mercoledì 1 novembre 2017

La Stampa 1.11.17
I migranti vincono i ricorsi per l’asilo
In più di un caso su due i giudici ribaltano la decisione delle commissioni territoriali Negli ultimi sei anni i richiedenti che hanno ottenuto il permesso sono stati quasi 160.000
di Raphël Zanotti

I dati citati dai politici sono tutti da rivedere. A differenza di ciò che vuole la vulgata, la maggior parte dei richiedenti asilo lo ottiene al primo colpo. Ma soprattutto più di un migrante su due, quando presenta ricorso perché si è vista bocciare la domanda, lo vince.
Lo dicono i dati del ministero dell’Interno, ottenuti da «La Stampa» attraverso un accesso civico.
Tra il 2010 e il 2016 gli stranieri che hanno chiesto di poter rimanere in Italia dopo essere fuggiti dal proprio Paese sono stati 364.469. Le domande vengono esaminate in prima istanza dalle commissioni territoriali. Queste, sulla base di interviste ai richiedenti, e valutando la situazione esistente nei Paesi di provenienza, decidono se le domande sono meritevoli di essere accolte oppure no. I richiedenti possono ottenere lo status di rifugiato, quando c’è il fondato timore che in patria sarebbero perseguitati per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o per le loro idee politiche. Oppure la protezione sussidiaria, quando non sussistono le condizioni precedenti ma il migrante dimostri il rischio di subire un grave danno se tornasse in patria. Infine la protezione umanitaria, quando sussistono seri motivi per motivi umanitari o risultanti da obblighi costituzionali dello Stato italiano. Nei primi due casi il permesso di soggiorno vale cinque anni. Nell’ultimo, di solito, due. Sempre rinnovabili.
Delle oltre 360 mila domande arrivate negli ultimi sei anni, quasi il 40% è passato al primo colpo. Il 35% è stato rigettato. Il resto è ancora pendente. Eppure, guardando bene, quel 35% non è pieno. I richiedenti possono sempre presentare ricorso di fronte al tribunale. E così, in questi anni, hanno fatto 67.671 persone. I giudici ne hanno esaminati e decisi poco meno della metà, 30.754. Ma il dato più eclatante è che nel 53,17% dei casi i migranti hanno vinto. Significa, in parole povere, che nella maggior parte dei casi il giudizio delle commissioni territoriali è stato ribaltato. Non è una questione di poco conto considerando che in media, un secondo grado di giudizio in tribunale, conferma la prima decisione nel 90% dei casi.
Cosa succede? Come è possibile una discrepanza del genere? Le motivazioni possono essere diverse, ma secondo le associazioni che si occupano di immigrazione e per gli avvocati che seguono questi ricorsi, il problema è che le commissioni territoriali sono molto rigide nel concedere l’asilo rispondendo alle pressioni arrivate negli ultimi anni dalla politica.
A riprova di ciò, vengono citati gli stessi dati raccolti dal Viminale. Dal 1990 a oggi le percentuali dei Paesi di provenienza dei migranti non sono cambiate di molto. Eppure le commissioni territoriali sono diventate più rigide nel concedere l’asilo. Perché? Sono finite le condizioni nei Paesi di origine che inizialmente caldeggiavano la concessione della protezione internazionale? Evidentemente no.
Un altro problema poteva essere la formazione delle nuove commissioni territoriali, incrementate di numero per far fronte all’emergenza sbarchi. Ma questa ipotesi è poco percorribile, le commissioni sono formate da professionisti preparati. E allora qualcosa è cambiato, ma solo in prima istanza. Quando il richiedente asilo insiste, promuovendo un ricorso, alla fine il suo diritto viene riconosciuto nella maggior parte dei casi. Tutto ciò avviene lontano dai riflettori, si perde nei mille rivoli delle centinaia di tribunali italiani. Lo sguardo d’insieme, però, restituisce una verità diversa: dal 2010 a oggi delle 272.035 domande valutate, l’asilo è stato concesso nel 43,6% dei casi, i rigetti sono stati meno di uno su tre: il 31%.

La Stampa 1.11.17
“Il rigore voluto dalla politica in tribunale non paga”
L’avvocato: “Diritti negati per ragioni economiche”
di Ra. Zan.

«Questi numeri dimostrano una cosa che ripetiamo da tempo: le commissioni territoriali adottano un approccio politico alla questione dei richiedenti asilo. È per questo che, quando le domande finiscono davanti a un magistrato, le loro decisioni poi vengono ribaltate». Nazarena Zorzella è un avvocato, fondatrice dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e redattrice della rivista “Diritto, immigrazione e cittadinanza”. Da anni si occupa del tema migranti.
Avvocato, lei dice che l’approccio è politico. Cosa intende?
«Voglio dire che purtroppo le commissioni territoriali decidono la posizione di un migrante secondo categorie che spesso non sono giuridiche».
Per esempio?
«Abbiamo commissioni che scrivono nei loro rigetti che non può essere concesso l’asilo perché chi lo richiede è un “migrante economico”. Ecco, questa non è una categoria giuridica, è una definizione politica. La povertà è una condizione meritevole di protezione perché dalla povertà si fugge, esattamente come dalla guerra».
Ma è una posizione solo delle commissioni?
«No, a volte anche dei giudici. A Bologna, per esempio, è diventata famosa una sentenza, citatissima dalla commissione territoriale, secondo cui la protezione umanitaria non può essere concessa perché quest’ultima non può diventare una forma di assistenza sociale nei confronti dei derelitti della Terra. È evidente che la questione non può essere messa in questi termini. Dalla miseria si fugge non per migliorare la propria condizione, quello eventualmente lo possono fare i nostri figli che emigrano per cercare condizioni di lavoro migliori, ma proprio per sopravvivere».
Cosa ci dicono in più questi dati sui ricorsi?
«Aiutano a comprendere il perché di un decreto come quello Minniti-Orlando che ha eliminato un grado di giudizio. Se i ricorsi vengono vinti dai migranti, meglio eliminare direttamente una parte di questi ultimi».
Può essere anche una questione economica? Un numero così alto di ricorsi ribaltati in giudizio ha un costo in termini di soldi pubblici e tempo.
«Certo, ed è proprio uno dei punti su cui si concentra il decreto. La maggior parte dei ricorrenti non ha nulla e dunque si appoggia al gratuito patrocinio. Ma una questione economica non può essere risolta negando i diritti delle persone».

La Stampa 1.11.17
L’innovazione per battere la fame in Africa
Il numero delle persone che nel mondo soffrono la fame quest’anno è aumentato, da 777 a 815 milioni
di Melinda Gates

Da oltre un anno le migrazioni e la crisi dei rifugiati - e il loro impatto sulla società italiana - sono tra i temi più sentiti nel Paese. Ma è importante ricordare la sofferenza dei nuovi arrivati, la loro crisi. Che non è iniziata con lo sbarco in Sicilia, ma da qualche parte in Africa, quando la vita per loro è diventata talmente insopportabile da non lasciare altra scelta che la fuga.
Una delle cause da cui nasce questa crisi è la carestia. Il numero delle persone che nel mondo soffrono la fame quest’anno è aumentato, da 777 a 815 milioni. La risposta a questa tragedia dipende molto anche dall’Italia, che è uno dei Paesi guida a livello globale in tema di agricoltura e sicurezza alimentare fin dal 1951 quando fu scelta per ospitare il quartier generale del Wfp, il Programma alimentare mondiale dell’Onu. Un impegno che l’Italia ha continuato a onorare l’anno scorso, con la presidenza del G7.
Quando pensiamo alla fame ci vengono in mente i bambini con i ventri gonfi che abbiamo visto nelle foto dall’ Etiopia negli Anni 80. Tuttavia un numero molto maggiore di persone soffre di quella che viene talvolta definita «fame nascosta», ovvero anche se non si può dire che muoiano letteralmente di fame, non hanno abbastanza da mangiare per nutrirsi in modo adeguato. Ecco perché è così importante la priorità data a questo tema dall’Italia che la prossima settimana ospiterà a Milano un evento fondamentale come il Global Nutrition Summit.
A livello mondiale un bambino su quattro è rachitico, cioè molto meno sviluppato di quanto dovrebbe essere. Il rachitismo è uno dei più chiari indicatori della malnutrizione cronica. Che, come sappiamo non blocca soltanto lo sviluppo fisico ma anche quello emotivo e cognitivo. Con un impatto devastante: un bambino rachitico non potrà mai raggiungere il suo pieno potenziale, e un Paese dove ai cittadini non viene data quest’ opportunità -dove troppe persone non hanno alcuna possibilità di condurre una vita dignitosa - è escluso a priori dal raggiungimento del benessere.
Occuparsi anche della malnutrizione e non solo della fame conclamata implica un approccio diverso allo studio delle soluzioni.Tradizionalmente i programmi per la sicurezza alimentare si concentrano sulla certezza del cibo, ma ormai è evidente che il minimo apporto calorico necessario non sempre assicura i nutrienti necessari a un corretto sviluppo psicofisico. Le organizzazioni che si occupano di questo settore hanno ottenuto buoni risultati integrando alimenti di base come la farina e il sale con vitamine e minerali, ma è il momento di pensare più in grande.
Sull’esempio dall’Italia, dobbiamo essere più innovativi in agricoltura: quali cibi producono gli agricoltori di un Paese, come li coltivano, e anche chi li mangia. Dobbiamo inoltre prestare maggior attenzione alla salubrità e all’igiene, perché nei bambini i disturbi intestinali influiscono molto sul’assorbimento dei principi nutritivi. E dobbiamo anche istruire i genitori perché possano dare ai loro figli il cibo giusto al momento giusto - non è solo una questione di dieta sana, ma anche di pratiche come l’allattamento esclusivo al seno, che ogni anno possono salvare la vita ad almeno un milione di bambini.
Affrontare il tema della malnutrizione cronica rappresenta una grande sfida, ma sappiamo che si tratta di difficoltà superabili. In Perù, ad esempio, nel 2006 un gruppo di attivisti ha unito le forze denunciando come la malnutrizione cronica stesse creando un danno enorme al Paese. Il governo ha messo a punto una serie di programmi della massima incisività, dalla vaccinazione dei bambini ai corsi rivolti alle madri per insegnare loro le regole della corretta alimentazione, e il risultato è stato che il rachitismo in Perù è sceso dal 28 al 18 per cento nel giro di 10 anni - un vero record. In Etiopia, in passato immediatamente associata alla carestia, migliaia di consulenti professionali operano nelle comunità per aiutare tutti i 100 milioni di cittadini ad aver cura della salute e dell’alimentazione. E il tasso di rachitismo, anche se ancora troppo elevato, sta scendendo più velocemente che nella maggior parte degli altri Paesi.
Le famiglie degli agricoltori nei Paesi poveri non sono organizzate come la comunità internazionale che si occupa dei temi dello sviluppo e non fanno distinzione tra principi nutritivi, sicurezza alimentare e agricoltura. Vogliono solo poter dare ai loro figli cibo sano in quantità sufficiente in modo da dare loro un futuro.
Gli aiuti internazionali possono offrire nuove potenzialità, soprattutto se mettono tra le loro priorità la corretta nutrizione. Guardiamo con fiducia all’Italia e confidiamo nella sua consolidata e generosa leadership, a cominciare dalla settimana prossima quando i leader di tutto il mondo si incontreranno al Global Nutrition Summit.
*Imprenditrice americana,con il marito Bill Gates ha creatola fondazione che ha lo scopo di combattere le diseguaglianze sociali
Traduzione di Carla Reschia

Il Fatto 1.11.17
Massì, è solo “strage”. La corsa di siti e tv a occultare la notizia
Svanita - Nei giornali online finisce sotto Halloween e il Gf Vip. I Tg, al solito, la raccontano tardi e male
di Lorenzo Giarelli

Sarà un caso, o magari è merito di una dote innata di mimetizzazione, ma ieri l’eco mediatico della notizia dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri è durata giusto qualche ora. In tarda mattinata il Corriere.it la riporta già nelle retrovie della sua home page, tra il quadro “più spaventoso che vedrete questo Halloween” e “la protagonista del Gf Vip Cecilia Rodriguez”. Su Repubblica.it e Lastampa.it va un po’ meglio, ma Visco e Kevin Spacey tolgono visibilità all’ex Cavaliere che per una volta, guarda il caso, deve fare a meno anche della ribalta televisiva.
Sugli schermiil Patto del Nazareno va alla grande: nelle edizioni dell’ora di pranzo nessuno dei principali Tg di Mediaset e Rai danno conto della notizia tra i titoli. Nell’edizione delle 13:30 del Tg1 il primo accenno alla questione arriva dopo 14 minuti, quando si riportano le dichiarazioni del 5 Stelle Simone Valenti secondo cui “Salvini dovrebbe prendere le distanze da Berlusconi, di nuovo sotto accusa per i fatti del ‘92”. Quali fatti? Quale accusa? La matassa viene dipanata sei minuti più tardi, quando arriva finalmente l’agognato minuto e mezzo su Berlusconi e Dell’Utri, che “sarebbero (sic) indagati come possibili mandanti delle stragi”. Stessa storia nel Tg5 delle 13. Tutto tace nei titoli, tra la disoccupazione, l’anniversario del terremoto del centro Italia e il restauro delle chiese gemelle a Roma. Dopo dieci minuti di telegiornale, la conduttrice si limita a leggere la nota di Niccolò Ghedini, avvocato di B.: “È evidente che è l’ennesima indagine che non potrà non concludersi con una rapida archiviazione, come per altro già accaduto in passato, non essendovi alcun reale elemento di novità. Puntualmente, come sempre, da oltre vent’anni, a ridosso di una competizione elettorale, a mezzo stampa a senza che siano stati avvisati il diretto interessato e i suoi avvocati è stata pubblicata con gran risalto (!) la notizia di una nuova indagine’”.
Quaranta secondi di difesa d’ufficio, nemmeno una parola sul merito dell’indagine. L’edizione delle 12:30 di Studio Aperto ribalta addirittura la questione: nei titoli si sta parlando dell’attacco via social network del 5 Stelle Angelo Parisi a Ettore Rosato, quando all’improvviso, en passant, arriva la bordata. “Solidarietà bipartisan sull’ipotesi avanzata dalla procura di Firenze di riaprire le indagini per le stragi di mafia del ‘93, un fascicolo che vede anche il nome di Berlusconi, già archiviato due volte”. Dopo 11 minuti la giornalista Monica Coggi rincara la dose: “Scoppia la polemica sulla cosiddetta giustizia a orologeria: questa mattina è intervenuto l’avvocato Ghedini per ribadire la totale estraneità ai fatti di Berlusconi per una vicenda già archiviata due volte. Da più parti si chiede l’intervento di Orlando per accertare le responsabilità di questa fuga di notizie, puntualmente a ridosso delle competizioni elettorali”.
Il capolavoro lo tira fuori il Tg4, nell’edizione delle 11:30: qui la notizia dell’indagine a carico di Berlusconi scompare direttamente nel nulla. Non c’è tra i titoli, non c’è tra i servizi, non un sottopancia, una foto, due righe lette dalla conduttrice.
In serata poi le cose precipitano una volta per tutte nell’oblio: mentre nelle home page dei siti Berlusconi e Dell’Utri scendono in basso – accanto ai “Sei giorni di ferie extra ai non fumatori per compensarli delle pause-sigaretta dei colleghi” su Repubblica.it– i telegiornali si scordano ancora ogni riferimento alla notizia nei titoli. Sul Tg1 delle 20 l’inchiesta diventa un inciso nel servizio della campagna elettorale in Sicilia, a metà telegiornale, mentre il Tg5, sulla vicenda, preferisce un riflessivo silenzio, prima di chiudere tutto in anticipo causa Champions League. Questione di priorità.

