domenica 12 novembre 2017

La Stampa 12.11.17
“Segnali già evidenti negli Anni 80 ma il fenomeno è stato sottovalutato”
Il procuratore generale Salvi: l’omertà può diventare consenso
intervista di Francesco Grignetti

Giovanni Salvi, procuratore generale di Roma, era titolare di inchieste delicatissime sulla criminalità già negli Anni Novanta. Indagando su un traffico internazionale di droga, per la prima volta incrociò Michele Senese, il napoletano. «Storie che sembrano lontane, ma sono alle radici di oggi. Della camorra e Cosa Nostra, lo sapevamo. Anche la ’ndrangheta probabilmente si è insediata in tempi lontani, anche se la pervasività emerge solo ora».
Come è successo, dottor Salvi, che i clan siano diventati i padroni delle periferie?
«Guardi, la procura di Roma già negli Anni Ottanta e Novanta aveva individuato il pericolo. Non c’era solo la Banda della Magliana. I Fasciani, per dire, erano stati individuati e i procedimenti penali si sono conclusi con condanne. Così con altri. Nel periodo seguente, probabilmente, ne è stata sottovalutata la rilevanza. E questo, assieme a molti altri fattori, ha consentito che queste organizzazioni prendessero piede come stiamo vedendo ora. Di sicuro ci sono state altre emergenze. E la criminalità organizzata ha evitato di dare troppo nell’occhio».
Si sono inabissati?
«Ci sono stati qua e là alcuni omicidi, ma effettivamente non c’era più il clima degli Anni Ottanta. Ripeto: uno dei fattori è che si è sottovalutato il fenomeno. Poi c’è da fare il discorso sul tessuto politico-sociale. Le grandi aggregazioni fuori Roma si sono sviluppati lontano dalla doverosa attenzione».
E siamo finiti con Ostia, ma non solo, dove dominano i clan.
«Si sono consentiti comportamenti illegali, solo apparentemente marginali, di enorme impatto sociale. Penso all’occupazione sistematica delle case popolari. Si è così modificata la struttura dei quartieri, non più abitati dalla popolazione regolare che ne aveva diritto. È subentrata una popolazione irregolare; ci è andato ogni genere di persone. Ciò ha determinato il radicarsi di gruppi criminali nella società prima ancora che nel territorio».
Al punto che vediamo non omertà, ma addirittura consenso nei confronti dei malavitosi?
«Qualcosa del genere. Aggiungo che la crescita di questa criminalità organizzata di nuovo tipo è difficile da inquadrare con lo strumento giudiziario. In questo senso, Roma è davvero apripista e molte sentenze di Cassazione ci confortano. Ma abbiamo difficoltà ad inquadrare con il codice queste forme nuove, diverse da quelle tradizionali. I clan non hanno più bisogno dell’esercizio effettivo della violenza. E l’omertà non è necessariamente quella di tipo tradizionale. Il rischio è che subentri il consenso nei confronti della malavita per mancanza dello Stato».
La procura generale si batte nei tribunali per affermare la “mafiosità” di questi nuovi gruppi criminali. Però i giudici non vi seguono sempre. Perché?
«Noi ci crediamo veramente. Se parliamo di sentenze, è un panorama a macchia di leopardo. Nei giorni scorsi è stata confermata la caratteristica di organizzazione mafiosa per i Fasciani. Due giorni fa, invece, nel processo a Michele Senese, è stata esclusa l’aggravante mafiosa per un omicidio, circoscritto a vendetta personale. È stato comunque condannato a 30 anni con sentenza definitiva ed è un buon risultato».
Allude anche alla posizione di Massimo Carminati?
«Io penso che ci siano state critiche ingenerose sull’impostazione dell’inchiesta Mondo di mezzo. La procura ha avuto il merito di disvelare un meccanismo di sistematica corruzione attraverso un sodalizio che esercitava la violenza e allo stesso tempo incideva sulla politica. È da questi dati di fatto che bisogna ripartire, se vogliamo recuperare questa città. Il problema c’è. Bisogna che se ne abbia piena consapevolezza e non cercare alibi, trincerandosi dietro le difficoltà di configurazione giuridica. E’ molto importante anche recuperare il funzionamento effettivo della giustizia quotidiana, quella che dà al cittadino la sicurezza della presenza dello Stato».