La Stampa 21.11.17
Thomas Mann: è l’Europa l’unico antidoto al nazionalismo tedesco
Tornano, con una introduzione di Giorgio Napolitano, i Moniti etico-politici scritti tra le due guerre: mai così attuali
di Francesca Sforza
Mai
così tedesco, Thomas Mann, come quando era lontano dalla Germania. E
mai così attuale come nei giorni in cui la Repubblica Federale, dopo
aver per la prima volta riammesso nel Bundestag gli estremisti del
partito di destra AfD, si prepara ad affrontare una stagione quanto mai
difficile, senza una maggioranza di governo stabile, con una cancelliera
sfinita da infruttuose consultazioni e un futuro segnato da incertezza e
instabilità. Leggere oggi Moniti all’Europa, raccolta di saggi di
Thomas Mann scritti tra il 1922 e il 1945 - che Mondadori ripubblica
dopo sessant’anni dalla prima edizione nella stessa traduzione di
Lavinia Mazzucchetti e con un’importante introduzione di Giorgio
Napolitano - significa dunque ripensare alcuni tragici nodi del passato,
ma anche snebbiarsi gli occhi dalle opache interpretazioni del momento
presente.
La raccolta si apre con lo storico discorso berlinese
del 1922 Della repubblica tedesca, a sostegno della repubblica di
Weimar, attraversa gli scritti più espressamente anti-hitleriani e i
radiomessaggi inviati all’America al popolo tedesco durante gli anni
della guerra, per poi concludersi con due fondamentali saggi del 1945:
La Germania e i tedeschi, e Perché non ritorno in Germania, in cui
Thomas Mann concentra in pagine brevi e intensissime il senso della
missione individuata per il proprio Paese, ovvero quello di farsi il più
possibile europeo. Una domanda però sorge spontanea: siamo di fronte
allo stesso autore che nel 1918 pubblicava le Considerazioni di un
impolitico, manifesto del più puro neoconservatorismo, venato di
pulsioni illiberali e antidemocratiche, ambiguo nei toni e appannato nei
propositi? A tentare una risposta è Giorgio Napolitano, nella sua
introduzione, quando sottolinea il bisogno di Mann di trovare, per sua
stessa ammissione, «una verità nuova quale nuovo stimolo di vita»:
l’adesione alla repubblica e alla democrazia, scrive il Presidente
emerito, «risente in qualche passaggio ancora di un certo impaccio, ma
senza più ombra di dubbio o equivoco», in particolare quando attacca «“i
patrioti avversari”, il loro nazionalismo, e ne ridicolizza la
nostalgia dinastico-imperiale del Paese».
C’è uno scritto, in
particolare, che riassume con forza la ritrattazione di Considerazioni
di un impolitico - ritrattazione a tratti insinuata, ma mai resa
esplicita, è bene ricordarlo - ed è La Germania e i tedeschi, in cui
Mann, per prima cosa, confessa di sentirsi profondamente a suo agio nei
panni americani: «Così come le cose stanno oggi [giugno 1945, ndr], il
mio germanesimo è qui, nell’ospitale cosmopoli, nell’universo nazionale e
razziale che ha nome America, al suo posto migliore». È come se la
permanenza americana portasse una ventilazione nuova nei suoi pensieri,
facendogli cogliere la bellezza dell’universalismo, del cosmopolitismo,
della mescolanza. E meglio mostrasse, per converso, l’angustia dei
sovranismi, delle barriere nazionalistiche, dei deliri identitari e dei
trionfalismi germanocentrici.
Ed è peculiare che Mann scelga, per
meglio esprimere le contraddizioni dell’animo tedesco, Martin Lutero, il
riformatore, l’uomo della separazione da Roma. Per un verso Mann ne
riconosce la grandezza, relativamente alla capacità di garantire la
libertà religiosa, per l’altro però ne vede l’incapacità di comprendere
con la stessa lungimiranza la libertà del cittadino, come ben sintetizzò
la sua posizione - di totale disprezzo e rifiuto - nei confronti della
rivolta dei contadini. Thomas Mann, di fronte a Lutero, è in primo luogo
spaventato, e a spaventarlo è l’estrema «tedeschità» dell’uomo, il suo
spirito anti-romano e anti-europeo: «Non mi sarebbe piaciuto essere
ospite alla tavola di Lutero, mi sarei probabilmente sentito come nella
dimora di un orco, mentre sono persuaso che me la sarei cavata molto
meglio con Leone X, cioè con Giovanni de’ Medici, il cortese umanista
che Lutero soleva chiamare “la scrofa del demonio, il Papa”».
In
antitesi al modello-Lutero si staglia, nel percorso del Mann americano e
rinnovato, la figura di Goethe, capace di conciliare forza popolare e
civilizzazione: «Egli è il demonismo consumato, è spirito e sangue a un
tempo, cioè arte [... ], con lui la Germania ha fatto un grandioso passo
avanti sul cammino della civiltà umana».
Ciò che più di tutti
Thomas Mann lamenta, nel guardare le macerie tedesche, è quel pendere
dalla parte di Lutero, più che di Goethe. E risuona sinistra la domanda
che pone e si pone: «Perché l’impulso di libertà tedesco deve sfociare
sempre in una non-libertà interiore?».
Nel ribadire di non essere
in alcun modo un nazionalista, Thomas Mann in questi scritti affida il
destino della Germania, e anche il suo personale, all’impegno nei
confronti dell’Europa, unico antidoto al nazionalismo tedesco: «Mi si
conceda il mio germanesimo cosmopolita», scrive quasi chiedendo
indulgenza per non voler ritornare in patria, dopo la guerra. Sarebbe
stato per lui un gesto troppo politico, la cui portata, ne era forse
consapevole, non avrebbe saputo gestire.