il manifesto 1.11.17
Berlusconi ri-indagato per strage. Il silenzio del futuro alleato Pd
Verso il voto. È la terza volta, in piena campagna elettorale. La solidarietà di Lega e destre, imbarazzo dem, attacca solo M5S. Salvini: Indagarlo per le stragi di mafia è ridicolo, è il solito intervento politico di una parte della magistratura, andrò a salutarlo giovedì al suo comizio a Catania
di Andrea Colombo

Come se una macchina del tempo avesse riportato la politica italiana nel passato Berlusconi, in testa nei sondaggi sia per il voto siciliano di domenica che per quello nazionale di marzo, finisce indagato per la terza volta per le stragi del 1993, dopo due archiviazioni. E stavolta non si tratta neppure più, come nelle precedenti, di concorso: il sospetto è addirittura che fosse il mandante delle mattanze.
MOMENTO PEGGIORE la procura di Firenze non poteva scegliere. L’intercettazione, peraltro confusa, nella quale il boss Graviano sembra indicare l’ex Cavaliere come puparo delle stragi («Berlusconi mi ha chiesto questa cortesia, per questo c’è stata l’urgenza») è nota da oltre un anno ed è impossibile che la vicenda si concluda con un rinvio a giudizio o con l’ennesima archiviazione prima delle elezioni. Così, fondata o meno che sia, la sensazione di una giustizia a orologeria sarà inevitabile.
IN EFFETTI LA PRIMA conseguenza del colpo a sorpresa partito da Firenze è stato il riavvicinamento fra le tre anime del centrodestra. Sino all’altroieri la competizione tra Fi e Lega, in Sicilia, era tanto marcata che Berlusconi e Salvini dovevano tenere comizi in piazze separate. «Indagare Berlusconi per le stragi di mafia è ridicolo. È il solito intervento politico di una parte della magistratura. Andrò a salutarlo giovedì al suo comizio a Catania», dice ora Salvini. Anche Giorgia Meloni si associa: «Un’altra campagna elettorale, un’altra indagine. Solidarietà al presidente di Fi». Giovedì anche lei dovrebbe arrivare a Catania per un vertice della destra riunificata.
MA NON SI TRATTA SOLO dei tre partiti che già formano la coalizione. Da Quagliariello a Sacconi, da Lupi a Fitto, denunciano le trame della magistratura e abbracciano l’indagato anche innumerevoli centristi. Se serviva un ponte per completare il riavvicinamento a Fi, l’inchiesta fiorentina sembra fatta apposta. Certo non tutti i centristi che si stringono all’ex Cavaliere mirano al rientro all’ovile di Arcore, ma non è un mistero che al Senato di fronte alla porta del presidente dei senatori azzurri Romani ci sia la fila.
IL PD È CONSAPEVOLE del rischio di un micidiale boomerang, senza contare il progetto di alleanza di governo dopo le elezioni con il sospetto mandante di qualche eccidio che impedirebbe comunque di alzare i toni. Quelli del Nazareno sono in effetti bassissimi. Sussurri. Nessun leader azzarda commenti e il solo a dire qualcosa è il deputato ex Pdl oggi nel Pd Gianfranco Librandi, che si trincera nell’ovvio: massimo garantismo, massima fiducia nella magistratura. E meno se ne parla meglio è.
TUTT’ALTRA MUSICA sotto il cielo a cinque stelle, dove viene colta l’occasione per sparare di nuovo su Salvini che «bacia le mani a Berlusconi e Dell’Utri». La crescente durezza degli attacchi dei 5S al Carroccio sembra escludere la possibilità di un’alleanza post-elezioni, contrapposta a quella tra il Pd e Fi. La realtà è meno lineare. Il fuoco di sbarramento contro la Lega rivela la consapevolezza nei 5S che le due forze pescano in un elettorato affine e spesso identico. La competizione a muso duro è quindi nell’ordine delle cose fino alla chiusura delle urne nella prossima primavera. Poi però proprio la vicinanza tra i rispettivi elettorati agevolerebbe l’intesa. Del resto, non a caso, la principale critica che il Movimento di Grillo muove a quello guidato da Salvini è il rapporto con Berlusconi, qualcosa che riguarda le alleanze, non l’identità leghista.
LE NOTIZIE IN ARRIVO da Firenze sono dunque, almeno per ora, meno brutte di quel che sembra per Berlusconi, che non dispera affatto di riceverne invece ottime dall’Europa. «Il candidato è Berlusconi e confido che la sentenza di Strasburgo arriverà in tempo, prima che si formi un governo», dichiara Tajani.
PAROLE IN LIBERTÀ? Fino a un certo punto, e non solo perché a pronunciarle è il presidente del Parlamento europeo proveniente dallo stesso Ppe di Angela Merkel, la cui influenza sulla Corte è indiscutibile. Non c’è solo questo. La Corte riceverà l’incartamento il 22 novembre. Di solito per la sentenza ci vogliono sei mesi, ma in questo caso la richiesta di accelerare non sarebbe peregrina. Non si farà in tempo per le elezioni, problema che l’ex Cavaliere risolverà mettendo il nome sul simbolo non potendolo fare nella lista. Poi, se la destra vincesse con Fi primo partito, si dovrebbe attendere poco per una sentenza che potrebbe schiudere a Berlusconi le porte di palazzo Chigi per la quarta volta.

Il Fatto 1.11.17
Il tramite tra Graviano e B. Una pista porta a Milano 3
L’indagine sui mandanti delle stragi punta all’intermediario che doveva portare a Berlusconi il messaggio del boss intercettato
di Marco Lillo

Si cerca di capire chi è l’uomo al quale Giuseppe Graviano voleva fare un discorso intimidatorio diretto alla fine a Berlusconi. E poi chi è quel “Giovanni”, che – secondo Graviano – “sa tutto”. E chi è l’uomo che aveva un locale dove si cucinavano “cose sfiziose” a Milano e infine il misterioso personaggio che avrebbe avuto un appartamento a Milano 3 quando i fratelli Graviano erano lì latitanti.
Sono questi gli spunti investigativi aperti dalle parole sussurrate dal boss Graviano al compagno di detenzione Umberto Adinolfi sui suoi presunti rapporti con il mondo della Milano da bere dei primi anni 90. Si scava anche sul passato del nonno materno di Giuseppe Graviano, Filippo Quartararo, classe 1901, morto nel 1986. Gli investigatori vogliono capire se siano passati da questo signore ricco “alto con i baffoni, l’abito scuro e l’orologio nel taschino, con la passione della caccia”, come lo descrive il nipote in cella, i primi rapporti della famiglia con i boss palermitani che hanno investito a Milano.
Tante piste, una sola certezza: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono indagati di nuovo a Firenze per l’ipotesi (ovviamente tutta da verificare) di strage. L’inchiesta mira ad accertare un eventuale ruolo del leader di Forza Italia e del suo braccio destro nella stagione delle bombe piazzate dalla mafia nel 1992 e nel 1993. L’indagine sui mandanti occulti è stata riaperta dalla Procura di Firenze guidata da Giuseppe Creazzo, competente per le stragi del ’93 a Firenze, Milano e Roma, grazie alle indagini della Procura di Palermo guidata da Francesco Lo Voi. L’iscrizione era quasi obbligata dopo che i pm Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia avevano trasmesso a Firenze le intercettazioni del boss Graviano, arrestato a Milano e recluso in isolamento dal gennaio 1994, come il fratello Filippo.
Ilfattoquotidiano.it ha già pubblicato la videoregistrazione del colloquio del 10 aprile del 2016 durante il quale Graviano parlerebbe, secondo i pm, di un favore chiestogli da Silvio Berlusconi nel 1992, prima delle stragi. Il legale di Berlusconi, l’avvocato Nicolò Ghedini, parla di “illazioni e notizie infamanti prima del voto, non avendo mai avuto alcun contatto il presidente Berlusconi, né diretto né indiretto, con il signor Graviano”. Poi chiede al ministro della giustizia Andrea Orlando di inviare gli ispettori contro i magistrati per la fuga di notizie.
Certo è che Graviano l’11 marzo 2016 sbotta contro un innominato con Umberto Adinolfi: “Mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta, senza soldi. Alle buttane glieli dai i soldi ogni mese”. Poi aggiunge: “Io ti ho aspettato fino adesso… ho 54 anni. I giorni passano, gli anni passano, sto invecchiando… eh… no. E tu mi stai facendo morire in galera… io ho aspettato… ma ti viene ogni tanto in mente di passarti la mano sulla coscienza se è giusto che per i soldi tu fai soffrire le persone così?”.
Poi il 10 e l’11 aprile del 2016 comunica al compagno di detenzione il suo piano. Nella lettura degli investigatori, Graviano vuole convincere Adinolfi, una volta uscito dal carcere, a mandare un soggetto di sua fiducia ad affrontare per strada una persona alla quale dovrebbe fare un discorso chiaro: “Umberto, ci mandi a qualcuno che loro non debbono sapere… lo dobbiamo sapere solo noi due… dice tizio… mi fai sapere… a qualcuno e incominciate a portare, a che poi saranno… con le mani in pasto… portare… altrimenti vi distruggiamo”.
Il destinatario ultimo del messaggio intimidatorio potrebbe essere – secondo l’ipotesi investigativa – Berlusconi. Mentre il soggetto che doveva essere affrontato per strada per intimorirlo, non è stato identificato. Il boss dice ad Adinolfi che per qualsiasi cosa si può rivolgere al suo amico di Brancaccio, “un fratello”, ora detenuto anche lui, Cesare Lupo. Adinolfi capisce che la cosa è delicata e cerca di svicolare ma il boss aggiunge una persona che potrebbe essere utile: “Giovanni è quello che sa le cose” e dice che con lui è bene stare attenti “se questo poi per difendersi ci racconta la verità?”. Quale sarebbe il segreto che Graviano avrebbe consegnato ad Adinolfi per intimorire gli amici di Berlusconi?
Il 10 aprile 2016, secondo la lettura degli investigatori, Graviano racconta ad Adinolfi la storia, da lui stesso definita delicata, dei rapporti tra la sua famiglia da un lato e gli ambienti che avrebbero agganciato il mondo di Berlusconi negli anni Settanta. In quel contesto dice la famosa frase: “Che succede? Io avevo i contatti e adesso passiamo a una fase molto delicata”. Poi sussurra nell’orecchio ad Adinolfi: “Voleva scendere già nel 1992 lo volevano indagare e Berlusca (per la difesa di Marcello Dell’Utri la parola non sarebbe Berlusca ma bravissimo, ndr) mi ha chiesto ’sta cortesia”.
Prima Graviano spiega perché lui aveva i contatti. E qui nomina il nonno materno, Filippo Quartararo, padre di Vincenza mamma di Filippo e Giuseppe Graviano, detenuti al 41 bis e condannati per le stragi. “Filippo Quartararo – spiega Graviano – aveva gli stand al mercato ortofrutticolo di Palermo. Era molto ricco, molto alto, all’antica. Negli anni 70 diventa amico del ‘Luong’ di Malaspina”. Graviano dice che “cambia sta situazione … siamo nel 1972, ’73”. Poi Graviano parla di una raccolta di soldi alla quale partecipò il nonno con altri personaggi. Le frasi sono poco comprensibili.
Il nonno di Giuseppe Graviano è morto nel 1986, quattro anni dopo l’uccisione del padre del boss, Michele Graviano. Giuseppe dice che in puntodi morte gli avrebbe raccontato queste cose. Finora il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo aveva parlato dei rapporti presunti del padre, Michele Graviano, mai del nonno materno. “Un giorno – ha sempre detto Di Carlo – viene da me Ignazio Pullarà, (boss della famiglia di Santa Maria di Gesù, ndr) quando avevano già ammazzato a Michele Graviano e mi dice: ‘Devo cercare a Tanino Cinà (in rapporti con Dell’Utri e morto mentre era sotto processo per mafia con l’ex senatore, ndr) perché Michele Graviano ha messo i soldi con Bontate a Milano”. Insomma i familiari volevano recuperare i soldi investiti a Milano dal vecchio Graviano.
“Michele Graviano non c’entra niente” dice ora in carcere il boss forse per dire che non era il padre Michele ma il nonno Filippo ad avere investito a Milano con i boss di allora.

