Il Fatto 21.11.17
Manson, killer psichedelico Muore il fantasma del Male
La
strage del ‘69 - La sua figura è rimasta fossilizzata a emblema
degenerato della stagione di trasgressione e “Peace & Love”
di Stefano Pistolini
La
morte di Charles Manson è l’ultimo atto della relazione particolare che
la società americana ha intrattenuto col fenomeno indigeno e complesso
della cultura hippie, di cui Manson fu il prodotto più terribile e
deviante, rappresentazione dell’equivoco tra l’immagine mediatica che di
essa ebbe il mondo e la più prosaica realtà che oggi comprendiamo –
senza più correre il rischio d’essere bollati “porci capitalisti”. Guru e
serial killer, stupratore e cantautore, caporione e ladruncolo,
criminale inveterato e soprattutto prodotto psichicamente devastato di
un’infanzia derelitta, Manson colpisce in modo indelebile la fantasia
degli americani allorché, nella fatale estate del ’69 – quella dello
sbarco sulla Luna, della defaillance dei Kennedy a Chappaquiddick, del
festival di Woodstock – l’elettrizzante disordine del progresso conosce
un feroce contrappasso. Edonismo e liberazione, sperimentazione e
psichedelia, droghe chimiche e esplorazioni sessuali, pacifismo e
confronto razziale, alla fine producono i propri mostri: Charles Manson
ne incarna la versione più perversa, così maligna, satanica e ributtante
da permettere a qualsiasi cittadino di buona volontà la ridefinizione
del bene e del male nella modernità, invocando il ritorno alla
normalità, il più lontano possibile dai rischi del cambiamento
selvaggio.
In sostanza l’avvento di Manson e la sua silhouette,
subito incorniciata dalla rassicuranti sbarre di un carcere a vita, la
condanna a 9 ergastoli, il propagarsi della sua dottrina di
sopraffazione, sfruttamento e incantamento, restituiscono all’America
l’occasione per ristabilizzarsi dopo il biennio inaugurato dalla Summer
of Love, dal manifestarsi delle Black Panthers e rabbuiato dal perenne
incubo del Vietnam.
Un tempo durante il quale la nazione sembrava
avviata a un folle, perenne cambiamento che, presagivano i conservatori,
l’avrebbe condotta a una coloratissima, quanto certa, disintegrazione.
Dunque, ecco Manson agente della normalizzazione. Con lui, con la sua
follia, i suoi eccessi e i suoi delitti, si descriveva l’equivoco di una
società che pareva aver lasciato libero accesso ai territori della fama
e della ricchezza a chiunque fosse in grado d’inscenare la
trasgressione nel modo più clamoroso possibile.
Manson era proprio
questo: un diseredato che aveva intravisto nella spettacolarizzazione
dei suoi istinti sadici, l’insperata via per raggiungere ciò che era
fuori portata per un dropout come lui, trasformandolo in divo di quella
cultura dello spettacolo di cui invidiava gli esponenti più in vista,
nella California anni Sessanta dove s’era stabilito in cerca
d’occasioni. A quel punto il suo curriculum già promette il peggio: nato
a Cincinnati nel ’34 da una prostituta 16enne e senza padre, Charles
vive un’adolescenza disfunzionale. Conosce subito correzionali e
penitenziari per furti ed episodi di violenza. Si distingue come
sfruttatore della prostituzione (anche delle donne che nel frattempo
commettono l’imprudenza di sposarlo) e per questo reato negli anni
Cinquanta subisce una condanna che lo restituisce alla società,
tutt’altro che ravveduto, solo nel ’67. Nel frattempo in cella, a modo
suo, si è fatto una cultura: si è interessato a Scientology e ha letto i
testi motivazionali di Dale Carnegie, tipo Farsi degli amici e
influenzare gli altri, del quale, racconterà lui stesso, lo affascina un
principio: “Tutto ciò che fai nasce da due motivazioni: il sesso e il
desiderio di affermazione”.
Durante la detenzione Manson impara a
suonare la chitarra e si convince d’avere il talento per arricchirsi
facendo una delle poche cose che paiono raggiungibili a un incolto
selvaggio come lui: diventare una rockstar. Dunque la San Francisco di
Haight Ashbury e della cultura hippie in cui mette piede una volta
libero, costituiscono il migliore brodo di coltura per cominciare la sua
scalata. Che passa attraverso la formazione d’una personale setta,
dedicata al culto della sua ingombrante personalità. Sono le Charlie’s
Girls, antesignane di quella che diventerà la Family, mettendo radici in
un fatiscente accampamento nel deserto alle spalle di Los Angeles.
Quasi tutte ragazzine sbandate, con l’aggiunta di qualche tipo poco
raccomandabile, dedito a spaccio e attività criminose, compattati dalla
personalità del capo, dai suoi appetiti sessuali e dalla sue confuse
prediche, nella quali disegna un mondo sull’orlo dello scontro finale:
bianchi contro neri, ricchi contro poveri, riappropriazione del
benessere, vendetta per le soddisfazioni negate.
Paccottiglia
intellettuale per menti offuscate e psicologie danneggiate, che tuttavia
danno a Manson ciò di cui ha bisogno: un esercito per sfidare il mondo.
Tanto più dal momento che le speranze di fare strada nel mondo musicale
si sono dissolte: i Beach Boys l’hanno accolto per qualche settimana
nel loro drogatissimo entourage e hanno perfino inciso una sua canzone,
ma poi l’hanno messo alla porta come uno dei tanti profittatori. Manson
si dichiara tradito dall’establishment e lancia la sua personale
apocalisse, producendo il salto di qualità nelle scorribande dei
seguaci: non più il situazionismo degli episodi di creepy crawling
(irruzioni nelle case dei “ricchi” dove venivano spostati degli oggetti,
senza rubare nulla, per provocare insicurezza e agitazione nelle
vittime), ma due vere e proprie stragi, quella a casa di Sharon Tate e
quella a casa dei coniugi La Bianca, condotte con la follia, la
spietatezza e la demenza di un gruppo di dissennati, ormai divenuti
pericolosissimi. Il resto è cronaca: processi, condanne, gesti
demoniaci, il tentativo di mantenere viva una popolarità, possibilmente
la più maledetta di tutte.
Questo, dopo una vita d’inganni, rimane
l’unico vero successo di Manson. Perché l’America l’ha conservato e
contemplato in gabbia – nella gabbia in cui ha trascorso tre quarti
della vita – come un monito e il souvenir di un’illusione sbagliata. E
nell’usare Manson come simbolo di un’illusione sbagliata, ovviamente ha
anche commesso una sommaria ingiustizia, che ha travolto lo splendore e
l’ispirazione che negli stessi anni diedero al mondo l’intuizione di
nuove forme di liberazione, comunicazione e felicità.
Perché
Manson è stato il verme nella torta, la mela marcia che contagia, il
figlio sbagliato che travia i coetanei. Osservandolo dibattersi nella
sua cella, pazzo e indomato, eppure circondato da quella velenosa aura
mistica, gli americani hanno invece consegnato la diversità di Manson e
dei suoi tempi alla sfera dell’irreale. Esperienze da tenere lontane,
perché insegnano che il nuovo e lo sconosciuto possono sfociare nella
brutalità e nel caos. E perché sembrano ormai irrecuperabili gli anni in
cui andare in cerca di conoscenze – anche delle più misteriose –
appariva come una seducente emozione, nella terra delle mille promesse.