La Stampa 6.11.17
E la Cina sogna il sorpasso all’America
di Bill Emmott
Il
Presidente degli Stati Uniti sta per arrivare in Cina proprio nel mezzo
della visita più lunga in Asia di un Presidente americano negli ultimi
25 anni: in tempi normali sarebbe una dimostrazione di forza.
Ma
quando mercoledì Donald Trump arriverà a Pechino dopo le tappe in
Giappone e Corea del Sud, la sensazione dominante sarà di debolezza.
Pochi funzionari e osservatori potranno evitare di pensare che nel giro
di pochi anni il presidente cinese Xi Jinping potrebbe sottrarre agli
Usa la leadership globale.
Sarebbe prematuro crederlo, ma non
necessariamente infondato. Per quasi un millennio gli imperatori cinesi
si sono aspettati che i capi di Stato stranieri in visita rendessero
loro omaggio, portando doni e onorandoli. Il presidente Trump forse non
se ne rende conto, ma sta per fare qualcosa di simile. Chiederà l’aiuto
della Cina per trattare con la Corea del Nord, il Paese che negli ultimi
tempi sta minacciando gli Usa con missili nucleari a lunga gittata, e
si attende l’annuncio di qualche accordo commerciale che agli occhi dei
cinesi rappresenterà il prezzo da pagare per questo aiuto.
Il
predecessore di Donald Trump, Barack Obama, in Asia perseguiva una
politica che aveva due linee guida: un grande progetto di scambi
commerciali e di investimenti con 11 Paesi dell’area asiatica e
pacifica, il Partenariato Trans-Pacifico (Trans-Pacific Partnership),
che escludeva la Cina con l’intento di permettere agli Stati Uniti di
stabilire le regole del gioco e il «pivot to Asia» che prevedeva il
rafforzamento del sostegno militare nella regione in funzione di
contrasto ai tentativi della Cina di controllare il Mar Cinese
Meridionale costruendo atolli artificiali e basi in acque
internazionali.
Appena diventato presidente Trump ha stracciato
l’accordo per il Partenariato Trans-Pacifico. Anche la sua avversaria,
Hillary Clinton, durante la campagna elettorale sosteneva di non
volerlo, ma si supponeva che avrebbe cambiato idea una volta arrivata
alla Casa Bianca, proprio come suo marito, Bill Clinton aveva fatto nel
1993 per l’Accordo nordamericano per il libero scambio (North American
Free Trade Agreement). L’amministrazione Trump, invece, ha preso a
minacciare la Cina di imporre tariffe e misure protezionistiche
sull’acciaio e altri prodotti di esportazione, ma fin qui non ha fatto
nulla.
Nel campo della difesa e della sicurezza gli Stati Uniti
hanno in sostanza ignorato qualunque altra problematica, compresa
l’espansione territoriale della Cina, per concentrarsi sulla Corea del
Nord, che Trump nei suoi discorsi e nei suoi tweet ha minacciato di
«totale distruzione», accusandone il leader, Kim Jong-un, di aver
intrapreso una «missione suicida». Un modo, nella sua ottica, per
dimostrare la forza e la determinazione dell’America dopo anni di
fallimenti e manifestazioni di debolezza.
Il problema è che, a
meno che non sia pronto a invadere la Corea del Nord, Trump rischia di
rendere evidente la sua impotenza, ovvero, per usare una definizione in
voga nella Cina maoista degli Anni 50, di essere una «tigre di carta».
Il capo degli stati maggiori riuniti, il contrammiraglio Michael Dumont,
in una lettera indirizzata a un parlamentare statunitense divulgata
ieri, ha affermato che un’invasione via terra sarebbe l’unico modo per
localizzare e annientare l’arsenale nucleare di Pyongyang e che una tale
opzione implicherebbe un numero incalcolabile di vittime.
Per
questi motivi è sensato che gli Stati Uniti rafforzino la loro alleanza
con il Giappone e la Corea del Sud, come ha fatto Trump visitando per
primi questi Paesi nel suo tour asiatico di 11 giorni. Ma, a meno che
non riesca a persuadere la Cina a fare qualcosa di concreto, o per via
economica o per via militare, non si vedono possibili progressi nella
soluzione del problema nordcoreano. E nel frattempo Kim Jong-un potrebbe
anche cercare una prova di forza, tirando fuori nuovi missili e magari
conducendo qualche nuovo test nucleare durante la permanenza di Trump in
Asia.
Insomma, il Presidente degli Stati Uniti nella migliore
delle ipotesi apparirà impotente e nella peggiore un accattone. C’è
anche la possibilità che mentre si trova in uno dei cinque Paesi dove ha
in programma di fare tappa, in patria, a Washington, Dc, Robert
Mueller, il procuratore speciale che sta indagando sulle possibili
collusioni con la Russia durante la sua campagna elettorale per
influenzare l’esito del voto, annunci nuovi arresti e faccia trapelare
nuove informazioni. E se così sarà, il viaggio del Presidente
assomiglierà sempre di meno alla trionfale ostentazione di potere dei
suoi desideri e sempre di più a un giro di saluti di congedo.
Certo,
è prematuro ipotizzare che il presidente Trump possa essere esautorato
dall’ex direttore dell’Fbi Mueller, così come lo è dire che la Cina sta
per aggiudicarsi la leadership globale. Ma in quest’ultimo caso è
corretto affermare che la debolezza degli Stati Uniti rappresenta una
grande opportunità in questo senso. La Cina ha l’occasione di rafforzare
le sue relazioni nella regione e, mentre l’America è distratta, di
accrescere la dipendenza degli altri Paesi asiatici in tema di commerci,
aiuti, investimenti e sicurezza.
La Cina ha già avviato la sua
grande opera strategica, la «Nuova via della Seta», con enormi
investimenti in infrastrutture e agevolazioni commerciali, passando
dall’Asia all’Europa attraverso l’Asia Centrale. E’ un’ambizione
simbolica, ricreare la Via della Seta che nel Medioevo collegava
l’Italia e le altre città europee con Pechino. Ma è anche un’ambizione
politica, creare legami di dipendenza dalla Cina, imponendo la sua
autorità e la sua influenza in tutta la regione.
Cioè quello che
un tempo faceva l’America. La visita di Trump conferma che quei tempi
sono tramontati, anche se il momento della Cina è ancora di là da
venire.
Traduzione di Carla Reschia