Il Fatto 1.11.17
Borsellino, l’ultima intervista e i misteri ancora da svelare
di Peter Gomez

Ora che Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono di nuovo sotto inchiesta per le stragi di mafia è il caso che qualcuno trovi il modo di rispondere a una semplice domanda. Perché l’emittente francese Canal Plus, dopo l’attentato di via D’Amelio, non mandò subito in onda l’intervista che Paolo Borsellino aveva concesso a due suoi collaboratori il 21 maggio 1992, due mesi prima cioè di essere ucciso? Quel documento, anche a prescindere dal suo contenuto (si parlava molto di Berlusconi, Dell’Utri e del boss Vittorio Mangano), solo per la tempistica era giornalisticamente straordinario.
Borsellino aveva risposto alle domande due giorni prima dell’omicidio di Giovanni Falcone, della moglie e della loro scorta. E aveva parlato di mafia e riciclaggio. Di fatto quella era la sua ultima (o penultima) intervista. In tutto il mondo qualsiasi giornalista o editore era insomma in grado di comprendere che, a causa della morte del protagonista, il filmato era uno scoop internazionale. Eppure in Francia non accade nulla. Nessuno pubblica, trasmette, informa. Dell’esistenza e del contenuto dell’intervista, l’opinione pubblica verrà invece messa al corrente solo due anni dopo, grazie al settimanale L’Espresso. E i telespettatori dovranno attendere addirittura il 2000 prima di poter vedere una parte dell’intervista sulla Rai.
Le polemiche che sono seguite alla sua messa in onda e le discussioni sul significato della parole di Borsellino riguardanti Berlusconi e Dell’Utri, sono note. E, qui francamente, interessano assai poco. Più importante è invece capire cosa accadde (o non accadde) in Francia. Qualche mese fa Fabrizio Calvi, l’autore dell’intervista, ha sostenuto con ilfattoquotidiano.it di aver deciso lui di non pubblicizzare il botta e risposta con il giudice assassinato perché il video doveva essere montato in un più ampio documentario su Berlusconi e la mafia che stava girando da settimane. A commissionarlo, ha spiegato Calvi, era stato Canal Plus, che in questo modo voleva mettere in difficoltà l’allora Cavaliere. Racconta Calvi: “Io lavoravo per una casa di produzione indipendente e c’era un interesse di Canal Plus per Berlusconi e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq e la voleva trasformare in una tv criptata, entrando in concorrenza diretta con Canal Plus”.
Insomma la pay-tv, secondo Calvi, era mossa da interesse più affaristico che giornalistico. Tanto che, non appena Berlusconi rinunciò al suo impegno oltralpe, l’emittente decide di non mandare in onda niente. “Per Canal Plus non era più una storia utile”, spiega il giornalista, “La Cinq era fallita, Berlusconi aveva smesso d’investire da noi, e loro non ne volevano può sentire parlare”. Di fatto era stata siglata la pace. Calvi non sa però se durante il braccio di ferro tra le due tv qualcuno abbia fatto presente che era in preparazione un servizio giornalistico così imbarazzante. Ritiene però che Canal Plus non avesse ben capito cosa conteneva il girato, o per lo meno “tutta quella storia su Borsellino” È un fatto però che i giornalisti francesi, prima dell’attentato abbiano posto molte domande su Mangano, Berlusconi e la mafia, a diverse persone a Milano e Palermo. Alcune delle quali legate da rapporti di amicizia con Dell’Utri. Qualcuno insomma avvertì Arcore? I vertici della Fininvest chiesero spiegazioni al concorrente Canal Plus? O fu addirittura Canal Plus a muoversi? Non lo sappiamo. Ma, almeno per la storia, ci piacerebbe tanto saperlo.

Corriere 1.11.17
Emma Bonino, intervenendo al congresso di Radicali italiani, non ha escluso un «percorso comune» con il Pd di Matteo Renzi
Bonino apre al Pd: «Ma non siamo in svendita»
La replica alla «proposta un po’ rozza» dei dem. L’altra strada è con Pisapia. Martina: pronti al confronto
Bersani vede Tabacci: voi fatevi i vostri conti, noi andiamo avanti. Il gelo di Mdp sul dialogo con Renzi
di Giuseppe Alberto Falci

roma A un certo punto della lunga arringa Emma Bonino, intervenendo al congresso di Radicali italiani, non ha escluso un «percorso comune» con il Pd di Matteo Renzi, salvo poi fermarsi un attimo e avvertire: «Non siamo in vendita né in svendita». È il giorno dell’intervento dell’ex ministro degli Esteri dal palco dell’Hotel Ergife. A metà pomeriggio Bonino, definita sabato da Enrico Letta la «papessa laica», si alza e parla per circa cinquanta minuti. Dopo un lungo preambolo sull’Europa, l’immigrazione e l’importanza dei radicali, Bonino si rivolge ai «compagni e alla compagne» illustrando quali sono le strade percorribili.
La prima è quella che gli è stata proposta dal sottosegretario dem Sandro Gozi. «In modo un po’ rozzo — scandisce Bonino — ci ha fatto una proposta: di là c’è il diavolo e di qua l’acqua santa. Francamente è strabiliante perché tutti sappiamo che con il mezzo diavolo dovrà fare una grande coalizione. Non mi pare questa l’unica motivazione e certo non saremmo vincolati dopo il voto». L’altra invece, forse più probabile, riporta al progetto di Giuliano Pisapia, che — sorride Bonino — «godrebbe dell’esenzione delle firme per uno strano meccanismo abbastanza bizzarro che fa capo ad un deputato». E allora come si comporteranno i radicali? Non è ancora dato sapere anche perché, sbotta con un filo di malizia, «se abbiamo conosciuto la legge elettorale solo una settimana fa come avremmo dovuto decidere?».
Di certo, avvisa alzando il tono della voce, «noi siamo molto piccoli, ma abbiamo una storia, una credibilità, un patrimonio che siamo pronti a mettere a disposizione ma bisogna negoziare. Vi ricordate la trattativa che facemmo con Veltroni?». In platea si leva un urlo: «Brava!». Dalle parti del Pd si leggono come un segnale positivo le parole della pasionaria di via di Torre Argentina. Il vice segretario Maurizio Martina apprezza i toni e si dice «pronto al confronto di merito sul progetto, nel pieno rispetto dei punti di vista di ciascuno, con tutti coloro che sono interessati a collaborare con noi per l’alternativa a destra e Cinque stelle». Dello stesso avviso è Lorenzo Guerini che replica così: «Siamo aperti al confronto, rispettosi di storie, idee e sensibilità di tutti i soggetti e le personalità che siano interessate a costruire un campo riformista, innovatore e con lo sguardo rivolto all’orizzonte europeo, alternativo alle chiusure e ai populismi».
Intanto all’Hotel Senato, a pochi metri dai palazzi della politica, si sono ritrovati Bruno Tabacci (Campo Progressista) e Pier Luigi Bersani (Mdp). L’incontro, durato circa mezz’ora e definito da entrambi «positivo» , è ruotato attorno alla recente apertura alla coalizione larga da parte di Matteo Renzi dal palco di Napoli. Entrambi, però, non avrebbero apprezzato l’approccio — «Che coalizione è quella che non concerta la leadership?» — e Bersani si sarebbe rivolto così a Tabacci: «Fatevi i vostri conti, noi andiamo avanti».

il manifesto 1.11.17
Caro Tomaso, ecco perché Grasso è un programma vivente
di Arturo Scotto

Possiamo dire senza esitazioni che siamo alle battute finali di una discussione sulla sinistra e sul suo futuro. Recentemente mi sono apparsi di particolare interesse l’articolo di Stefano Fassina pubblicato sul manifesto qualche giorno fa e l’intervista a Nichi Vendola sull’Huffington post sul significativo gesto del presidente Grasso e la risposta di Tomaso Montanari. Vista dalla Sicilia, dove sono impegnato per la bella e entusiasmante campagna elettorale di Claudio Fava e dei militanti di tutta la sinistra, per certi aspetti la questione mi appare sotto una più semplice lettura.
Qui sta vivendo un’esperienza che lascerà il segno, e pianterà un seme duraturo nel tempo. Ha ragione Stefano quando teme il ripetersi di un’esperienza come quella della Lista Arcobaleno, accrocco di sigle senza un’anima. Eppure quello non fu l’unico limite di quella esperienza, che vissi in prima persona: quella lista non fece i conti con la crisi reale del paese nell’illusione che bastasse dichiararsi di sinistra per rappresentarne le domande.
Oggi la situazione è diversa. Il magma che sta crescendo sotto i nostri piedi, sotto i piedi della sinistra, ci costringe a fare i conti con la realtà: ogni scelta finora compiuta ne porta il segno, più ancora della volontà dei singoli che pure ha contato. La nascita di Mdp, la rottura della maggioranza sulla politica economica e sulla democrazia, una domanda di partecipazione e di senso che in giro per l’Italia sale in maniera capillare, non ci parlano di un accrocco, ma della carne viva del paese.
Il timore di un approccio verticistico nella costruzione della lista – che richiama invece Stefano – lo comprendo. È il mio stesso timore. Nel tempo dato, poco, avremo bisogno di offrire momenti di costituzione democratica di una nuova soggettività. Non si tratterà di cedere sovranità a una “cosa” più grande: ma provare a invertire l’ordine stesso della nostra sovranità. Come avvenuto in Sicilia, dove sono maturati autonomi orientamenti, il territorio spesso è più avanti del centro. Oggi è la nostra più grande ricchezza, non raccoglierne i frutti nel processo costituente che si apre sarebbe fatale. Bisogna farlo contare.
Non c’è nessun leader da incoronare, non si pensa prima al tetto e poi alle fondamenta. C’è invece l’ovvia constatazione – come nei fatti spiega bene Nichi Vendola – che il gesto delpresidente del Senato è parte del magma di cui prima scrivevo. E c’è l’altrettanto ovvia constatazione che la lunga esperienza di lotta alla mafia e il profilo di assoluto rigore istituzionale, incarnati nella figura del presidente, saranno fattori costituenti della nostra soggettività, al di là persino delle sue scelte personali. Dunque, da questo punto di vista «un programma vivente». Tomaso Montanari, nello specifico, rischia di fare un errore di valutazione serio: non c’è più nessuna rotta da invertire. È già stata invertita, e le conseguenze derivate dallo strappo sulla legge elettorale ne sono uno dei tanti esempi, forse tra i più significativi. Ci sono gesti che hanno un valore evocativo più forte di mille convegni. Le dimissioni dal Pd di Grasso sono un gesto evocativo che muove le cose. Adesso bisogna solo iniziare a correre.
*deputato Mdp

il manifesto 1.11.17
Togliatti sta a Renzi come la cultura politica al marketing
di Paolo Favilli

L’intervista rilasciata sabato scorso da Emauele Macaluso a questo giornale merita una riflessione attenta. Non solo per la grande storia di cui Macaluso è stato protagonista, onorevolmente protagonista, ma proprio perché il problema della forza dei numeri ch’egli pone è ben reale e va presa in seria considerazione anche se non si è d’accordo con le sue proposte e con la sua analisi del momento attuale.  Le riflessioni da cui muove Macaluso derivano da una parte da uno dei modi di concepire la politica di derivazione togliattiana che ha profondamente innervato tutta la vicenda storica del Pci, dall’altra da una seria preoccupazione per la rinascita impetuosa della destra italiana ed europea.  Penso di poter comprendere appieno un modo di intendere la politica che, nonostante la differenza di generazioni, è stato anche il mio. Un modo centrato sempre sulle necessità di incidere sugli equilibri politici esistenti, di stare sempre dentro, ad ogni costo, nella logica degli equilibri dati per modificarli. Un modo che rifugge da ogni comportamento da «anime belle», che avversa le piccole forze, «politicamente marginali», come si dice nell’intervista.  Un modo che è stato il pendant politico dell’«aderire ad ogni piega della società civile», uno dei capolavori strategici di Palmiro Togliatti.  La realtà con cui oggi dobbiamo confrontarci rende pressoché impossibile una tipologia politica che per una lunga fase della storia repubblicana ha dato positivi risultati. I numeri, la forza, stanno per ora, dalla parte del Pd, cioè dalla parte, sono parole di Macaluso, di «un agglomerato elettorale senza più cultura politica», che «si muove solo per restare al potere»; «un assemblaggio di potere che di sinistra non ha più niente».  Parole pesanti se si pensa che vengono da una personalità che non ha mai avuto alcuna simpatia per il radicalismo di sinistra, da una personalità chiave del «migliorismo» interno al Pci.  Parole che condivido completamente, ma credo che sul problema della «cultura politica» del Pd sia necessario un ulteriore ragionamento.  Non c’è dubbio infatti che la struttura dei dirigenti-cacicchi di ogni livello si muova soltanto sulla base di logiche di potere, di interesse personale (nessuna differenza, del resto, rispetto alla grande maggioranza del ceto politico degli altri partiti). Può farlo con disinvoltura perché ha interiorizzato a fondo, e quindi non è più nemmeno in grado di percepirla come tale, proprio la «cultura politica» più adatta a quel tipo di comportamento politico: la dimensione totalizzante del neoliberismo.  Il neo-liberismo, infatti, non è una nuova riedizione del laissez-faire, del liberismo classico, anch’esso peraltro garantito in equilibrio con la sfera protezionista dalle politiche statuali. Il neoliberismo è un sistema normativo mondiale ed europeo che ormai determina comportamenti politici, economici e sociali, per certi aspetti è anche un’antropologia. Un dispositivo di regole che determina, o intende comunque determinare, qualsiasi «valore» in termini di valore di mercato. E la politica, le istituzioni politiche, sono state i soggetti fondamentali del complesso normativo.  Un edificio la cui costruzione è iniziata negli anni Ottanta del Novecento e che si è solidificato, ben prima di Renzi, in un reticolo di norme cui hanno contribuito fattivamente anche i governi ai quali hanno partecipato in posizione dominante tutte le «cose» prima del Pd.  Si tratta dunque di una «cultura politica» ormai compattata e coerente. Su queste dure fondamenta sono possibili giochi di potere senza mettere in pericolo la stabilità strutturale della rete normativa.  In tale contesto cosa c’è di più inutile, di più «marginale» davvero, che adoperarsi a sollecitare la formazione di un forza politica atta ad evidenziare «le divergenze tra Renzi e Gentiloni» per «aprire una battaglia politica interna al Pd», in vista di un’ «alleanza che si può ancora fare».?  Le «culture politiche» sono una cosa seria, e a noi è necessaria una «cultura politica» antitetica rispetto a quella dominante, quella sulla cui solida base possono esercitarsi senza paura i «ballerini» (Kundera) della politica.  Nella nostra tradizione ci sono materiali teorici di prim’ordine per la costruzione/ricostruzione. Certo vanno tradotti in politica, in numeri e questo è il realismo di Macaluso che dobbiamo tenere presente.  Un’operazione non facile né di breve durata, ma non esistono scorciatoie. Soprattutto non esiste la riproposizione di un’ennesima operazione di mutamento di scena della stessa piéce teatrale.  Se vogliamo cambiare veramente stagione, non possiamo farlo rimaneggiando lo stesso copione ed utilizzando gli stessi attori.

