giovedì 23 novembre 2017

La Stampa 23.11.13
Don Sturzo, l’economia libera trova il suo “santo” patrono
Domani si chiude la fase diocesana del processo di beatificazione del fondatore del Partito popolare che criticò aspramente lo statalismo
di Alberto Mingardi

Difendere la libertà economica come si difende la libertà politica, perché l’una non può esistere senza l’altra; fare per la libertà economica anche il sacrificio dei propri privilegi; non avere paura della libertà, se questa comporta rischi e obbliga ad assumere responsabilità». Don Luigi Sturzo divenne senatore a vita nel 1952. Quella nomina era un omaggio di Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica e in sintonia col fondatore del Partito popolare. A molti non dispiaceva riporre Sturzo nella nicchia angusta dei padri della patria. Aveva trascorso il ventennio in esilio, prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Rientrato in patria, non si contentò di diventare un monumento. «Dal giorno che, dopo lunghi anni di attesa, potei baciare in terra italiana, mi sentii chiamare da amici e da estranei: maestro. Non posso esprimere il disturbo e il fastidio che mi ha dato questo appellativo inaspettato».
Partecipò al dibattito pubblico, scrisse, perse la solidarietà politica dei cattolici per rimanere fedele a se stesso. «Parlo, scrivo, combatto perché sono un uomo libero e perché ho difeso e difenderò, finché avrò fiato, la libertà».
Dagli scritti degli Anni Cinquanta, pubblicati alcuni anni fa per iniziativa di Guido Roberto Vitale in un bel volume curato da Giovanni Palladino e con prefazione di Massimo Cacciari (Il pensiero economico), emerge uno Sturzo che aveva capito ciò che i suoi concittadini vedranno chiaramente soltanto quarant’anni dopo, con Tangentopoli: che lo statalismo avrebbe diffuso la corruzione. Per questo egli criticò l’Eni di Enrico Mattei e più in generale l’economia «a mezzadria pubblico-privata».
Quest’ultima era un equilibrio precario: la componente statale, previde Sturzo, avrebbe ristretto gli spazi dell’economia libera e piegato anche le imprese propriamente dette ai suoi bisogni. In questo modo, «lo Stato di diritto va scomparendo: abbiamo al suo posto i piccoli e grandi Eni, i piccoli e grandi Iri e il ministero delle Partecipazioni».
Con lucidità, Sturzo aveva anche ben compreso come la nazionalizzazione delle banche avrebbe portato alla «politicizzazione» del credito, peggiorando l’efficienza del sistema economico. Le aziende avrebbero subito la tentazione di avvicinarsi al potere per godere di credito facile e, dal momento che la prossimità alla politica avrebbe assicurato una corsia preferenziale per realizzare i propri progetti, gli imprenditori si sarebbero adoperati per intercettare la benevolenza dei politici. Questo significava la paralisi dello spirito di iniziativa «per fare del cittadino un funzionario di grandi e piccoli enti, con la sola ambizione della promozione, del trasferimento, della gratifica». Il danno principale dello statalismo sarebbe stato «nel campo della formazione psicologica di un popolo».
Per questo, come ha ricordato Nicola Antonetti, «Sturzo pensò che il cortocircuito tra partiti e vita sociale andasse spezzato alla sua origine». Egli promosse un disegno di legge per evitare che i partiti fossero finanziati da aziende di Stato o da imprese che allo Stato dovevano una concessione (finanziamenti che «per la loro origine e per il loro carattere particolare» renderebbero i partiti «conniventi» con tali interesse). Le cose, com’è noto, sono andate diversamente.
Domani si chiude la fase diocesana del processo di beatificazione di don Sturzo. L’importanza del monumento non è in discussione. In pochi riescono a non ammirare l’uomo che ha immaginato per i cattolici un impegno politico trasparente, superando il «non expedit», e poi il nemico della dittatura. Ma la grandezza di Sturzo sta anche nella sua lucidità. A quasi sessant’anni dalla sua morte non abbiamo smesso di «enizzare e irizzare» l’economia italiana. Le sue polemiche serrate contro l’industria siderurgica che strepitava contro la Ceca, la comunità europea del carbone e dell’acciaio, sembrano fatte apposta per i discorsi di oggi, quando l’aggettivo «strategico» viene distribuito dalla politica con grande generosità a questo o quel settore imprenditoriale.
Va da sé che nel processo di beatificazione conta ben altro che il pensiero politico. Tuttavia la libertà economica può forse trovare, finalmente, il suo Santo Patrono. Dio solo sa, è il caso di dire, quanto ne abbia bisogno.