martedì 21 novembre 2017

La Stampa 21.11.17
“Così ho salvato dal Califfo i tesori delle fedi monoteiste”
Padre Najeeb ha digitalizzato ottomila manoscritti cristiani e islamici del suo convento di Mosul. Molti sono ora al sicuro nel Kurdistan iracheno
di Daniela Fuganti

Quando nel 2014 Mosul cade nelle mani dell’Isis, migliaia di cristiani fuggono dalla pianura di Ninive, nel Nord dell’Iraq. Nel corso di una straordinaria epopea, padre Michaeel Najeeb - di cui in Francia è appena uscito il libro
Sauver les livres et les hommes
(ed. Grasset) - salva migliaia di antichi manoscritti destinati alle fiamme dai jihadisti. In questi giorni a Parigi una mostra all’Istituto del Mondo Arabo evoca la storia millenaria dei «Cristiani d’Oriente».
Padre Najeeb, la mostra all’Ima percorre la storia dei cristiani del mondo arabo. Nel suo libro, lei racconta invece l’attualità, ciò che ha vissuto in prima persona durante la tragica scalata dell’Isis.
«Sono nato e cresciuto a Mosul. Insieme con i nostri cugini di Palestina, più che “cristiani d’Oriente” noi siamo innanzitutto i “primi cristiani”. Molti di noi discendono in linea diretta da quegli ebrei che vivevano in cattività in Mesopotamia parecchi secoli prima della nascita di Gesù. La culla del cristianesimo è in Oriente: il primo Papa, San Pietro, era palestinese; Gesù era ebreo e parlava l’aramaico, la stessa lingua che noi usiamo oggi. Tuttavia in Oriente i cristiani hanno sempre vissuto in stato di inferiorità, fra persecuzioni, esodi e umiliazioni, anche prima dell’islam».
Dal suo convento, a Mosul, lei ha potuto osservare gli eventi e percepire in questi ultimi anni i segnali di ciò che sarebbe accaduto.
«Il convento di Mosul, dove sono rimasto fino al 2007, quando i miei superiori mi ordinarono di lasciarlo per le rappresaglie di salafiti e islamisti - rapimenti e omicidi di preti, vescovi e civili - è sempre stato per me un punto di riferimento. Bambino, passavo il tempo nella sala di lettura. La biblioteca, oggi distrutta, era il polmone culturale della regione, un luogo magico: a metà del XIX secolo, i domenicani avevano fatto venire dall’Europa la prima tipografia della regione, funzionante fino all’arrivo degli Ottomani che buttarono i macchinari nel Tigri. Il mio timore era che questo tesoro andasse un giorno perduto, così negli Anni 90 mi sono improvvisato bibliotecario, ho fatto un inventario e ho cominciato a digitalizzare più di ottomila manoscritti».
Aveva un brutto presentimento?
«All’inizio l’ho fatto per salvaguardare documenti di valore inestimabile. Testi di storia, filosofia, spiritualità cristiana e musulmana, letteratura e musica, scritti in aramaico, siriaco, arabo, armeno, redatti fra il XIII e il XIX secolo; ma anche testi islamici, e i due libri sacri degli Yazidi, la più antica e straordinaria religione monoteista, insediata in Mesopotamia fin dal III millennio, che ha influenzato il giudaismo, il cristianesimo e l’islam. Nel 1990 ho fondato il Cnmo (Centro digitale di manoscritti orientali). Da 25 anni percorro il Paese in lungo e in largo per scovare capolavori nascosti».
Di questi ottomila manoscritti digitalizzati, la metà non esiste più, distrutta dall’Isis. Quelli che rimangono sono oggi al sicuro a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Come è riuscito a salvarli?
«Nel 2007 Mosul era diventata troppo pericolosa, allora trasferimmo la nostra preziosa biblioteca nel convento domenicano della vicina città di Qaraqosh, ritenuta più sicura».
Non per molto, visto che nel 2014 l’Isis ha occupato Mosul, e subito dopo Qaraqosh.
«In effetti, a fine luglio 2014, una decina di giorni prima che le due città capitolassero, ci rendemmo conto che la situazione stava precipitando, e improvvisammo il gigantesco trasloco dei nostri tesori: quadri, manoscritti e incunaboli, da Qaraqosh a Erbil, distante 70 chilometri, ripromettendoci di fare un secondo trasferimento la settimana seguente. Il viaggio è avvenuto nella notte tra il 6 e il 7 agosto, ma non nel modo previsto».
Che cosa accadde?
«Ero rimasto a Qaraqosh con altri due fratelli. Alle 6 del mattino, un’esplosione svegliò la città. La sera, assordati dagli spari dei kalashnikov ormai vicini, stipammo nella confusione più totale il maggior numero di manoscritti possibile nelle mie due macchine. Per ritrovarci, stracarichi, sulla sola strada che porta in Kurdistan, annegati nell’immenso esodo delle popolazioni cristiane e yazide in fuga verso Erbil, in mezzo ai soldati curdi e agli ufficiali peshmerga che si ritiravano clacsonando all’impazzata. All’ultimo si aprì la frontiera, che riuscimmo a varcare solo a piedi, con il nostro carico di incunaboli sulle braccia, fra le pallottole che ci fischiavano intorno e la bandiera nera dell’Isis in lontananza. Penso all’esodo di Mosè e del popolo ebraico. Il nuovo faraone si chiama Abu Bakr al-Baghdadi, questa notte atroce segna il suo trionfo e mostra volto nero dell’islam. Nel Corano (sura 9, versetto 28), Maometto ordina di combattere tutti quelli che non credono in Dio e nel suo Profeta. Esattamente ciò che fecero i musulmani nel VII secolo, le guerre sante in nome di Dio, uccidendo e rubando le terre delle popolazioni conquistate».
Come ha trovato Mosul dopo la liberazione dall’Isis?
«L’Isis ha distrutto la storia di Mosul, l’antica Ninive, facendo saltare in aria la tomba del profeta Giona, venerata da cristiani, ebrei e musulmani. Era il simbolo della città: sotto le vestigia del XII secolo c’era una chiesa, posata su una sinagoga, posata a sua volta su vestigia assire, il palazzo di Assurbanipal. Camminando ai piedi delle mura, ho inciampato su una lastra mezza sepolta, coperta di caratteri cuneiformi. Mentre la spolveravo con devozione, un vecchio con la kefiah in testa mi guardava sfiorando il masso con il suo bastone: “Non preoccuparti, c’è un sacco di pietre come queste nella città. Sono lì da sempre, e saranno ancora lì quando tu non sarai più di questa terra”».