Corriere 1.11.17
lo scenario Le elezioni
Le urne a marzo, poi il rischio di stallo L’opzione estrema di tornarci a giugno
di Massimo Franco
Un rosario di incertezze e l’incognita Grasso sulla creazione di un quarto polo
Il fatto che da alcune settimane si indichi la data del 4 marzo come probabile giorno delle prossime elezioni politiche è passato quasi inosservato. Si è detto che risponde alla fretta del vertice del Pd di andare alle urne, per interrompere una deriva logorante e altre scissioni; che è inutile tirare per le lunghe una legislatura agli sgoccioli, una volta approvata la legge di Stabilità: la si esporrebbe a una gara di provvedimenti estemporanei e elettoralistici. Ma a queste riflessioni, tutte pertinenti, se ne aggiunge un’altra che da tempo rimbalza tra i vertici istituzionali: la possibilità che dal voto emerga un Parlamento incapace di formare una qualsiasi maggioranza; e dunque che sia necessario fare subito nuove elezioni.
Si tratta di uno scenario estremo, e altamente improbabile; ma che non può essere escluso a priori. D’altronde, tutti i sondaggi dicono che con la nuova legge elettorale sarà quasi impossibile formare una maggioranza omogenea: nessun partito né coalizione avrà verosimilmente la forza per governare. L’eventualità che a questo si aggiunga il rifiuto di collaborare, costringe a passare in rassegna tutte le possibilità: anche le meno augurabili. Ebbene, un voto entro la prima metà di marzo sarebbe l’unico che permetterebbe, una volta certificata l’ingovernabilità, di sciogliere di nuovo le Camere e rimandare l’Italia alle urne entro il mese di giugno: dunque, prima dell’estate.
Sarebbe l’esito di una campagna che sembra destinata a polarizzarsi e a radicalizzarsi. E quindi renderà difficile qualsiasi ricomposizione anche dopo, per ragioni non solo numeriche ma politiche. È anche per questo che tacitamente un po’ tutte le forze, di governo e di opposizione, non hanno fiatato sulla scadenza di marzo. I tempi imposti dalla Costituzione sono stretti, e in caso di impasse andrebbero abbreviati al massimo. Ma la prospettiva di una trattativa lunga e inconcludente e di un Paese privo di governo, come avvenne in Spagna dopo le elezioni del dicembre del 2015 e giugno del 2016, preoccupa e spaventa. È vero che in quel caso l’economia recuperò. In compenso, però, le istituzioni subirono un logoramento vistoso.
Le tensioni che si stanno affastellando in questa fase fanno temere una deriva non troppo dissimile. Gli attacchi del vertice del Pd e di M5S e Lega a Bankitalia; l’ipotesi che la commissione parlamentare sul sistema bancario sopravviva allo scioglimento del Parlamento, diventando un’arma impropria sulla strada delle urne; lo scollamento tra il partito-perno della maggioranza e il «suo» premier, Paolo Gentiloni; l’offensiva polemica nei confronti dell’Unione Europea di un arco di forze tale da raffigurare il Paese come potenziale serbatoio dell’eurofobia; le tensioni permanenti in un Pd che guarda con apprensione al risultato delle Regionali in Sicilia di domenica prossima: tutto congiura per una frammentazione ancora più accentuata.
Su questo sfondo va inserita anche l’uscita dal Pd della seconda carica dello Stato, Pietro Grasso, e le indiscrezioni sulla creazione di un «quarto polo» di sinistra: sebbene il presidente del Senato abbia informato preventivamente della sua decisione il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, rassicurandoli sul piano istituzionale. Significa che resterà al suo posto almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Quanto al dopo, nonostante le voci il futuro è tutto da scrivere. La sensazione è che Grasso non si veda bene nei panni di un «secondo Giuliano Pisapia», l’ex sindaco di Milano calato sulla scena per unificare una sinistra alternativa al Pd, e uscitone dopo una lunga e inutile trattativa.
Semmai, il processo dovrebbe essere inverso: la diaspora dell’«altra sinistra» che si coagula, attira settori di opinione pubblica che si sono allontanati dalla politica. E poi offre a questi «sfrattati» dai partiti esistenti un nuovo contenitore e un leader con i contorni del coordinatore più che dell’aspirante premier. Sarebbe questa la strategia dell’«uovo fresco», immaginata dall’ex segretario del Pd, ora leader di Mdp Pierluigi Bersani: con Grasso nel ruolo di «uovo fresco» o «uomo nuovo» in grado di rappresentarli e di amalgamare un arcipelago dimostratosi finora ingestibile nella sua rissosità e autoreferenzialità. Per questo l’operazione continua a essere tutt’altro che scontata; e proietta l’ennesima ombra confusa sulla coda della legislatura.
Anche perché un «quarto polo» guidato da Grasso non garantirebbe il dialogo con il Pd renziano dopo il 4 marzo. Anzi, confermerebbe una spaccatura difficilmente sanabile, dopo l’uscita dal Pd seguita all’approvazione della riforma elettorale in Senato con cinque voti di fiducia. Per paradosso, sarebbe visto come uno dei possibili interlocutori chiamati a istituzionalizzare dopo le elezioni un Movimento 5 Stelle ansioso di entrare nei giochi di governo; e da tempo a caccia di sponde che lo legittimino non agli occhi dell’elettorato ma dello «Stato profondo»: quello di cui un politico e ex magistrato rispettato come Grasso è espressione da anni.

Corriere 1.11.17
«Ecco perché lascio la Rai Mi volevano defilata in campagna elettorale»
Gabanelli: ho proposto una striscia di 4 minuti, hanno detto no
intervista di Paolo Conti

Milena Gabanelli, dunque addio alla Rai?
«Sì. Ho deciso ieri, martedì».
E perché? Con una nomina a condirettore di «Rai News»...
«La proposta che mi è stata fatta in questi mesi non ha avuto evoluzioni e non mi mette nelle condizione di produrre risultati apprezzabili».
Ma la condirezione di «Rai News» con delega al sito non è un ottimo posto, un’eccellente occasione professionale?
«Dipende dagli obbiettivi. Il sito di Rai News , anche con 40 giornalisti, non è in grado di dare una copertura competitiva 24 ore su 24, ma la vera questione è che quel sito è percepito dai giornalisti Rai come una testata diversa dalla propria, quindi concorrente: il collega del Tg1 non anticipa la sua notizia sul sito di Rai News . Io sono stata assunta a gennaio per predisporre, con la direzione digital, il portale unico di informazione online, slegato dalle testate e quindi capace di veicolare i contributi di tutti i 1.600 giornalisti dell’azienda. Lei capisce che è un’altra storia. Oggi il servizio pubblico nell’informazione online non c’è. E non ci può essere con un sito come quello che sta dentro a Rainews.it , anche con tutti gli sforzi possibili».
La Rai dice: tra sei mesi vareremo il piano news e arriverà il vero portale, chiudendo altre testate.
«Ho chiesto di indicare tempi certi e scadenze sicure. Non me le hanno date, perché è impossibile darle. Tra sei mesi l’attuale consiglio di amministrazione sarà in scadenza dopo tre anni di attività, quindi dubito che prenderà decisioni sull’accorpamento di altre testate per poi varare il portale unico. Quindi si aspetterà il prossimo cda, magari con un diverso direttore generale, che forse deciderà — giustamente — che io non vado bene perché nel frattempo non sono riuscita a produrre risultati oltre lo zero virgola».
Il problema è forse la direzione di «Rai News»?
«Figuriamoci. Lo ribadisco: stimo Antonio Di Bella, e c’è anche un bel rapporto personale, ma il direttore responsabile è lui! Dentro a uno sgabuzzino a cosa serve un condirettore? Fa giusto un po’ di scena, ma è un colpo di cipria sul nulla... a parte lo stipendio. Ma io penso di avere un valore, non un prezzo».
Non ha avanzato proposte alternative, Gabanelli?
«Sì, un paio di mesi fa ho chiesto al direttore generale di capitalizzare il lavoro fatto con il gruppo di Data Journalism, capace di elaborare una mole di dati e farne la sintesi. Gli ho proposto una striscia quotidiana di un racconto per numeri, della durata di 4-5 minuti, dopo il Tg1 , con pubblicazione anche sullo stesso sito di Rai News . Mi è stato risposto che è impossibile inserire i 4 minuti perché il palinsesto è già varato. Tutto il mondo “sfora” senza problemi. Ma non è questo il punto, se credi in un progetto 4 minuti li calibri dove vuoi. Poi Orfeo mi ha detto che “eventualmente se ne potrebbe riparlare a giugno”. Non c’è altro da aggiungere».
E perché? Per polemica?
«Il sottotesto sembra essere: “Ti vogliamo bene, abbiamo grande stima, ma in campagna elettorale devi stare defilata”. Credo che la mia indipendenza sia nota, e tra l’altro avrei affrontato argomenti trasversali, con numeri capaci di spiegare fenomeni complessi con una modalità innovativa comprensibile dal grande pubblico, e per questo sempre più sfruttata da grandi testate, siti e notiziari tv»
La Rai non ha controproposto nulla?
«Lunedì il direttore generale ha offerto di ritornare a Report , e fare la co-conduzione accanto a Sigfrido Ranucci. Mi è parsa un’idea un po’ stravagante, perché sono stata io a decidere di lasciare la trasmissione, non sono stata mandata via, ritenevo conclusa l’esperienza. La Rai cosa fa? Mi propone di tornare indietro, con una proposta anche mortificante verso Ranucci e la squadra di Report che stanno producendo ottimi risultati...».
Rimpianti nel lasciare la Rai?
«La parola rimpianto non rende bene... Ci sono momenti, nelle vite professionali, in cui diventa indispensabile girare pagina. Avrei apprezzato se mi avessero detto lealmente: “In questo momento non si può fare altro”. Me ne sarei andata comunque, ma con una stretta di mano... Invece cercare di convincermi dell’impossibilità a modificare qualunque cosa su un’idea di 4 minuti, come se parlassero a una persona che questi 30 anni ha fatto un altro mestiere... Beh è un pelino mortificante».
E ora cosa farà? Dove andrà?
«Da domani ci penserò. Fino a oggi mi sono concentrata su un piano che mi era stato chiesto dalla Rai al momento dell’assunzione. E poi su un’idea alternativa, pur di restare dentro al servizio pubblico. È andata male, ma non morirà nessuno fortunatamente. Il mio futuro? Comunque non intendo cambiare mestiere, mi inventerò solo una nuova strada...».

