La Stampa 22.11.17
I maledetti del Novecento catturati dal vortice fascista
Andrea
Colombo racconta la storia di sedici intellettuali, da Céline a Pound,
coinvolti in gradi diversi nell’ideologia razzista e totalitaria
dell’estrema destra
di Claudio Gallo
Come
l’Angelus novus di Klee, che Benjamin vedeva con lo sguardo rivolto
all’indietro, l’inizio del XXI secolo resta ossessionato dagli orrori e
dalle passioni del secolo precedente. In questo filone di febbrile
rilettura si colloca I maledetti, dalla parte sbagliata della storia di
Andrea Colombo (Lindau, pp. 262, € 21) le vicende di sedici grandi e
meno grandi intellettuali contaminati dall’ombra demoniaca del ’900. La
scelta dell’autore è subito chiara, niente taglio saggistico, niente
note: il lettore è affidato al potere delle storie individuali
attraverso una scrittura giornalistica che mentre spiega vuole
intrigare.
Che cosa accomuna questi personaggi così diversi tra
loro (Hamsun, Céline, Benn, Heidegger, Gentile, Lorenz, Riefenstahl,
Cioran, Eliade, Sironi, Marinetti, Pound, Wyndham Lewis, Evola,
Brasillach, Eliot) è suggerito da Colombo nell’introduzione: «la
consapevolezza che l’800, il secolo dei buoni sentimenti, del
liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un
progresso illimitato, era definitivamente tramontato. Dalle macerie
della Prima guerra mondiale doveva sorgere un nuovo mondo completamente
trasfigurato».
Illustrano bene quello spirito che aleggiò a più
riprese sull’Europa, dall’inizio del ’900 agli Anni 40, le parole di
George Valois, passato dall’anarco-sindacalismo al Faisceau, il fascismo
francese, e morto anti-nazista nel lager di Bergen-Belsen. Le cita Zeev
Sternhell nel classico Né destra, né sinistra: «Fascismo e Bolscevismo
sono una stessa reazione contro lo spirito borghese e plutocratico. Al
finanziere, al petroliere, all’allevatore di maiali che credono di
essere i padroni del mondo e vogliono organizzarlo secondo la legge del
denaro, secondo i bisogni dell’automobile, secondo la filosofia dei
maiali, e piegare i popoli alla politica del dividendo, il bolscevico e
il fascista rispondono levando la spada». Nonostante nel secondo
dopoguerra i due movimenti politici siano stati talvolta collocati nella
medesima categoria di totalitarismo, l’accostamento tra fascismo e
comunismo sembra ancora oggi arduo, ma proprio per questo testimonia
bene lo spirito insofferente dell’epoca.
L’irrazionalismo fascista
e il culto della razza sfociano nell’antisemitismo che l’autore ritrova
in quasi tutti i suoi protagonisti. Non si tratta di un antisemitismo
granitico: ci sono sfumature e differenze importanti come faceva notare
negli Anni 70 il finlandese Tarmo Kunnas nel suo La tentazione fascista.
Non giustificano un’assoluzione, ma rivelano una realtà non facilmente
riconducibile e categorie generali troppo nette: apparentemente, il
razzismo non fa parte, ad esempio, dell’orizzonte di Ernst Jünger o di
Gottfried Benn, mentre è radicato nell’irrazionalismo di Céline (una
parola definitiva sul tema l’hanno detta Pierre-André Taguieff e Annick
Duraffour in Céline, la race, le juif pubblicato in Francia da Fayard
all’inizio dell’anno).
D’altra parte il fascismo, come reazione
alla ragione positivista e all’ipocrisia borghese, si appella alla
volontà, all’inconscio, a tutto un armamentario irrazionale nemico di
ogni misura. Il risultato non cambia, ma talvolta leggendo Céline o
Drieu La Rochelle ci si chiede se certe conclusioni aberranti non siano
più imposte dal demone dello stile che dal pensiero. Ripercorrendo le
vite dei proscritti di Colombo, si riflette anche sulla consistenza
dell’individualità: tutt’altro che definita, nei sedici ritratti sembra
un serraglio di personaggi che in ciascuna testa si alternano più o meno
imprevedibilmente sul palco della coscienza. Grandezza e meschinità,
angeli e demoni. Come poteva Ezra Pound, geniale architetto dei Cantos,
lodare dal manicomio criminale le idee desolanti di John Kaspers,
impresentabile suprematista bianco? Eppure, sia Against Usura sia gli
apprezzamenti della retorica razzista stile Ku Klux Klan escono dallo
stesso cervello, anche se, probabilmente, non dalla stessa persona. Ma
tutto questo al giudice non importa, per la giustizia e per la morale
ognuno di noi è un individuo e quello soltanto. Dimenticarlo sarebbe
come minacciare l’esistenza del nostro mondo.