La Stampa 12.11.17
Giappone, tra i giovani dilaga il suicidio assistito in rete
Soli
e senza aiuti psicologici, molti ragazzi affidano la loro depressione
al web L’ultimo caso scoperto nelle casa di un 27enne: in nove si sono
tolti la vita
di Cristian Martini Grimaldi
A
Tokyo 54 ragazze adolescenti commettono un suicidio di massa gettandosi
davanti ad un treno. Poco dopo, in un ospedale, due infermieri si
lanciano da una finestra. Tre detective vengono informati da un hacker
che esiste un collegamento tra i suicidi e un sito web. Era il 2002
quando usciva Jisatsu Sakuru (Suicide Club), il film cult di uno dei più
geniali registi nipponici, Sion Sono.
In quella fiction c’erano già tutti gli elementi di una realtà che da lì a poco sarebbe esplosa: i suicidi e l’uso della rete.
I
primi casi di suicidio collettivo «assistito dal web» risalgono ai
primi anni del 2000. Nel 2003 tre persone decisero di togliersi la vita
ad Iruma City addormentandosi in una stanza con dei tizzoni di carbone
accesso. Le vittime non avevano nulla in comune eccetto il fatto che si
erano incontrati su un sito dal nome «Bacheca dei suicidi collettivi»,
dove avevano scoperto che esisteva un metodo indolore per morire.
Legati dalla rete
La
ricerca di un metodo indolore per commettere un suicidio è una delle
chiavi per comprendere anche l’ultimo dei casi di
suicidio-assistito/omicidio (le indagini sono ancora in corso) legati
all’uso della rete.
Nove corpi smembrati (la più giovane una
ragazza di appena 15 anni) sono stati scoperti nella casa di un ragazzo
di 27 anni nella prefettura di Kanagawa.
Il ventisettenne aveva
preso ad esplorare la rete alla ricerca di persone che manifestavano il
desiderio di volersi uccidere. Le contattava dicendo di voler commettere
egli stesso suicidio, suscitando immediatamente empatia. Suggeriva loro
di conoscere un modo facile e indolore per togliersi la vita. Era
questa l’esca perfetta: «Se sbagli a impiccarti soffrirai solamente»,
scriveva nei suoi messaggi via Twitter. Informava le sue «prede» di
essere in possesso della «corda giusta» e il posto ideale (un loft) dove
l’aspirante suicida non poteva correre in alcun modo il rischio di una
penosa agonia per un nodo magari sbagliato. In nove si sono fidati e
l’hanno raggiunto nel suo appartamento.
È da almeno quindici anni
che il governo giapponese è alla ricerca di soluzioni per arginare il
tasso di suicidi del Paese, si va dai programmi di consulenza
all’oscuramento di siti web che offrono indicazioni e consigli su come
togliersi la vita, ma l’uso di Twitter attraverso account anonimi rende
tutto molto più complicato.
Per di più in Giappone non esiste una
vera e propria cultura del counseling analoga all’Occidente, dove ci si
rivolge allo psicologo magari anche solo per l’elaborazione di un lutto
sentimentale. Qui lo psicologo è una figura terribilmente seria, un
dottore che tratta importanti malattie della mente, ma il desiderio di
commettere sudicio non rientra tra queste. Si va da uno psicologo per
confessare i propri dubbi, le proprie paure e le proprie debolezze, ma
tutto ciò nella cultura giapponese equivale a una vergogna, sono cose
che si tengono per sé o al massimo le si «gridano al mondo intero» dal
megafono del web, con la precauzione fondamentale di un nome fittizio.
La prigione
I
giovani giapponesi trovano così su Twitter il canale perfetto per
sfogare difficoltà familiari, noie lavorative o solo banali frustrazioni
quotidiane.
Quando la vita non sembra più avere un senso
l’aspirante suicida, sia esso lo studente bullizzato o l’impiegato
sfiancato dagli orari d’ufficio, si trova davanti a un bivio: continuare
con la vita di sempre, diventata però intollerabile, o interrompere il
percorso iniziato, sia esso scolastico o lavorativo. Spesso ci si trova
incapaci di scegliere tra queste due strade: abbandonare il lavoro (o la
scuola) è un venire meno alle proprie responsabilità, un «nigeru», una
scappatoia imperdonabile. Come asini di Buridano gli aspiranti suicidi
restano intrappolati in questo spazio di logorante indecisione che col
tempo assume i contorni di una prigione, e l’unica soluzione a quel
punto è togliersi la vita.
Il giapponese medio non può contare su
amici o professionisti dell’ascolto cui confessare ciò che veramente ne
tormenta l’animo, e così capita che ne trova uno qualsivoglia in rete.
Dunque non stupisce se l’ultima dichiarazione del presunto killer dei
nove aspiranti suicidi è stata proprio l’ammissione che, secondo lui,
quelle persone in fondo non volevano commettere suicidio (una cosa è
scriverlo una cosa è farlo). Ecco, forse cercavano solo qualcuno a cui
confessare i propri problemi.