La Stampa 1.11.17
“Ringrazio Orfeo e la Maggioni, hanno spianato la strada per l’uscita”
Amaro sfogo della Gabanelli dopo le dimissioni dalla Rai “Non cambio lavoro e non faccio la vittima: penso al futuro”
intervista di Michela Tamburrino

Tutto cominciò con un pianto, forse liberatorio, forse profetico, sciolto da Milena Gabanelli a telecamere accese. Così tra le lacrime e accasciata, diceva addio a «Report» per altre avventure più avventurose.
E tutto finisce a qualche mese di distanza, presumibilmente con un altro pianto, di delusione e anche di dolore per un addio, questo sì, che non avrebbe voluto pronunciare. Milena Gabanelli abbandona la Rai. Prende il treno e parte per mettere distanza anche fisica tra lei e l’Azienda che è stata sua per tantissimi anni. E lo fa con quel disappunto che la porta a dire: «Ringrazio Orfeo e Maggioni per avermi spianato la strada verso l’uscita». Nella lettera inviata all’Azienda si legge che a decorrere dal 15 novembre rimette il suo mandato, mai veramente chiarito, allo scadere del suo periodo di aspettativa non retribuita, rifiutando così l’offerta della Direzione Generale della condirezione di Rai News per lo sviluppo del portale web e del ritorno alla sua storica trasmissione «Report». Proposte per lei irricevibili. Una lettera dai toni netti: «Ho comunicato all’Azienda le mie dimissioni poiché le condizioni proposte non permettono di produrre risultati apprezzabili».
A nulla sono valsi i tentativi di mediazione, Gabanelli, abbiamo imparato, non conosce mezzi termini. Una decisione che ha stupito e amareggiato il Dg Mario Orfeo: «Ho provato ogni soluzione per trattenerla. Le abbiamo fatto una doppia offerta che doveva rappresentare il momento di passaggio verso la nascita di una testata web autonoma i cui tempi tecnici di realizzazione sono fissati da un nuovo contratto di servizio approvato dal Cda Rai. Un’offerta, la nostra, molto più avanzata rispetto a quella da lei accettata nel gennaio scorso quando al mio posto c’era Campo Dall’Orto».
Un’uscita, quella di Gabanelli, accolta da Fnsi e Usigrai con disappunto. «Perdita molto grave», è il commento mentre per i parlamentari M5S in Commissione di Vigilanza si tratta «del fallimento di Mario Orfeo come Direttore Generale. Ora le si spalancano le porte de La7, come da dichiarazioni del direttore di rete Andrea Salerno, senza trascurare l’ipotesi Sky, dove si lavora proprio adesso al rinnovo dell’informazione.
Gabanelli, perché questa decisione?
«La condirezione di Rainews con delega al relativo sito e l’implementazione del numero dei giornalisti non ne modifica il limite. La nascita del portale unico di news on line per il quale ho lavorato questi mesi è subordinata a tempi non certi. Anche la mia idea di una striscia quotidiana di 4 minuti di un fatto raccontato per numeri, capace di non disperdere il lavoro svolto non è stata accettata».
E l’ipotesi di tornare a «Report» non le ha fatto piacere?
«Ritornare a “Report” in condirezione con Ranucci è un’offerta mortificante, per il collega e per l’intera squadra che sta facendo un lavoro eccellente. Non dimentichiamo che sono stata io, dopo 20 anni, a ritenere quell’esperienza conclusa».
Più dolore o più dispiacere?
«Dolore è una parola forte. Io penso che nessuno sia insostituibile ma certo, uscire dal servizio pubblico dopo tanti anni di lavoro è un grande dispiacere».
Tanto simile al dolore.
«Non voglio fare la vittima né invocare il martirio. Certo, a caldo il malessere resta».
Si sente di dover dire qualcosa a qualcuno per come si è svolta tutta la sua vicenda?
«Mi sento di ringraziare il Direttore Generale Orfeo e la Presidente della Rai Maggioni per avermi spianato la strada verso l’uscita».
E adesso che cosa farà?
«Credo sia arrivato il momento di pensare al futuro. Da domani certamente lo farò. Finora mi sono impegnata in questa trattativa che ha assorbito tutte le mie energie e non ho avuto tempo di pensare ad altro. Ma non ho voglia di cambiare mestiere».

Il Fatto 1.11.17
Orfeo fa scappare Gabanelli (dopo averla emarginata)
Finita l’autosospensione - La giornalista si dimette: era ferma da mesi in attesa che fosse creata la testata web della tv di Stato
di Gianluca Roselli

Che potesse finire così lo si era capito di fronte all’ultima proposta della Rai: andare avanti col progetto web in forma ridotta e in più, come contentino, tornare a Report. Una controfferta, specie nella seconda parte, dal sapore beffardo. E così, dopo un ultimo colloquio con Mario Orfeo lunedì pomeriggio, Milena Gabanelli ha deciso di lasciare la Rai. Ieri, alla scadenza del periodo di aspettativa che lei stessa si era presa, la giornalista ha rassegnato le dimissioni dalla tv di Stato dove era stata assunta nove mesi dall’allora direttore generale Antonio Campo Dall’Orto. Presa per dirigere una nuova testata: un grande portale web da oltre 80 giornalisti che avrebbe dovuto risollevare le sorti di mamma Rai su internet. Poi, però, dopo la bocciatura del piano informazione di Campo Dall’Orto e le sue dimissioni da dg, le cose per Milena, che si era già messa al lavoro, si sono complicate.
Con Mario Orfeo è iniziato una lunga trattativa, conclusa con un nulla di fatto. A niente è valsa anche l’ultima proposta della giornalista: un ritorno in video in una striscia di 4 minuti dopo il Tg1 della 20 con l’esame di un fatto del giorno raccontato per numeri (data journalism). “I palinsesti sono già chiusi e quella è una fascia blindatissima: è l’ora di maggiore ascolto e gli spot sono già venduti da mesi, impossibile spostare qualcosa”, la risposta di Viale Mazzini. Che le ha avanzato la controproposta di tornare in co-conduzione a Report, la sua creatura ventennale che lei stessa aveva affidato nelle mani di Sigfrido Ranucci un anno fa.
“Ho comunicato all’azienda le mie dimissioni perché le condizioni proposte non permettono di produrre risultati accettabili”, ha spiegato Gabanelli. “La condirezione di Rainews non ne modifica il limite, invece la nascita del portale unico di news on line su cui ho lavorato in questi mesi è subordinata a tempi non definiti e certi”, ha aggiunto. Subordinata al futuro nuovo piano informazione che avrebbe consentito la nascita di una nuova testata web. Ma, con le elezioni alle porte e i vertici Rai in scadenza il prossimo luglio, non si sa quando e se il nuovo piano news vedrà la luce.
Gabanelli ha poi spiegato che l’idea di una striscia quotidiana è venuta “proprio per non disperdere il lavoro fatto in questi mesi, ma anche questa strada per il dg non è percorribile”. Infine, riguardo a Report, “oltre a precisare che è stata la sottoscritta a decidere che era venuto il momento di considerarla un’esperienza conclusa”, la giornalista ha fatto sapere di considerare la proposta di un suo ritorno “mortificante per il collega e l’intera squadra, che sta portando avanti il programma in modo eccellente”.
La sensazione è che Viale Mazzini abbia fatto di tutto per farsi dire di no. “Sono dispiaciuto e stupito. L’incarico di condirettore di Rainews24 con la delega allo sviluppo di un portale web con 45 giornalisti, una nuova grafica e il contributo di tutte le testate era prestigioso e di tutto rispetto”, ha detto Mario Orfeo. “Unito a un suo ritorno a Report, si trattava di una doppia offerta che doveva rappresentare il momento di passaggio verso la nascita di una testata web autonoma”, ha aggiunto il Dg. Insomma, secondo Orfeo è stato fatto tutto il possibile. Per Gabanelli, invece, neanche il minimo sindacale. Il risultato è che Viale Mazzini perde una delle migliori giornaliste d’inchiesta a livello internazionale, un pezzo da novanta che ora si metterà sul mercato (verso Sky?). Mentre Orfeo rischia di essere ricordato come il dg Rai che ha firmato un mega contratto a Fabio Fazio e si è lasciato scappare Gabanelli.

Repubblica 1.11.17
Milena Gabanelli
“Mi costringono a lasciare il posto in cui ho lavorato, non potevo stare a bagnomaria”
“Mille scuse per fermarmi rimanere era impossibile”
di Aldo Fontanarosa

ROMA. Come sempre nelle giornate più buie, Milena Gabanelli fa tappa alla redazione di
Report, la sua creatura per vent’anni, provando a riordinare le idee e a curare le ferite. È andata così anche ieri. Ed è lì che, al primo abbraccio con i colleghi più cari, Milena comincia a sfogarsi, arrabbiata: «Per tenersi Fabio Fazio, la Rai è andata contro le leggi di gravità.. Ha svuotato Rai 3 e intanto, su Rai1, Fazio non sta certo facendo il botto, pur costando tanti soldi. Nel 2010 qualcuno temeva che emigrassi verso La7 (non era vero e io non l’ho mai detto), e la rete mi propose un aumento di compenso (il mio era ed è tuttora uno dei più bassi in rapporto al risultato prodotto). Io lo rifiutai e chiesi però di alzare lo stipendio dei miei collaboratori, tutti freelance ».
«Ho ceduto il marchio Report all’azienda. Se si è affermato - ho sempre pensato - è grazie agli investimenti di Viale Mazzini, quindi è giusto che resti alla Rai. Tutti i conduttori che si sono inventati un marchio, loro se lo sono tenuti ben stretto, da Fazio a Vespa, e possono portarselo dove vogliono ».
«Da quando esiste il Qualitel, la sottoscritta viene sempre indicata come il volto che incarna in assoluto il senso del servizio pubblico e Report come il programma di informazione che lo rappresenta meglio. Qualcuno dirà che sono costata tanto per via delle tante querele e citazioni. Ma io finora non ho perso una sola causa, penale o civile».
«Il Cda di oggi ritiene che io debba essere tenuta a bagnomaria. I consiglieri e la presidente hanno perfino sollevato dei dubbi, a gennaio, sulla legittimità della mia assunzione come vicedirettore. Sta scritto sui verbali del Cda e piovvero dichiarazioni del consigliere Mazurca o come si chiama, di Diagonale o come si chiama, e compagnia. La scusa (perché è una scusa) è che non si può varare una nuova testata se non se ne chiudono prima delle altre. Non riescono ad accorpare al Tg1 una testata inutile (con tutto il personale dedicato) come è Tg Parlamento, e per questo bloccano una testata online degna del servizio pubblico. Dicono di no, nonostante i profitti che ne deriverebbero. Un portale graficamente pronto e sviluppato, per effetto delle tante risorse investite, sta lì fermo».
«Nell’attesa del famoso piano di riorganizzazione dell’informazione, ho proposto di utilizzare il lavoro fin qui fatto con una squadra di data journalism (tutta di giornalisti Rai distaccati da altre redazioni) per portare in onda un evento al giorno in 4 minuti. Un evento raccontato per numeri, in coda al Tg1. La decisione di dare corso a questa innovazione non passa dal Cda; il via libera può arrivare in autonomia dal direttore generale Mario Orfeo». Lui, Orfeo, ha fatto un’obiezione tecnica a questa idea. Non si cambia un palinsesto dei programmi già deciso, prima di giugno 2018. Ma Gabanelli non accetta le ragioni del dg perché - dice - il Tg1 dura quattro minuti in più del dovuto e andrebbe contenuto; perché il programma che segue, I soliti ignoti, “può essere accorciato di 4 minuti senza togliergli nulla, visto che è registrato».
Ancora Gabanelli: «Mi viene proposto di ritornare a Report, senza manco dirlo a Ranucci. Come se qualcuno mi avesse mandato via, e così non è. Inoltre la proposta è una grave dichiarazione di sfiducia verso Ranucci, l’attuale conduttore, che sta andando benissimo. E ancora: mi propongono la condirezione di RaiNews come se fosse un avanzamento di carriera. Il direttore responsabile sarebbe pur sempre Di Bella, mentre la condirezione non vuol dire nulla, se non un aumento di stipendio. Ho rinunciato. L’azienda è piena di dirigenti pagati come top manager ma che non fanno nulla,».
«Alla fine mi costringono a lasciare, dopo 30 anni, l’unico posto in cui ho sempre lavorato. Impossibile restare».

il manifesto 1.11.17
Podemos e sinistra indipendentista con le ossa rotte
di Marco Grispigni

Lo scioglimento del Parlamento catalano e del suo legittimo governo, democraticamente eletto nel 2015, la convocazione d’autorità da parte del governo centrale di nuove elezioni nella regione, il 21 dicembre e la «fuga» del Presidente repubblicano Puigdemont in Belgio, sembrano chiudere il «processo» indipendentista catalano con una netta vittoria del blocco nazionalista spagnolo. Come affermava Santiago Alba Rico, in un amaro ma lungimirante articolo, «la crisi catalana ha chiuso quella finestra di opportunità che le forze del cambiamento non hanno saputo mantenere aperta in Madrid».
Il panorama politico e sociale che emerge dopo la crisi è sicuramente preoccupante anche se la situazione non è completamente stabilizzata. Il ricompattamento del fronte reazionario all’insegna del «patriottismo costituzionale» permette a uno dei partiti di governo più corrotti d’Europa, il Pp, di innalzare la bandiera della «legalità». A questo quadro politico occorre aggiungere la «ferocia» della magistratura che nei confronti dei dirigenti indipendentisti utilizza l’accusa di «ribellione» e «sedizione»: la stessa che fu mossa al colonnello Tejero, per il tentato golpe.
Le vicende di questi giorni potrebbero lasciare sul terreno due vittime politiche: l’indipendentismo di sinistra e Podemos.
Il processo indipendentista catalano nel corso degli anni e nel precipitare degli eventi degli ultimi mesi, è cambiato in maniera significativa. Da un progetto egemonizzato dall’autonomismo della borghesia catalana, si è trasformato in un movimento con fortissime radici popolari grazie alla capacità di mobilitazione di due associazioni: l’Assemblea Nazionale di Catalogna e Omnium culturale. La capacità di mobilitazione nelle frequenti manifestazioni, ma soprattutto in occasione del referendum «illegale» del 1 ottobre, ci parlano di un fenomeno politico con un consenso popolare al quale qualsiasi forza di sinistra dovrebbe guardare con rispetto e con attenzione (evitando quindi le sciocche equiparazioni indipendenza=nazionalismo=razzismo identitario).
Questo processo esce con le ossa rotte dal confronto con l’apparato statale nazionale. L’abbandono da parte della borghesia catalana, con lo spostamento della sede legale di numerose imprese, l’impreparazione rispetto alle reazioni del governo spagnolo, l’isolamento internazionale, dimostrano come l’analisi della Cup, che riteneva la Catalogna l’anello debole dove i rapporti di forza esistenti avrebbero permesso di aprire una vera e propria crisi del regime del ’78, fosse totalmente velleitaria.
L’altra vittima sembra essere Podemos e la sua posizione netta ma difficile da gestire. No all’indipendenza ma sì al diritto a decidere da parte dei catalani, con un referendum legale, nel quadro di una profonda revisione costituzionale che affermi il carattere plurinazionale della Spagna. Questa posizione, nel momento della radicalizzazione del referendum secessionista, è diventata il classico vaso di coccio.
Podemos si trova lacerata da due spinte divergenti. Da un lato la pressione di chi, a fronte della dimensione popolare della mobilitazione indipendentista, spinge per schierarsi a favore della Repubblica Catalana, rifiutando la «terza via» teorizzata dal partito. È il caso di Albano Dante Fachin, segretario di Podem, la «sezione» catalana della formazione viola; oppure quello della corrente degli «anticapitalisti» del partito (minoritaria, fin dalle origini, dentro Podemos) che ha pubblicato un comunicato ufficiale di riconoscimento della Repubblica catalana.
Dall’altro lato le critiche di chi, ad esempio Carolina Bescansa, una delle fondatrici di Podemos, rimprovera il partito di una vuota retorica e di non sapere articolare un discorso e delle proposte concrete rivolte alle masse popolari non catalane.
Il tutto mentre fioccano le accuse di «tradimento della patria» che i partiti politici e la gran parte dei mezzi di comunicazione muovono contro Podemos e le aggressioni fisiche da parte di gruppi di «difensori della patria», che avvengono in diverse città con la sostanziale tolleranza delle forze dell’ordine.
Resta una speranza? Forse sì e si chiama Ada Colau, la sindaca di Barcellona. Colau ha ripetutamente espresso posizioni politiche simili a quelle di Podemos, ma il suo ruolo di sindaca, le iniziative nella città per difendere sia il diritto di esprimersi che le libertà dei funzionari pubblici catalani, hanno dato una dimensione concreta alle posizioni che per Podemos restano invece astratte.
Ada Colau e la possibilità di conservare quegli spazi conquistati dalle «amministrazioni del cambiamento». A questo sembra ridotta la speranza di un futuro diverso in Spagna: non è certo una prospettiva che induca all’ottimismo.
* curatore di Catalogna indipendente – Le ragioni di una battaglia, manifestolibri 2017

