La Stampa 16.11.17
In Libia c’è chi soffia sul fuoco
di Stefano Stefanini
In
Libia c’è un problema umanitario urgente. Il messaggio dell’Onu,
ribadito dalle immagini della Cnn, è chiaro e inequivocabile: le
condizioni dei campi - assembramenti? - di migranti in Libia sono
disumane. Gli interventi necessari, e immediati, non devono però
offuscarne la causa vera: la precarietà e pericolosità della situazione
libica. Senza stabilizzazione del Paese resterebbero dei palliativi.
Se
la comunità internazionale ha a cuore le sorti dei migranti, presenti e
futuri, deve innanzitutto sostenere i tenui equilibri interni libici,
fissati dall’accordo di Skhirat del 17 dicembre. Scade l’anno; il
rischio che non venga rinnovato farebbe riprecipitare la Libia in un
caos da cui si stava faticosamente estraendo.
Il Paese è stato
sull’orlo dello Stato fallito. Ha visto sventolare a Sirte, sulla costa
mediterranea, la bandiera nera dello Stato Islamico; ci sono voluti i
raid americani per farla ammainare. Resta esposto al virus terrorista
sia di Isis che di Al Qaeda. Rischiava di finire in un conflitto senza
fine come quello che insanguina la Siria da oltre sei anni. La guerra
civile avrebbe visto Tripoli contro Tobruk, Tripolitania contro
Cirenaica, Al Sarraj contro Haftar, più altre milizie e componenti
tribali. È stato l’accordo di Skyra a scongiurarlo.
L’accordo
stabilisce essenzialmente una tregua (armata) fra Al Sarraj e Haftar.
Non ha completamente pacificato il Paese, ma ha ridotto la
conflittualità ad una bassa intensità in termini di scontri e di
vittime, spesso di matrice terroristica quindi di schegge
fondamentaliste che non si riconoscono nelle parti dell’accordo. Questo è
il compromesso che ha evitato alla Libia le sorti della Siria.
Sul
piano politico, Skhirat ha però anche mantenuto ferma la fragile
legittimità internazionale di Al Sarraj. È un elemento importante nel
bilanciamento delle forze. Non dà certo al governo di Tripoli il
controllo del territorio, ma gli permette di avere le credenziali per
confrontare l’alleanza tra Parlamento di Tobruk e il generale Haftar,
l’uno legittimato da un’elezione, l’altro più forte militarmente. Questo
precario equilibrio offre oggi l’unica prospettiva di riconciliazione
nazionale e di stabilizzazione sostenibile della Libia. È pertanto
essenziale che regga. Questa è stata ed è la costante della politica
italiana sulla Libia.
Il pericolo, oggi, è la tentazione di una
parte di prevalere sull’altra anziché rispettare un compromesso di
convivenza e di divisione di potere. Potrebbe cadervi soprattutto
Khalifa Haftar, forte delle armi, e d’importanti sostenitori, come
Egitto, Russia e Francia. A loro dissuaderlo: c’è da augurarsi che
iniziative come i recenti contatti russi con tribù dell’interno non
siano un pescare nel torbido. Quanto a Parigi, qui si mette alla prova
l’europeismo di Emmanuel Macron: collaborare con Roma e Bruxelles ad un
approccio comune o ricadere in una sterile gara d’influenza
post-coloniale?
Il problema delle condizioni dei migranti in Libia
va affrontato rapidamente, ma non deve tradursi in una delegittimazione
di Al Sarraj e di Tripoli - a danno dei precari equilibri interni e,
tanto meno, a vantaggio di una parte, che nel caso sarebbe Haftar. Il
messaggio dell’Onu sulla situazione umanitaria è rivolto innanzitutto
alla Libia, ma ci vogliono una Libia stabile, e un governo responsabile
per ascoltarlo. Una ricaduta nella guerra civile non aiuta nessuno, men
che meno i migranti.
Cosa fare allora? Bisogna subito rimboccarsi
le maniche per alleviare la situazione umanitaria dei campi. È una
responsabilità dell’intera comunità internazionale. Ue e Italia sono in
prima fila, ma anche l’Onu e l’Unhcr forse possono fare qualcosa di più
oltre che accusare. Ma, soprattutto, bisogna raddoppiare gli sforzi per
stabilizzare la Libia attorno al nucleo della legittimazione
internazionale di Al Sarraj e di un processo politico di riconciliazione
internazionale. I migranti non potranno che beneficiare del
ristabilimento di autorità responsabili, mentre sarebbero di nuovo
vittime innocenti di una recrudescenza della conflittualità e di una
rottura della tregua fra Tripoli e Tobruk.