La Stampa 29.11.17
Sempre meno privilegi e più burocrazia
Ecco perché le nozze hanno perso appeal
Resta qualche vantaggio fiscale, ma solo se il reddito è basso
di Maria Corbi
In
un mondo precario, anche in amore non esiste più il «per sempre» e
l’istituzione del matrimonio rischia di diventare anacronistica. E se da
noi non è ancora come in Gran Bretagna, Germania, Francia, Danimarca,
Finlandia, dove i conviventi superano le coppie sposate, i dati indicano
che la strada è la stessa. Ci si sposa di meno per diversi motivi: sono
cambiati i costumi, certo, ma soprattutto diminuisce la «convenienza»
del contratto sentimentale a lunghissimo termine («fine pena mai», come
dicono i detrattori). Perché le varie leggi che si sono succedute
(ultima quella sulle Unioni civili e le convivenze di fatto che ha preso
il nome dalla senatrice Monica Cirinnà), hanno eroso i privilegi di
status, economici, e anche successori che il matrimonio ha fino a poco
tempo fa portato con sè.
Intanto, dal 2012 in Italia non ci sono
più differenze tra figli naturali nati fuori dal matrimonio e figli
legittimi. E la legge Cirinnà ha fatto il resto, eliminando molte delle
differenze riguardanti i rapporti tra i due partner. Nella seconda parte
(la prima è dedicata alle Unioni civili) si disciplina la convivenza di
fatto tra due persone che non sono sposate che potranno stipulare i
contratti di convivenza, in forma scritta, davanti a un notaio. Vi si
può indicare la residenza, le modalità di contribuzione economica alla
vita comune dei due conviventi, il regime patrimoniale della comunione
dei beni come da codice civile (che può essere modificato in qualunque
momento). Quindi in pratica mentre nel matrimonio i contratti
«prematrimoniali» che tanto vanno di moda negli Stati Uniti non sono
validi, nelle convivenze di fatto sono possibili, aumentando «l’appeal»
di questo tipo di accordo rispetto alle nozze.
Il matrimonio però
mantiene qualche «privilegio» fiscale, come ci spiega il dottore
commercialista Francesco Luvisotti, ma solo in alcuni casi e quando il
reddito non è alto. «Nel matrimonio se lavora solo uno dei due coniugi
l’altro può risultare fiscalmente a carico cosa che non è possibile in
caso di convivenza di fatto», spiega l’esperto. Possibilità concessa
invece alle Unioni civili. Qui i partner dello stesso sesso sono
assimilati al coniuge ai fini fiscali, anche ai fini dell’applicazione
di detrazioni per familiari a carico. Resta fermo il requisito di
reddito del familiare a carico che non deve essere superiore a 2 mila
840,51 euro lordi.
Altra convenienza del «matrimonio» sta nel
fatto che in caso di separazione l’assegno per gli alimenti può essere
detratto interamente dal reddito di chi lo deve pagare. Ma quel che
accade per questa «differenza» è che a volte ci si separi per avere un
vantaggio fiscale. E quindi il matrimonio ne esce perdente ancora una
volta.
Per non parlare dei costi e delle pratiche burocratiche che
un divorzio porta con sé. Mentre lasciarsi da una convivenza, anche se
registrata e regolata, è molto più facile. «Il matrimonio è una
istituzione rigida», dice Marcello che dopo un matrimonio finito adesso
convive ed è diventato di nuovo padre. «Per separarmi da mia moglie è
stato un calvario emotivo, burocratico ed economico. Anche se eravamo
d’accordo quasi su tutto. Non credo che mi risposerò anche perché mio
figlio ha gli stessi diritti dei fratelli nati in costanza di
matrimonio. E con la mia compagna abbiamo siglato un accordo di
convivenza che la tutela in caso io mi ammali, muoia o anche se ci
lasciassimo».