Il Sole 1.11.17
Se l’Europa «non interviene»
di Adriana Cerretelli

Aveva messo a segno un colpo da maestro il 1° ottobre sfidando la Spagna e il Governo Rajoy con il referendum sull’indipendenza della Catalogna: atto illegale secondo la Costituzione del paese ma consumato in un clima di intimidazione e violenza da parte della Guardia Civil, che aveva scatenato in Europa e nel mondo un’ondata di simpatia per la sua causa e di condanna della repressione.In trenta giorni esatti Carles Puigdemont ha bruciato il proprio capitale politico facendo uscire Mariano Rajoy dall’angolo in cui era finito, complici i suoi troppi errori, ma senza riuscire a tirare l’Europa dalla parte della sua causa.
«Non si proclama l’indipendenza per abbandonare subito il campo» dice un alto esponente del Governo belga. Fuga da Barcellona, irreperibilità per tutto il weekend, quindi repentina apparizione lunedì a Bruxelles hanno lasciato i catalani costernati, gli spagnoli sollevati, gli europei infastiditi.
Il deposto presidente della Generalitat ieri ha parlato alla stampa internazionale in veste di martire pacifista dell’indipendentismo catalano, vittima «dell’aggressività, della violenza, della vendetta e non della giustizia spagnole». Giunto a Bruxelles, «la capitale d’Europa», non per chiedere asilo in Belgio ma per spiegare le ragioni della Catalogna e del suo diritto all’autodeterminazione, per europeizzare una battaglia fatta di valori europei come democrazia, libertà, accoglienza e non violenza, contrapposti a quelli di una Spagna militarizzata e repressiva che, condannando a 30 anni di carcere i dissenzienti, non riconosce quei valori.
Negando di aver abbandonato i suoi, Puigdemont ha affermato che continuerà l’azione del Governo in esilio, pronto a tornare se otterrà «garanzie di un processo giusto» e non politicizzato. Ha annunciato che accetterà il risultato delle elezioni del 21 dicembre. E ribadito la richiesta di aiuto all’Europa «per dare esito politico a un conflitto politico».
Ha parlato a lungo ieri a Bruxelles ma non ha convinto quasi nessuno nei panni del nuovo Gandhi illegalmente spogliato di poteri legittimi da una sorta di colpo di Stato spagnolo. Non ha convinto perché, semmai, è vero il contrario.
Però è altrettanto vero che l’accanimento giudiziario contro i vertici catalani, con l’equiparazione di un atto di ribellione pacifica a un atto di terrorismo e pene relative, potrebbe, se continuasse, rivelarsi l’ennesimo errore madornale di Rajoy ribaltandone l’attuale vantaggio politico e mettendo alla lunga in difficoltà l’Europa che lo sostiene.
La partita catalana è una di quelle in cui tutti i protagonisti camminano sul filo del rasoio: di sicuro la Spagna, che rischia di perdere la sua regione più ricca e dinamica nel braccio di ferro tra nazionalismi contrapposti e reciprocamente accecati da sè stessi.
Di certo anche l’Europa che, in quanto unione di Stati nazionali e sovrani, per definizione non ha scelta nella parte da recitare in questo copione, l’ennesimo dal fronte delle molteplici crisi aperte al suo interno. E per questo rifiuta di esercitare un ruolo politico in una vicenda «interna».
Si discute molto ed alta voce di rilancio imminente dell’integrazione politica, economica, finanziaria, militare nelle forme e nei modi da definire nei prossimi due anni. Forse anche per tentare di esorcizzare le forze della disgregazione che non cessano di tormentarla e indebolirla.
Non c’è solo Brexit, il vulnus storico del divorzio britannico prossimo venturo. C’è l’avanzata dell’estrema destra un po’ dovunque ma soprattutto nel cuore della prospera Mitteleuropa che ritrova nazionalismi, xenofobia ed egoismi diffusi, più o meno assertivi e determinati a darle la linea. Ci sono i populismi più o meno anarcoidi che lavorano ai fianchi le sue democrazie, con i partiti tradizionali sempre meno in grado di rispondere alle ansie delle società rispettive. E ci sono regionalismi e separatismi sempre pronti a rialzare la testa alla ricerca di autonomie più o meno radicali.
Paradossalmente il gioco alla frantumazione dell’Europa e dei molteplici interessi che la compongono avviene proprio quanto il ritorno di una robusta ripresa economica creerebbe le condizioni indispensabili per superare molti malumori anti-Ue e rimettere in marcia un’Unione più forte e credibile.
Crisi e incomprensioni più o meno endemiche tra europei, che siano Stati, regioni o cittadini, finora non hanno mai impedito all’Unione di avanzare tra stop and go, entusiasmi e grandi rifiuti. In questo senso nemmeno la questione catalana farà eccezione. A patto che il buon senso prevalga tra tutti e l’Europa, sia pure dietro le quinte, se ne faccia garante.

il manifesto 1.11.17
Kurz, il rottamatore «neofeschist» della politica austriaca
Intervista. Il futuro cancelliere «slimfit», che fa accordi con l’ultra destra, secondo Armin Thurnher, direttore del settimanale «Falter»
di Angela Mayr

VIENNA Un direttorio di 10 persone guidato da Sebastian Kurz e H.C. Strache, cinque aree tematiche suddivise in 25 sottogruppi che saranno fiancheggiati anche da esperti esterni, ecco l’apparato mastodontico che sta conducendo i negoziati avviati tre giorni fa per un comune programma di governo tra i «nuovi» popolari (Oevp) e il partito di ultradestra Fpoe. Dovrebbero concludersi entro natale. Per ora si è discusso solo dello stato delle finanze. A rischio, secondo indiscrezioni, le ultime misure in sostegno al mercato del lavoro approvate dal governo uscente e volute dai socialdemocratici (aiuto alle assunzioni di over 50enni e di disoccupati). Su un programma più preciso e concreto è ancora silenzio completo.
Intanto è polemica accesa su una parola, Neofeschist, con la e, contrazione tra fascista e fesch, traducibile in italiano sia con «fico» che «fighetto». Campeggiava sulla prima pagina del settimanale viennese Falter la settimana scorsa, affiancata alla foto di Sebastian Kurz. Armin Thurnher, editore e direttore del giornale più critico e anticonformista del panorama austriaco ha inventato il termine, spiegandolo in un lungo editoriale dedicato al nuovo enfant prodige della nazione. 
Armin-Thurnher
Giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri, tra gli ultimi titoli Republik ohne Wuerde (Repubblica senza dignità, Zsolnay 2013) e Ach Oesterreich! Europaeische Lektionen aus der Alpenrepublik (Ahi, Austria! Lezioni europee dalla repubblica alpina, Zsolnay 2016), abbiamo incontrato Thurnher al centro di Vienna, nella redazione del suo giornale.
Parliamo di Neofeschist come ha chiamato Sebastian Kurz. Parola che non vuol dire neofascista, ma richiama quel concetto. Cosa ha di fascista Kurz?
Nulla. Ma mostra dei tratti autoritari, che emergono dalle sue continue affermazioni di voler cambiare tutto, di essere deciso a fare da guida. Con questo atteggiamento contrasta la sua non volontà di dire cosa di preciso vuole cambiare. Dà l’impressione di essere, più che il capo di un partito, il fuehrer di una setta. Durante la campagna elettorale il suo argomento principale è stato l’immigrazione. È un motivo classico della destra, che mette gli uni contro gli altri, gli «autoctoni» contro gli «stranieri». Kurz ha fatto la stessa cosa anche su scala europea argomentando costantemente contro la politica di Angela Merkel e facendo intendere un’altra linea più dura, quella della rinazionalizzazione.
Esisteva già il termine Feschist, che lei ha coniato per Joerg Haider nel 2000. Quali le somiglianze e differenze con Haider ?
Kurz rinuncia ad allusioni al nazionalsocialismo; proviene dall’ambiente cattolico. Il suo problema non è – (come lo era per Haider, nda) – dover prendere le distanze dai vecchi nazionalisti pangermanici, ma il fatto di dover formare una coalizione con loro. La sua gioventù e il suo appeal slimfit lo fanno diventare la figura di proiezione ideale per tutti i desideri di rottamazione del fiacco vecchio sistema. Il tutto rafforzato dall’estetica stile Riefenstahl dei suoi manifesti e dalle scenografie dei raduni di massa con i giovani seguaci in divisa t-shirt.
Per il successore di Haider, H.C. Strache, il termine Neofeschist pare meno adatto, meglio usare la a? Stavolta tra i deputati della Fpoe c’è un 40% di Burschenschafter (corporazioni studentesche combattenti). Il governo nero-azzurro II sarà più a destra del modello 2000?
La Fpoe si può definire un partito fascista. Molti criteri ne corrispondono. Il nazionalismo, l’orientamento antieuropeo, il suprematismo tedesco-nazionale, l’invocazione della purezza Voelkisch (etnica) solo per elencarne alcuni. Sì, il nuovo governo nero-azzurro sarà decisamente più a destra di quello del 2000, anche perché da allora la Fpo ha potuto consolidarsi e prepararsi meglio.
Tornando a Kurz. Lo descrive anche come «puer robustus», il guastafeste disturbatore dell’ordine sociale. Togliatti usò il termine per il Pci, riferendosi all’accezione di Rosseau, Lei si riferisce anche a Trump. Può spiegare meglio il concetto, quali le somiglianze tra Kurz e Trump?
Io cito il filosofo tedesco Dieter Thoma che indica Trump come variante egocentrica del disturbatore dell’ordine. Kurz corrisponde invece alla variante di Rosseau, del puer robustus nomocentrico, quello che rispetta la legge. Le due varianti hanno in comune il tratto autoritario e di rottura, Kurz e Trump promettono entrambi la resa dei conti con un sistema logoro. Suona attraente, se il concetto viene applicato alla stanca palude della politica istituzionale; in Austria però l’obiettivo da colpire è lo stato sociale che ha portato al paese, pur con segni di stanchezza, delle cose infinitamente più buone che cattive.
Solo 10 mesi fa Alexander van der Bellen ha vinto le presidenziali in Austria, grazie a un’ampia coalizione di centro sinistra. Dov’è andata a finire? L’idea di un presidente Hofer spaventava, quella di un ministro degli interni Strache sembra di no.
Van der Bellen ha saputo mobilitare un movimento di resistenza. La maggioranza non vuole politici della Fpoe in posizioni di responsabilità. Kurz ha saputo passare sopra questa cosa affascinando il suo elettorato conservatore con la promessa di conquistare la maggioranza. Che insieme a lui sarebbe arrivata anche la coalizione nero-azzurra è stato accettato o rimosso. Tra l’altro, lo sforzo di far vincere Van der Bellen con le tre tornate elettorali è costato ai Verdi la loro presenza in parlamento, una cosa per me vergognosa. Ironia della sorte, non bella, a Van der Bellen toccherà nominare una squadra di politici della Fpoe.
L’Austria è stata più volte in procinto di alzare muri o mandare panzer al Brennero. Crede che ora si farà sul serio?
La posizione della Fpoe verso il Sudtirolo è notoriamente problematica. Si vedrà fino a che punto Austria si allontanerà dall’occidente europeo, o se erano solo chiacchiere. Che la Fpoe faccia sul serio non è da escludere, ma se Kurz la segue è tutto da capire. In fondo i suoi finanziatori sono l’industria e le banche i loro interessi sono in occidente. L’occidente però attraversa una grave crisi di cui la vittoria elettorale di Kurz è, non per ultimo, il sintomo.
Kurz e Strache nei duelli televisivi litigavano su chi era più vicino a Orbán. Come si può fermare l’orbanizzazione dell’Austria?
Credo che la società civile austriaca sia molto più forte di quella ungherese. Orbanizzazione significherebbe un parziale cambiamento della costituzione, l’abolizione della libertà di stampa eccetera. Un cambiamento del sistema austriaco avverrà in forma più o meno blanda, per esempio come attacco alla concertazione sociale o come scalata al potere della radio-televisione pubblica. Già queste misure dovranno fare i conti con una certa resistenza, qualunque cosa vada oltre sveglierà persino la sonnolenta società austriaca. Almeno lo spero.

