La Stampa 7.11.17
Nelle pieghe del voto tra impresentabili e lo spirito di Pirandello
I dispetti degli elettori e i nuovi equilibri nella Regione siciliana
di Marcello Sorgi
Forse non aveva proprio torto Renzi, a dire che le elezioni siciliane tutto sommato sono un fatto locale.
Seppure
saranno molto forti le conseguenze dei risultati - il ritorno del
centrodestra, con Musumeci, alla guida della Regione, la «non vittoria»,
verrebbe da dire, citando un indimenticabile Bersani, del Movimento 5
Stelle, e la dura sconfitta del centrosinistra, con il candidato
battuto, Micari, che subito ha annunciato il suo ritiro dalla politica
-, per capire il significato vero del voto occorre addentrarsi nelle
pieghe del lunedì in cui lo spoglio lentissimo, inesorabile, delle
schede, aveva fatto temere, al mattino, perfino un ribaltamento del
quadro politico che alla fine è uscito confermato.
Musumeci ha
parlato per ultimo e ha citato Verga, per definire retoricamente la
Sicilia «terra dei vinti». Ma forse c’è un di più di Pirandello e dello
spirito di contraddizione di Sciascia, nelle menti indecifrabili, per il
leader Pd, degli elettori siciliani, e nelle urne che gli hanno
inflitto una grande delusione, seconda solo a quella della sera del
referendum 4 dicembre 2016.
Prendiamo gli «impresentabili»:
protagonisti, nel bene e nel male, di una campagna elettorale combattuta
senza esclusione di colpi. Dal Pd ai 5 Stelle, allo stesso Musumeci,
perfino (più blandamente) a Berlusconi, tutti avevano invitato gli
elettori a non votarli. E invece sono andati benissimo: il campione,
eletto con più di ventimila preferenze, è quel Luigi Genovese, figlio di
Francantonio, ex-segretario regionale del Pd trasmigrato in Forza
Italia condannato a undici anni. Luigi ha avuto un plebiscito a Messina,
nella città in cui l’elezione del sindaco pacifista in sandali
Accorinti aveva segnato quattro anni fa l’apice della rivolta contro suo
padre e la partitocrazia di cui era l’emblema. E in cui invece
Musumeci, con l’appoggio del campione degli «impresentabili», ha
superato il cinquanta per cento. Come possano gli stessi messinesi
cambiare idea in così poco tempo e votare in due modi opposti è
difficile da spiegare, se non con il fatto che sanno distinguere tra
Comune e Regione, e con la seconda non scherzano. In un sol colpo, son
tornati a votare per i «poteri forti», hanno dato un avvertimento al
primo cittadino e, pur premiandolo, hanno fatto un dispetto politico a
Musumeci, che s’era schierato pubblicamente contro le candidature
opache.
Anche il successo del nuovo governatore va radiografato.
Nel quasi quaranta per cento che lo ha eletto, il nucleo forte è
rappresentato da Forza Italia, guidata dal coordinatore Micciché, cioè
dallo stesso che la volta scorsa, come avversario, riuscì a impedire
l’elezione di Musumeci, dall’Udc e da liste locali e personali di
provenienza post-democristiana. «Diventerà Bellissima», la lista di
Musumeci, insieme a quella di Meloni e Salvini hanno ballato per molte
ore sulla soglia del 5 per cento, correndo il rischio di restare fuori
dall’Assemblea regionale. Vale a dire che chi ha fatto vincere Musumeci
ha voluto al contempo ricordargli quali sono i reali rapporti di forza
interni della coalizione, per far sì che ne tenga conto al momento della
formazione del suo governo.
Sono in molti ora a chiedersi come
farà il vincitore a trovare la maggioranza che i voti, malgrado il
successo, non gli hanno garantito. All’inizio, sarà giocoforza
consentirgli di prendere il largo, perché se l’Assemblea regionale non
lo appoggia e non lo mette in condizione di presentare il bilancio e la
legge di stabilità, va a rischio di scioglimento. Ma poi? Nasceranno
anche qui larghe intese, o Musumeci dovrà cedere al sostegno
occasionale, negoziato di giorno in giorno, con gruppi diversi? Per
rispondere a queste domande, c’è chi guarda Totò Cardinale,
l’ex-ministro delle Comunicazioni del governo D’Alema, che ha lasciato
in eredità alla figlia Daniela il seggio alla Camera e come passatempo
s’è costruito un piccolo partito personale. «Sicilia futura», quotato
oltre il 6 per cento e definito dal suo fondatore, con perfetta
ambiguità, «corrente renziana esterna al Pd», era schierato
ufficialmente con il centrosinistra e il suo sfortunato candidato
sconfitto Micari. Cardinale è pronto a offendersi per le allusioni,
giunte anche alle sue orecchie, all’eventualità che alcuni eletti suoi
amici possano occasionalmente schierarsi, per senso di responsabilità, a
favore di Musumeci, o offrire i propri voti per eleggere Micciché
presidente dell’Assemblea. L’ex-ministro infatti ha la figlia che sta
per ricandidarsi e può essere rieletta con l’appoggio del partito del
padre in un collegio uninominale. Sa bene che in questo frangente,
almeno fino alla prossima primavera, Renzi non tollererebbe un
cedimento. Ma dopo le elezioni politiche, chi potrebbe considerare
imperdonabile una piccola apertura di «Sicilia futura» alle ragioni
della governabilità siciliana?
Si tratterebbe, in fondo, di una
sorta di voto disgiunto, tra Roma e Palermo. Come quello che ha
penalizzato oltremisura il rettore Micari, per l’azzardo di volersi
cimentare - lui, ingegnere, uomo di studi tecnici - con la politica
siciliana. Nel voto per la presidenza, Micari ha avuto l’8 per cento in
meno delle liste che lo sostenevano, dirottato verso Cancelleri, il
candidato pentastellato che ha superato della stessa percentuale la
lista del suo Movimento. Mentre a Fava e alla sinistra, i dispettosi
elettori anti-Micari hanno riservato solo le briciole. Una doppia
punizione, che ha reso la sconfitta ancora più amara.