La Stampa 22.11.17
Il populismo che azzoppa i parlamenti
di Giovanni Sabbatucci
È
facile oggi elencare gli errori di Angela Merkel e metterla sotto
accusa per gli stessi motivi (le politiche migratorie) per cui era stata
tanto lodata fino a ieri. Ed è inutile stupirsi più di tanto per le
traversie in cui si dibatte in questi giorni il sistema politico
tedesco, celebrato dai più come modello di stabilità e di funzionalità
democratica. Né ha molto senso preoccuparsi per il destino della
autorevolissima cancelliera, che non riesce a costruire una maggioranza,
ma ha ancora buone probabilità di succedere a se stessa, magari
attraverso un nuovo passaggio elettorale. La verità è che la Germania
sta sperimentando sulla propria pelle difficoltà comuni a tutti i
sistemi parlamentari europei; e che il suo modello
politico-istituzionale, buono nell’epoca della guerra fredda e della
divisione del Paese, non basta da solo a preservarla dagli scossoni che
hanno compromesso in questi ultimi anni la governabilità di altri Paesi
membri dell’Unione.
È appena il caso di ricordare che il Belgio
(fra il 2010 e il 2012), la Spagna (fra il 2013 e il 2014) e da ultimo
l’Olanda (2017) sono rimasti affidati per lunghi mesi o per interi anni a
governi in carica «per gli affari correnti», in assenza di vere
maggioranze politiche; e che la stessa Italia rischia di trovarsi da qui
a qualche mese in una situazione analoga. I problemi nascono dalla
combinazione di due fattori: il primo, strutturale, riguarda le regole
dei sistemi parlamentari; il secondo, congiunturale, rinvia alle
trasformazioni economiche e sociali che hanno segnato questo inizio di
millennio.
Partiamo dal sistema parlamentare. Lo inventarono gli
inglesi nel Settecento, per assicurarsi contro possibili tentazioni
assolutiste della corona (cui la teoria di Montesquieu attribuiva la
titolarità del potere esecutivo) e per sancire il primato degli
organismi rappresentativi. Quella prassi subordina infatti l’esistenza
del governo alla fiducia del Parlamento e dunque lo lega
indissolubilmente agli equilibri che si creano nelle assemblee
legislative. Perché il sistema funzioni occorre ovviamente che ci sia
una maggioranza. E occorre che questa maggioranza non minacci i
fondamenti costituzionali dello Stato, le sue scelte internazionali di
fondo e i suoi valori condivisi: che si muova insomma all’interno di
un’area della legittimità, oggi in larga parte coincidente con quella
della fedeltà alle istituzioni europee e agli ideali europeisti.
Che
cosa accade invece in Europa? Accade - e qui veniamo al fattore
congiunturale - che le paure e i risentimenti suscitati dalla crisi
economica e dalle ondate migratorie creino condizioni favorevoli allo
sviluppo di movimenti populisti, nazionalisti, sovranisti, più o meno
esplicitamente ostili alla Ue, ma spesso anche estranei ai valori e alle
pratiche del pluralismo e della democrazia rappresentativa. In alcuni
Paesi dell’Est (Ungheria e Polonia soprattutto) movimenti così connotati
sono diventati forze di governo o parte delle maggioranze. In Europa
occidentale quei gruppi restano lontani dalla possibilità di competere
per il potere centrale (l’eccezione, stando ai sondaggi, potrebbe essere
proprio l’Italia). Il fattore P (come «populismo») agisce ancora come
elemento discriminante per segnare i confini dell’area della
legittimità. Ma è l’intera area a restringersi pericolosamente, causa i
successi elettorali delle forze anti-sistema. E dentro quest’area può
non esserci spazio per una maggioranza solida, men che meno per due
maggioranze che si alternino in base ai verdetti delle elezioni. Neanche
il ricorso alle grandi coalizioni sembra peraltro praticabile nel
momento in cui i socialisti, come sta accadendo in Germania, si
sottraggono a esperienze di governo per loro logoranti e costose in
termini di consensi. Quanto ai governi di minoranza o governi del
presidente, si tratta di formule nominalistiche che aggirano il problema
senza risolverlo (un voto di fiducia qualcuno dovrà pur darlo), in
assenza di un capo dello Stato dotato di poteri straordinari.
Se e
quando si uscirà dall’impasse non è dato sapere. Sarebbe però opportuno
cominciare fin d’ora a riflettere su come allontanare per il futuro lo
scenario weimariano dell’ingovernabilità e del ricorso ripetuto alle
urne. Il sistema tedesco - lo abbiamo visto - non basta allo scopo.
Quello, nuovo di zecca, con cui andremo a votare fra pochi mesi, non è
accreditato al momento di grandi effetti stabilizzatori. L’unico
dispositivo elettorale capace di costringere gli elettori a una scelta e
a indicare comunque un vincitore è quello basato su un doppio turno
(nazionale e non solo di collegio) che costringa gli elettori a una
scelta finale. Non è forse un caso se oggi la Francia, con tutti i suoi
problemi, può vantare il più alto tasso di stabilità politica di tutta
l’Europa occidentale.