Repubblica 1.11.17
Jhumpa Lahiri
La scrittrice Usa di origini indiane vive fra Roma e Princeton: “Sono sconvolta dal razzismo. La xenofobia dei giovani mi fa paura”
“Stranieri picchiati e insulti agli ebrei è il nuovo fascismo”
di Francesca Caferri


«SONO sconvolta. Senza parole. Triste». L’italiano perfetto di Jhumpa Lahiri cerca mille sfumature per raccontare lo sconcerto che si legge sul suo volto. La scrittrice americana Premio Pulitzer ha da tempo scelto Roma come sua seconda casa: anche quando si trova a Princeton, dove insegna, segue con attenzione quello che accade in Italia.
L’identità, all’appartenenza a due mondi, la vita di chi arriva da un Paese per vivere in un altro sono i temi dei libri che l’hanno resa una delle scrittrici più amate della sua generazione. Anche per questo l’ennesimo episodio di razzismo e di violenza avvenuto a Roma l’ha toccata tanto: e anche perché è avvenuto in un luogo molto speciale per lei. Per questo, mentre il sole tramonta sui colli della città, sente il bisogno profondo di dire la sua su quello che, da lontano e da vicino, ha visto accadere in Italia in queste settimane.
Signora Lahiri, perché l’aggressione avvenuta qualche giorno fa a Roma la tocca così tanto?
«Ci sono molti elementi. Ho scoperto Roma in questa stagione, nel 2003, quando affittai un appartamento in via Arenula, poco lontano dal luogo dell’aggressione. Mi innamorai della città in quel luogo e dissi subito a mio marito che volevo vivere qui: almeno per un po’. Ora lo faccio: vado in America e torno qui, nella mia casa. Ogni volta sono colpita dall’affetto di questa città: non solo per me, ma in generale, da quello che si respira nelle vostre piazze, così diverso da quello che c’è in America. Ma due giorni fa ero a via Arenula e una giornalista che non sapeva chi fossi si è avvicinata per chiedermi cosa pensavo di quello che era accaduto. Non sapevo niente, ero appena arrivata: ma capire mi ha sconvolta. Sto facendo studiare ai miei studenti a Princeton Primo Levi. E improvvisamente le sue parole mi sono tornate in mente».
In che modo?
«L’atmosfera che descrive ne “Il sistema periodico”, il razzismo crescente, l’intolleranza. Il luogo: un’aggressione razzista a pochi metri dai palazzi dove tante famiglie ebree vennero deportate. Ho capito: che questo è l’inizio di qualcosa. Soltanto l’inizio spero, di qualcosa che dobbiamo arginare. Per questo sento il bisogno di parlare».
L’inizio di cosa?
«Di un nuovo fascismo. Siamo di fronte a qualcosa di inammissibile: picchiare qualcuno che sta tornando a casa dopo aver lavorato chissà quante ore, una persona che vive in modo regolare in questa città, ma ha la colpa di essere straniero. Questo vuol dire una cosa sola. Io sono cresciuta negli Stati Uniti: da piccola avevo paura di quello che poteva accadere a chi aveva la pelle scura come me, come la mia famiglia. Fino a due giorni fa a Roma sarei tornata a piedi da una cena: forse non alle tre del mattino, ma di certo a mezzanotte. Ora sono qui e ho paura. La xenofobia fuori controllo di certi giovani mi fa paura. Il richiamo a personaggi che hanno precipitato questo Paese nell’orrore mi fa paura. Anna Frank negli stadi mi fa paura. Vorrei sentire parole più dure dal mondo della politica, vorrei condanne più chiare».
Parlando di politica: so che Lei ha seguito da vicino il dibattito sullo Ius soli. L’appartenere a due mondi, l’identità, lo smarrimento di chi si sente straniero sono i temi portanti dei suoi libri… «Ha ragione. Quando la legge è stata bloccata è stato un momento davvero triste per me. Vorrei che l’Italia capisse che un’Italia mista, aperta, è l’unica soluzione, l’unica speranza per questo Paese. Sarebbe la sua forza. È tutto collegato: la violenza, lo Ius soli, dare sempre la colpa allo straniero. Dove vogliamo arrivare? Togliere gli stranieri dal quadro per purificare l’Italia: è questa la soluzione? Siamo di fronte a una costellazione di eventi. È come se qualcuno dicesse: facciamo un altro giro? Ma davvero quello che è accaduto con il fascismo non è bastato? ».
E quindi?
«E quindi bisogna intervenire in modo netto. La legge sullo Ius soli è fondamentale, è disumano non farla passare. L’incapacità della politica di agire, reagire e gestire di fronte a quello che è accaduto a Roma lascia senza parole. Per questo ho voluto parlare: dobbiamo dire qualcosa se vogliamo fermare tutto questo».

Il Fatto 1.11.17
Lo scandalo sessuale investe il governo May
Nella lista a luci rosse coinvolti 40 politici Tories: tra loro il ministro della Difesa e il segretario di Stato
di Caterina Soffici

All’inizio lo hanno chiamato «l’incidente della mano sul ginocchio». Un understatement tipicamente inglese. Ma nel giro di un paio di giorni il caso delle molestie a Westminster sta diventando un vero scandalo per il governo traballante di Theresa May. Ieri si è scoperto che la mano era quella del ministro della Difesa Michael Fallon e che nella lista dei politici molestatori c’è anche il numero due del governo, Damien Green, il cui nome è associato al sito di scambisti Ashley Madison.
La lista gira da giorni nei corridoi di Westminster e nelle redazioni dei giornali. Prima erano 36 nomi, poi sono diventati 40. Sono politici di spicco del partito conservatore che sarebbero coinvolti in scandali sessuali, casi di molestie e più generici «comportamenti inappropriati». Come era immaginabile, i nomi inizialmente coperti da una pecetta nera, piano piano stanno venendo alla luce. E curiosamente li stanno pubblicando i giornali vicini al governo, come il Daily Telegraph e i due tabloid scandalistici di destra, il Sun e il Daily Mail. Il primo siluro al governo May è partito ieri quando il Sun ha fatto il nome di Fallon: durante una cena a una conferenza del partito conservatore ha messo le mani sulle gambe della giornalista Julia Hartley-Brewer, allora cronista del tabloid «Daily Express». L’episodio è avvenuto 15 anni fa. Secondo il portavoce del ministro, Fallon si era già scusato a suo tempo. Fatto confermato dalla giornalista, che ha aggiunto di avergli intimato di smetterla, «altrimenti gli tiravo un pugno in faccia. Al che lui aveva ritirato la mano e la faccenda si era chiusa lì». La giornalista ha detto di non essersi sentita vittima di un assalto sessuale. E ha pure twittato una foto delle ginocchia: «Sono ancora intatte».
Una tempesta in un bicchiere d’acqua? Una vendetta politica dentro il partito conservatore? O un nuovo scandalo che rischia di travolgere il governo e di portare Westminster nella polvere come successe qualche anno fa con le note spese gonfiate o falsificate dai parlamentari?
Lo vedremo nei prossimi giorni, ma è chiaro che l’onda lunga dell’affare Weinstein e il riflettore acceso sulle molestie a Hollywood non fa che gettare benzina sul fuoco. E infatti ieri in serata, è arrivata la risposta nel campo laburista. Bex Bailey, una 25enne attivista del partito di Jeremy Corbyn, ha rivelato alla Bbc di essere stata stuprata durante un evento del partito e che un funzionario le aveva consigliato di non riferire l’episodio, perché ne sarebbe uscita «danneggiata». Il fatto sarebbe avvenuto nel 2011. Ma la ragazza si è decisa a parlare solo ora, visto il clamore delle altre accuse di molestie, proprio perché – dice - c’è bisogno di procedure chiare e di una commissione d’inchiesta indipendente e bipartisan.
Nei giorni scorsi erano già usciti i casi di Mark Garnier, sottosegretario al Commercio Internazionale, che avrebbe chiesto a un’impiegata del suo staff di comprare dei sex toys. E dell’ex ministro Stephen Crabb, che avrebbe chattato pesantemente con una stagista di 19 anni che voleva lavorare per lui.
Secondo il Daily Mail nella lista ci sono 6 membri del governo, 12 sottosegretari, 10 ex ministri. Non è chiara la natura delle molestie, perché le accuse fatte in forma anonima sono ancora tutte da verificare. Molte sono accuse «leggere», se così le vogliamo definire. Sembrano cioè più casi di palpatine, corteggiamenti pesanti e stalking. Altre invece sono molto gravi e se vere potrebbero portare alla fine di carriere politiche. Una donna avrebbe abortito in seguito a un rapporto con un parlamentare. Nella lista appaiono anche 13 nomi solo perché hanno delle relazioni all’interno del Parlamento. Non tutte pericolose, pare. Visto che nell’elenco c’è anche Amber Rudd, ministra dell’Interno, il cui nome figura solo perché dopo il divorzio ha una relazione con il deputato Kwasi Kwarteng, inizialmente clandestina.

La Stampa 1,11.17
Il fratello di Spacey: “Infanzia terribile, nostro padre era un nazista violento”
Nuove rivelazioni sul passato del premio Oscar accusato di molestie Netflix annuncia la sospensione della sesta serie di House of Cards
di Simona Siri

Nella Hollywood post Weinstein mantenere segreti è diventato un lusso che oggi in pochi possono permettersi, in futuro forse più nessuno. Bene o male non si sa, ma è evidente che a ogni scandalo oggi, diversamente da ieri, fanno seguito conseguenze che nulla hanno a che fare con le ipotetiche condanne penali. Weinstein è stato cacciato dall’Academy. Netflix ha annunciato ieri la sospensione della produzione della sesta stagione di House of Cards, che era in corso a Baltimora. In un comunicato ufficiale la compagnia si è detta «molto turbata» e ha affermato che sta valutando la situazione, prima di decidere se portare avanti quella che doveva essere l’ultima stagione della fortunata serie.
L’Old Vic il teatro londinese del quale Kevin Spacey è stato direttore artistico dal 2004 al 2015 si è detto costernato e ha istituito un indirizzo di mail confidenziale al quale i dipendenti possono scrivere per denunciare abusi sessuali e bullismo. The International Tv Academy in un comunicato ha fatto sapere che il previsto Emmy Founders Award che Spacey avrebbe dovuto ricevere il mese prossimo è stato cancellato. Al giorno due dello scandalo che ha travolto l’attore, accusato di avance sessuali nei confronti di un quattordicenne, più di 30 anni fa, ecco nuove rivelazioni. Il fratello maggiore Randall Fowler, in un’intervista al Sun, ribadisce le accuse al padre, descritto come un supermatista, un nazi collezionista di memorabilia di Hitler, negazionista dell’Olocausto. Soprattutto, uno che avrebbe regolarmente abusato del figlio maggiore e picchiato la sorella minore, Julie, andata via di casa a 18 anni.
In un’intervista pubblicata da Esquire nel 2002, Kevin Spacey lo descriveva invece così: «Un uomo della classe media, normale, nato a Casper, in Wyoming, molto amante dell’Inghilterra, con una passione per l’aristocrazia europea: gli piacevano le cose sofisticate come i libri rilegati in pelle, gli orologi preziosi, i gemelli».
Le accuse di Randall Fowler, autista di limousine e sosia di Rod Stewart, non sono del tutto nuove: aveva raccontato della terribile infanzia sua e del fratello Kevin già nel 2004. «In casa nostra c’erano le tenebre, era un assoluto orrore. La reazione di Kevin è stata quella di rifugiarsi in un mondo suo, diventando subdolo e privo di emozioni. Il cinema è stato la sua via di fuga». Dichiarazioni che all’epoca non erano state prese troppo seriamente, oggi assumono una luce diversa. In un’intervista pubblicata dal «Telegraph» lo stesso anno a domanda diretta sulle parole del fratello nei confronti del padre, Spacey rispondeva: «No comment». E dopo insistenze da parte dell’intervistatore: «Cosa dovrei fare? Raccontare a tutti i miei segreti più bui solo perché la gente vuole saperli?». «Le accuse sono serie: Kevin nega di essere mai stato abusato dal padre, ma comprende il dolore del fratello», aveva detto sempre nel 2004 il suo addetto stampa. Altri tempi. Nella nuova Hollywood per avere successo non basterà più il talento, occorrerà anche non nascondersi e comportarsi moralmente bene.

Repubblica 1.11.17
Ma non è tutto uguale il film delle molestie
di Natalia Aspesi

