

La Stampa 9.11.17
Le tre mosse di Pechino per allontanare l’America dall’Estremo Oriente
Pressioni economiche su Taiwan, pugno di ferro sui diritti umani a Hong Kong e sostegno diplomatico al regime di Pyongyang
di Francesco Radicioni

È stata un’accoglienza senza precedenti quella che le autorità cinesi hanno riservato a Donald Trump. Appena atterrato a Pechino, il presidente Usa, accompagnato dalla moglie Melania, è stato accolto da Xi Jinping e dalla first lady cinese, Peng Liyuan, per un tour della Città Proibita, il complesso nel cuore della capitale che per secoli è stata la residenza degli imperatori.
Trump e Xi hanno poi cenato all’interno del Palazzo Jianfu - un’ala della Città Proibita costruita sotto l’Imperatore Qianlong nel XVIII secolo - che fin dalla fondazione della repubblica popolare non aveva mai fatto da scenografia a cene ufficiali con leader americani. I funzionari cinesi lo avevano detto che sarebbe stata «una visita di Stato plus». Un’accoglienza - si mormora a Pechino - che certo mira a lusingare l’ospite prima di affrontare dossier difficili, ma che vuole anche ricordare come la Cina sia stata e rimanga una grande potenza. La stampa di Pechino annota che Trump è il primo capo di Stato straniero ad arrivare a Pechino dopo il Congresso del Partito Comunista, un evento che ha rafforzato la leadership di Xi e rilanciato la retorica del «grande Rinascimento della Cina». Nel corso della visita, il presidente cinese proverà a tratteggiare quello che dovrebbe essere nei prossimi anni lo status dei rapporti tra la prima e la seconda economia del mondo. Xi tornerà quindi a enfatizzare i principi che Pechino vuole mettere alla base delle relazioni sino-americane: rispetto reciproco, cooperazione vantaggiosa per tutti e risoluzione pacifica delle controversie.
Al di là della retorica, a Washington si teme che dietro queste formule si nasconda il tentativo cinese di premere sull’amministrazione americana affinché riconosca che l’Asia è parte della sfera d’influenza della Cina. Xi Jinping proverà anche a convincere gli Usa a rispettare quelli che Pechino considera i propri interessi fondamentali e ad evitare ingerenze su Taiwan, Hong Kong e sui diritti umani. Nei palazzi del potere di Pechino si guarda con una certa preoccupazione alla nuova retorica scelta dall’amministrazione americana, che da alcune settimane pone particolare enfasi sulla «regione dell’Indo-Pacifico libera e aperta». Tra gli analisti cinesi si teme che dietro questa formula si nasconda un nuovo tentativo di Washington di contenere l’ascesa della Cina nell’Oceano Indiano e nel Mar Cinese Meridionale, anche attraverso il rafforzamento dell’alleanza con le democrazie marittime della regione: Giappone, Australia, India. Pechino sospetta insomma la riproposizione sotto altro nome della strategia del «pivot to Asia» voluto da Barack Obama. Anche se, all’inizio del mandato, Trump aveva deciso di ritirare gli Stati Uniti da quello che era il pilastro economico dell’iniziativa della precedente amministrazione: la Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio che univa Washington con 11 economie della regione, esclusa la Cina. Difficile che Trump possa strappare alla leadership cinese impegni sostanziali in materia di restrizioni all’accesso al mercato, reciprocità negli investimenti e pratiche economiche sleali. Ieri, alla presenza del Segretario al Commercio, Wilbur Ross, e il vice-premier Wang Yang, sono stati firmati accordi commerciali per un valore di 9 miliardi di dollari, mentre altri sono previsti per oggi.
Accordi e memorandum di intesa che consentono a Pechino di dimostrare buona volontà nel colmare l’enorme deficit commerciale che esiste tra Cina e Stati Uniti e che ammonta a 347 miliardi di dollari, evitando però di affrontare i problemi strutturali nelle relazioni economiche bilaterali. Poche le aspettative anche sulla Corea del Nord. Pechino ha ribadito che la Cina applica «in modo pieno e rigoroso» le sanzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tuttavia gli analisti cinesi sono convinti che difficilmente la politica di Trump della «massima pressione» su Pyongyang possa dare i suoi frutti. In questi mesi i diplomatici cinesi hanno ripetuto più volte che l’obiettivo deve essere riportare il regime di Kim Jong-un al tavolo dei negoziati e che per farlo l’unica soluzione è quella della «doppia sospensione»: lo stop alle esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, in cambio del congelamento del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Una proposta che Washington non ha mai preso in considerazione.