La Stampa 3.11.17
Il “secolo del comunismo” l’altra faccia della modernità
L’esperienza sovietica ha segnato il ’900 Un modello di totalitarismo che la accomuna ai regimi fascisti di Italia e Germania
di Giovanni De Luna
Nel
1960 oltre un terzo dell’umanità viveva sotto regimi ispirati al
principi della rivoluzione bolscevica del 1917. Sembrò allora che il
Novecento dovere essere davvero il «secolo del comunismo». E, invece,
agli inizi degli Anni Novanta, solo quattro Stati (Cuba, Cina, Corea del
Nord e Vietnam) si proclamavano ancora comunisti. Fu un terremoto
geopolitico, culminato nella dissoluzione dell’Urss. Ne seguì,
immediata, una drastica condanna storiografica: Il libro nero del
comunismo (1998), curato da Stéphane Courtois, era esplicitamente
concentrato su «crimini, terrore e repressione», proponendone una storia
«criminale» che allineava Stalin al fianco dei dittatori più sanguinari
del XX secolo. Molti dei giudizi che affioravano nel libro erano
fondati; altri risentivano di una esplicita strumentalità politica: un
groviglio tipico di un «uso pubblico della storia» che, in quel momento,
rimbalzava dalle ricerche di archivio alle polemiche giornalistiche.
Forse
oggi è possibile tentare invece un complessivo bilancio storiografico
dell’esperienza sovietica. Il punto di partenza può essere la tesi di
Eric Hobsbawm, lo storico del «Secolo breve»: il comunismo - con la
pianificazione centralizzata dell’economia - si è rivelato una formula
efficace soltanto quando si è trattato di costruire rapidamente le
industrie di base e le infrastrutture essenziali, agevolando
l’evoluzione di nazioni arretrate (come nel caso dei Paesi ex
coloniali).
Per industrializzare la sua economia e per
modernizzare la sua società, l’Unione Sovietica aveva infatti seguito un
percorso del tutto diverso da quello dei Paesi dell’Europa occidentale.
Una specificità dovuta all’assenza, in Russia, delle grandi rivoluzioni
liberali della fine del XVIII secolo, quelle che portarono al
definitivo annientamento dell’Ancien Régime, ponendo le basi di un
modello di sviluppo fondato sul capitalismo in economia e sulla
democrazia in politica. In Unione Sovietica, invece, il fatto che
l’«antico regime» fosse stato messo in discussione ben più di un secolo
dopo e che, con lo stesso ritardo, si fosse posto il problema dello
sviluppo industriale, aveva imposto tempi più rapidi per la necessaria
accumulazione del capitale, che il mercato e una borghesia numericamente
e culturalmente debole non sarebbero stati in grado di garantire.
Con
Hobsbawn si può dire quindi che il comunismo sia stata la risposta alle
esigenze di una modernizzazione che, in assenza di una rivoluzione
liberal-democratica, la borghesia russa non era in grado di proporre e
di gestire. Un dato per tutti: nel 1913 l’impero zarista aveva il 3,6%
della produzione industriale mondiale; con l’Urss, nel 1986, la
percentuale era salita al 14,6%.
Su questi risultati incombono
però i milioni di vittime della repressione; le «conquiste» del
comunismo hanno avuto un costo spaventoso in termini di libertà e di
vite umane. Senza contare che il modello economico sovietico è stato
comunque incapace di reggere la sfida capitalistica sul piano delle
innovazioni tecnologiche, rimanendo troppo a lungo ancorato a un sistema
industriale superato, affollato di industrie pesanti di base e reso di
colpo obsoleto dallo sviluppo del mondo globalizzato.
Oltre alla
drammatica realtà del comunismo in Russia, ci sono stati però altri
aspetti di quell’esperienza rilevanti sul piano mondiale. È indubbio, ad
esempio, che sia stata una delle matrici dei movimenti di liberazione
nazionale e dell’ondata di lotte contro il colonialismo che hanno
attraversato il pianeta nel secondo dopoguerra, dalla Cina al Vietnam,
dall’Africa all’America Latina. Come ci ha ricordato Enzo Traverso, è
stato in quel contesto che ha preso forma una sintesi originale tra
marxismo, nazionalismo e anticolonialismo. Ma neppure questi movimenti
sono sfuggiti alla fatale simbiosi con la dittatura. La tragica vicenda
della Cambogia dei khmer rossi, e di uno spietato dittatore come Pol
Pot, ebbe, tra le sue molteplici radici, indubbiamente anche lo
stalinismo.
Sul piano dell’efficacia interpretativa, però, la
categoria del totalitarismo è ancora oggi quella che ci restituisce con
più nettezza i lineamenti del regime nato nel 1917, sradicandolo dalla
sua specificità russa per consegnarlo a una dimensione compiutamente
europea. I totalitarismi che si affermarono in Italia, Germania, Unione
Sovietica condivisero questi elementi: l’uso della violenza per
conquistare il potere; il controllo dell’economia da parte dello Stato;
il monopolio di un partito unico; l’azzeramento della società civile.
Sotto questi aspetti, il comunismo riveste i tratti di una esperienza
specifica del Novecento e irripetibile al di fuori di quel contesto
cronologico: fu a suo tempo Hannah Arendt a sottolineare tali
caratteristiche, indicando i punti (il culto di un capo assoluto,
l’utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione, un’organizzazione
poliziesca sempre più capillare e efficiente) che legano il
totalitarismo alla modernità e a una società di massa inconcepibile
prima del Novecento.