La Stampa 3.11.17
Michael Walzer, 82 anni
“La grande disillusione Il bolscevismo ha corrotto la sinistra”
Il filosofo liberal americano: “Ha costretto le menti migliori a difendere l’indifendibile”
di Francesca Paci
Minuto,
la voce bassa quasi afona, Michael Walzer non ha l’aria del
provocatore. Eppure questo ottantaduenne a braccetto con la moglie per
il mercato di Forlì, dopo la relazione sull’eredità del 1917 al
«900fest», è il grillo parlante che da più di mezzo secolo sfida la
sinistra americana a rimettersi in gioco. Dal lancio della ormai storica
rivista Dissent alla teoria della guerra giusta, dalla sovrapposizione
tra socialismo democratico e liberalismo al radicalismo
politico-religioso, il filosofo di Princeton, tra i massimi politologi
statunitensi, non ha mai smesso di cercare la sintesi tra giustizia
sociale e libertà.
La Rivoluzione russa fu raccontata in Occidente
da John Reed, comunista americano. Che presa ha avuto il comunismo
sulle due sponde dell’Atlantico?
«L’eurocomunismo flirtava con
l’Urss ma non era stalinista. Neppure quello italiano lo fu, e questo ha
agevolato la sua trasformazione democratica. Negli Stati Uniti invece
il comunismo è stato sempre minoritario ma è rimasto stalinista e
settario a lungo. L’anno del cambio di passo è il ’68, quando la
sinistra americana, me compreso, si concentra sui diritti civili e le
campagne no war e va allo scontro con la sua componente sovietica che
aveva altre priorità».
Nel ’68, a 33 anni, militava con la sinistra anti-stalinista. E prima di allora?
«Sono
cresciuto in una famiglia ebrea liberal. A 10 anni scrissi una
storiella della Seconda guerra mondiale in cui dicevo che la Russia non
combatteva per l’ultima conquista ma per l’ultima delle conquiste. Tre
anni dopo, davanti al blocco di Berlino, annunciai a casa il mio
endorsement per Truman contro Wallace: avevo già preso le distanze da
Mosca».
Pochi oggi rimpiangono i bolscevichi. Il marxismo sta invece tornando di moda?
«Sul
piano intellettuale abbiamo grande bisogno di quello studio della
classe lavoratrice, ci aiuterebbe a capire gli elettori di Trump. Ma
politicamente l’eredità della dittatura del proletariato è stata negata
dalla storia».
E la Rivoluzione d’Ottobre?
«L’eco del
bolscevismo non si sente più se non in alcune regioni dell’Asia. Resiste
poi negli intellettuali di estrema sinistra alla Zizek, che lo
associano alle avanguardie e alla liberazione sessuale dimenticando che
furono represse dai soviet. Quella rivoluzione è sopravvissuta più a
lungo in Occidente che altrove. Per quanto venga dal Kgb, Putin ricorda
più lo zar che Lenin. L’Ungheria e la Polonia, invece, non vivono una
deriva neocomunista ma neofascista, pagano il fallimento del dissenso
che sostenni negli Anni 70».
E nella Cina del presidente Xi, l’ultimo a regnare sotto l’icona della falce e del martello?
«C’e Pechino, certo. Ma simboli a parte, quello cinese è ormai un regime capitalista».
La rivista Dissentnasce nel 1954, quando l’Urss seppellisce Stalin e in America infuria il maccartismo. Che anni erano?
«Studiavo
all’Università di Pennsylvania. Dissent fu fondata da un gruppo di ex
trockisti tra cui il mio professore, Irving Howe, che mi invitò a
collaborare. In quel momento la sinistra radicale americana era ancora
accecata dall’Urss e Dissent nasceva per contestare sia lo stalinismo
sia il maccartismo».
Che secolo sarebbe stato il ’900 se Lenin avesse fallito?
«Se
avessero vinto i menscevichi invece dei bolscevichi avremmo forse avuto
una rivoluzione socialdemocratica. Tutto precipitò proprio quando i
bolscevichi identificarono nei socialdemocratici il nemico spianando la
strada al nazismo, perché i comunisti tedeschi si fecero persuadere dal
“tanto peggio tanto meglio”».
Quanto abbiamo perso inseguendo l’utopia?
«Il
comunismo ha corrotto la sinistra costringendo le sue menti migliori a
difendere l’indifendibile. Alcune rivoluzioni hanno in sé il germe della
tirannia. Quella americana non lo aveva ma nel Dna del leninismo c’era
qualcosa. Allora, a sinistra, l’argomento difensivo era che la struttura
gerarchica della diseguaglianza fosse così profonda da poter essere
rovesciata solo con la dittatura. In parte è vero, ma è pericoloso. Ne
siamo usciti con le ossa rotte, disillusi».
Nel 1988 scriveL’intellettuale militante. È pensabile oggi una figura così?
«I
migliori sono stati emarginati dalle dittature. Penso a Gramsci ma
anche a Silone, il mio maestro assieme a Camus. Sono troppo vecchio per i
social media ma non mi paiono la risposta. Orwell sarebbe capito? C’è
spazio per uno come Willy Brandt? Ci sono troppe voci e mancano quelle
critiche, non solo a sinistra. In America avremmo bisogno di un dissenso
di destra».
Nel saggio La rivoluzione dei santi associa puritani,
giacobini e bolscevichi correlando la religione al radicalismo
politico. È il caso dell’islam estremista?
«Ci sono paralleli con
l’Isis. Nel mondo musulmano l’islam radicale compensa il fallimento
delle forze secolari. Negli Anni 60 la sinistra americana aveva accanto
molti preti. Oggi quelli di loro che sono ancora in politica osteggiano i
diritti delle donne e dei gay: furono attenti ai diritti civili ma non
lo sono sul gender. Credo che il risveglio religioso sia anche una
risposta alla liberazione delle donne e dei gay».
Il crollo dell’Urss ha risolto la contraddizione tra libertà e giustizia sociale?
«Ahimè
no. In Urss la giustizia sociale ha prodotto una società ingiusta, ma
in America il frutto della libertà economica è stato una non libertà
politica».