ANTHONY Rapp non è la sola vittima del caso Kevin Spacey, ai cui tentativi di molestie, fanciullo coraggioso, riuscì a sfuggire: diciamo che, dopo 31 anni, anche lo stesso Spacey potrebbe essere cambiato, ravveduto: anche il carcere lo consente. Ma gli tolgono l’Emmy meritato dal suo lavoro e sospendono l’ultima serie di
House of Cards per quel tristo episodio o perché si è dichiarato omosessuale come tutti sapevano (e ha disinvoltamente abbracciato un brutto giovanotto in una puntata della serie, senza scandalo)? E non siamo vittime pure noi? Noi che saremo privati di una ennesima stagione di House of cards? Chi ci ricompenserà?
Pare che in realtà la decisione sia stata presa prima del brutto casino perché effettivamente la serie era ormai in affanno: ma certo i seguaci di Trump, campione etero di sconsiderata aggressività verso le donne, saranno contenti di legare la fine della fiction alle dichiarazioni del molestato, per gettare fango sul solito divo purtroppo democratico. Che ai tempi del disastro aveva 26 anni e non era nessuno, mentre il quattordicenne Rapp aveva già recitato in teatro e sarebbe poi entrato nel mondo del cinema ancora minorenne. Oggi a 46 anni, è un attore di buon livello: da poco più di un mese è il tenente Paul Stamets nella sesta stagione televisiva di Star Trek: Discovery, e chissà cosa gli ha fatto ricordare quel brutto antico episodio. Più coraggioso, o meno riservato di Spacey si è dichiarato da tempo «più queer che gay».
Comincia però ad esserci qualcosa di inquietante in questa improvvisa valanga femminile e maschile di denunce di molestie, abusi, assalti, violenze, stupri: se ne parla come di un unico orrore, mentre non è così: condannati tutti dalla legge, come è giusto, le molestie sono offesa, mancanza di rispetto, prevaricazione, disprezzo, da cui mi pare ci si possa sottrarre: lo stupro è un crimine che viola non solo il corpo ma il cuore e la personalità, che può distruggere una vita, che è imposto dalla forza fisica e non da uno scambio sia pure subito di dare e avere. Una mano sul sedere è un’odiosa villanata, ai miei tempi, noi sottomesse, si rideva del citrullo. E per esempio delle centinaia di confessioni e denunce contro uno dei milioni di sporcaccioni di più o meno potere, il solito Weinstein (ma quando aveva tempo per organizzare tanti bei film?) si è fatta gran confusione: chi ha subito violenza contro la propria volontà, chi ha accettato tanto non si sa mai anche solo il tentativo di una mano sotto le gonne?
Questa confusione, questo romanzaccio a puntate ambientato anche a Westminster, alla Bbc, persino nel mondo della moda (il fotografo Terry Richardson è accusato di mostrare troppo spesso e ovunque le sue pudenda), protagonisti celebrità di persecutori e di perseguitate, mette in ombra le violenze, gli stupri perpetrati da uomini qualsiasi su donne o ragazzi qualsiasi, da sconosciuti, amici, mariti, superiori, ecclesiastici; a punizione di una libertà vissuta come naturale dalle donne ma ancora difficile da accettare per alcuni uomini. E nel caso dei bambini? Non so che dire.
È anche probabile che ci siano maschi che dalla presenza femminile diffusa si sentano minacciati, non solo nella carriera, ma proprio nella loro virilità. E per esempio le donne americane rivendicano il loro diritto a vestirsi come vogliono nel luogo di lavoro: e viene in mente la deplorevole cancellazione delle donne negli uffici, quando decenni fa solo loro, naturalmente, dovevano indossare l’asessuato grembiule nero. Basta vedere su Netflix una serie come Suits che si svolge in un immenso studio di avvocati, dove le donne avvocate, assistenti, segretarie, non solo sono bellissime, ma abbigliate con abiti molto aderenti, scollature, tacchi altissimi da cui si innalzano gambe meravigliose, lunghi capelli sempre in movimento e un sedere che ondeggia lentamente: è una fiction e i tanti affascinanti colleghi troppo presi dal lavoro (circa 14 ore al giorno) neanche se ne accorgono. Ma nella realtà forse da queste meraviglie, anche cattive e vincenti, che per legge non solo non si possono sfiorare ma neppure dir loro che carina, devono sentirsi sfidati, immiseriti, puniti.


La Stampa 1.11.17
Ismail Kadaré
“La rivoluzione ha perso per eccesso di crudeltà”
“Già nel concetto marxiano di lotta di classe era insita la mancanza di misericordia. Alla fine l’uomo si ribella”
intervista di Francesca Paci

Quando negli Anni 60 il dittatore Hoxha distanziava l’Urss in dissenso con la destalinizzazione, Ismail Kadaré aveva già dirottato l’ardore dei suoi vent’anni sulla letteratura e si accingeva a pubblicare Il generale dell’armata morta, il romanzo della vita. «Il comunismo ha ucciso la speranza ma non l’umanità e l’umanità produrrà una speranza più profonda» scandisce ordinando Greco di Tufo e un’insalata senza avocado perché la moglie Helen non ne mangia. Nonostante il sole appena velato su Tirana, il grande poeta e scrittore albanese più volte vicino al Nobel arriva con l’ombrello al ristorante Juvenilja Castello, il suo preferito.
Che tipo di eredità ci ha lasciato la Rivoluzione d’ottobre?
«L’aspetto più problematico è la visione dell’uomo. Il fondamento della civiltà occidentale è il verdetto degli Dei che condannano i greci a pagare amaramente per il massacro dei troiani e la mancanza di misericordia verso gli sconfitti. L’antichità greca ruota tutta sulla messa al bando di questa ferocia viscerale. Marx fonda invece la sua dottrina economica e sociale sul principio opposto, l’idea che non ci debba essere pietà per i vinti. La teoria della lotta di classe è il nodo, il comunismo è stato abbattuto perché l’umanità non poteva accettare tutta quella crudeltà».
Dall’Albania isolata di Hoxha coglieva le crepe che si aprivano nella cortina di ferro?
«Il comunismo si è sgretolato gradualmente, Stalin, Budapest, Praga, il mio Paese. Ci ho creduto anche io finché, crescendo, ne ho constatato la ferocia spirituale. C’è un episodio che mi torna in mente. Era il 1948 e avevo 12 anni. Enver Hoxha veniva per la prima volta nella mia città, Argirocastro, e gli studenti furono mandati in strada per dargli il benvenuto. A me e agli amici con cui parlavo liberamente non piacque, aveva la pancia grossa e non somigliava a Macbeth e Amleto, gli eroi che immaginavamo magri. Non ci piacque neppure che rideva e diceva sempre “evviva il popolo” mentre il popolo ripeteva “evviva Hoxha”. Non sapevamo nulla del sistema ma sentivamo che c’era del falso in tutta quella fanfara e quando lo raccontai a casa mio padre disse “finalmente avete capito”. Allora seppi che alla maggioranza degli adulti intorno a me Hoxha non piaceva, aveva una casa semplice rispetto alle altre e sembrava odiare le famiglie benestanti della città. Un architetto mi raccontò poi che nel ’60 era stato incaricato di rifare l’abitazione di Hoxha a Argirocastro e aveva avuto l’ordine di progettarla fastosa».
In Europa ci si chiede se non sia stato prematuro l’allargamento a quei Paesi dell’Est che, forse non ancora pronti alla democrazia liberale, esprimono oggi governi autoritari. L’Albania è pronta a lasciarsi alle spalle il comunismo ed entrare nella Ue?
«L’Albania deve fare grandi sforzi per andare verso la democrazia liberale. La tendenza c’è, il popolo vuole esplicitamente l’Europa, il campo occidentale, tutto quello che fino a ieri era considerato reazionario. Gli albanesi sono stufi della retorica contro la Nato, l’imperialismo, il capitalismo. Sul momento il nostro cammino verso l’Europa, che è finora quanto di meglio l’umanità potesse fare, può essere frenato dal nostro retaggio culturale. Ma andiamo avanti».
La chiusura ermetica di Hoxha, ossessionato dall’invasione occidentale, ha finito per proteggere l’Albania dalle derive nostalgiche degli altri Paesi ex sovietici?
«Per un verso il divorzio dell’Albania dalla famiglia comunista è stato un atto positivo, l’ha allontanata dalla parte perdente. Ma il fatto che ciò avvenisse per una ragione personale e non di principio ha determinato la sostanza e l’epilogo del dramma: Hoxha voleva restare al potere con l’aiuto dell’Europa e l’Europa ha finto un po’ di assecondarlo. A pagare è stato il popolo».
Il risveglio religioso, segnatamente islamico, a cui oltre che nei Balcani si assiste in Albania, è una reazione all’ateismo di Stato imposto dal regime?
«Il problema esiste ed è una delle conseguenze della caduta della grande dittatura comunista. Ma non penso che la turbolenza dei Balcani sia una cosa davvero pericolosa. In Albania poi, il comunismo non ha mai davvero attecchito, è stato recepito in modo freddo perché la morale tradizionale era diversa, la psiche nazionale non l’ha accettato, non era il nostro modo di essere: la famiglia tradizionale qui è sempre stata più importante del collettivismo».
Nel romanzo «Un invito a cena di troppo» racconta l’eccezione albanese nei confronti degli ebrei, risparmiati dalle deportazioni. L’antisemitismo è rimasto lontano dall’Albania anche dopo il 1945?
«Andò così durante la II guerra mondiale e la propaganda comunista non contrastò mai questa narrativa perché compensava il resto: l’Albania aveva una pessima fama nel mondo ma almeno non eravamo antisemiti. Ed è vero. Anche un reazionario come re Zog non era antisemita. E neppure Hoxha, che aveva il cuore di pietra. Stare con gli ebrei per noi è una cosa popolare».

La Stampa 1.11.17
L’università di Siena celebra il centenario di Franco Fortini

Un convegno internazionale, due mostre fotografiche e documentarie, due spettacoli: così l’Università di Siena, insieme con le istituzioni cittadine, celebra il poeta, critico e saggista Franco Fortini (1917-1994) inel centenario della nascita. Un ricco programma di eventi mette in luce i diversi interessi e la produzione artistica, anche meno conosciuta, del poliedrico scrittore, poeta, critico, traduttore, docente universitario, viaggiatore. Il Centro di ricerca Franco Fortini dell’Università di Siena, che custodisce l’archivio privato comprendente lettere, manoscritti, documenti inediti, disegni e pitture, promuove un convegno internazionale sul tema della traduzione, da domani a sabato 4 novembre, e una mostra fotografica e documentaria (da venerdì 3 novembre) sul viaggio di una delle prime delegazioni nella Repubblica popolare cinese, a cui Fortini (nella foto) prese parte nel 1955.

Corriere 1.11.17
Vichy non fu solo infamia
Il filosofo israeliano Avishai Margalit pone alcune questioni molto spinose in un saggio edito da Einaudi. Il collaborazionismo perseguitò gli ebrei e tradì l’eredità dell’illuminismo ma evitò alla Francia la sorte terribile della Polonia
di Paolo Mieli

Il regime di Pétain ebbe vasti consensi
e alleviò gli orrori dell’occupazione
F u tradimento quello di Pétain che collaborò con la Germania nazista, dopo la sconfitta dell’esercito francese ad opera delle truppe hitleriane (maggio del 1940)? E chi può essersi considerato tradito, se la stragrande maggioranza dei francesi — nonché il loro Parlamento eletto nella seconda metà degli anni Trenta in condizioni democratiche — si schierarono dalla parte del maresciallo? È l’interessante interrogativo posto da Avishai Margalit nella parte centrale del libro Sul tradimento, che Einaudi sta per dare alle stampe con l’eccellente traduzione di Barbara Del Mercato e Dario Ferrari. Margalit mette a paragone il destino che toccò in quello stesso frangente storico alla Polonia (brutalmente sottomessa e colonizzata dai tedeschi) e quello della Francia a cui fu, appunto, concessa l’«opportunità di collaborare» con gli invasori. Opportunità fatta propria da gran parte dei francesi, i quali considerarono un fatto positivo che i tedeschi avessero lasciato al regime di Vichy l’amministrazione di ben quattro quinti del territorio nazionale. Ma a cui si mise di traverso il generale de Gaulle, con l’effetto di essere considerato per lungo tempo egli stesso un «traditore»: traditore della volontà della maggioranza dei suoi connazionali. Eppure il collaborazionismo, scrive Margalit, è per definizione «l’associazione con il nemico», e perciò «la forma più odiosa di collaborazionismo è il tradimento da parte di individui o gruppi che condividono l’ideologia dei vincitori». Questo collaborazionismo «è più ripugnante di quello che segue un tornaconto personale, dato che il tradimento qui non consiste solo nell’aiutare il nemico, ma ne sostiene anche la superiorità spirituale, anziché limitarsi a constatarne la superiorità della forza militare». Inoltre, «l’identificazione ideologica con il nemico offre una giustificazione al fatto che gli occupanti tengano ben stretti gli artigli sulle proprie prede».
I tedeschi, fa notare Margalit, tra il 1940 e il 1944 governarono su oltre 38 milioni di francesi senza dover ricorrere ad altri che ad una «minuscola parte dei propri amministratori e dei propri poliziotti». L’interesse degli occupanti a ridurre al minimo il dispendio degli uomini poté essere realizzato solo grazie ad una «massiccia» collaborazione da parte della popolazione sottomessa. Tale occupazione «morbida» ebbe un costo, per l’occupante tedesco: quello di lasciare una certa autonomia all’occupato. Il guadagno fu però che in questo modo la Germania nazista riuscì ad «acquistare» (per così dire) il consenso degli sconfitti. E infatti i francesi scelsero di «farsi comprare»: «Non tutti i francesi e non per tutta la durata dell’occupazione ma la maggior parte dei francesi e per la maggior parte dell’occupazione, accettarono di collaborare». La maggioranza dei francesi si mostrò — forse anche per giustificarsi agli occhi di se stessa — convinta che il collaborazionismo fosse «il solo modo per limitare i danni della sconfitta e per evitare un governo gestito direttamente dai nazisti». All’epoca de Gaulle, sottolinea Margalit, risultava per molti suoi connazionali «irrilevante se non peggio, irritante». L’autore tuttavia ha parole poco diplomatiche anche nei confronti di coloro che si opposero a Pétain: il movimento della resistenza francese, la resistenza interna, secondo lui, «sembrava talvolta più un genere letterario che un’attività ribelle effettiva». Se si misura la resistenza francese in base alle divisioni che i nazisti impiegarono a combatterla, essa «non sembra essere stata molto significativa». Le forze della Francia Libera di de Gaulle, scrive Margalit, erano «abbastanza impressionanti per quanto riguardava le cifre, ma non per l’equipaggiamento»; nel momento di massimo splendore, verso la fine del conflitto, comprendevano 300 mila soldati. Naturalmente, prosegue il filosofo israeliano, «dopo la guerra convenne a tutti alimentare il mito secondo cui la Francia era spaccata tra una maggioranza di resistenti e una minoranza di collaborazionisti». Fandonie. Questo mito fu peraltro ridotto in frantumi già nel 1969 dal documentario di Marcel Ophuls Le chagrin et la pitié, che mostrava in modo assai persuasivo l’altissimo grado di consenso dei francesi all’occupazione nazista e al regime di Vichy.
Ma se effettivamente Pétain era sostenuto da gran parte dei suoi compatrioti, in che senso, si domanda Margalit, li avrebbe traditi? E, data la sconfitta subita dalla Francia, quali furono le colpe del regime che nacque da quel rovescio? Nel caso di Vichy e di Pétain, secondo l’autore di Sul tradimento , «depone contro di loro l’atto inconfutabilmente malvagio dei rastrellamenti e delle deportazioni di ebrei francesi nei campi di sterminio». Spogliare gli ebrei francesi della cittadinanza significava «tradire la Francia come nazione votata alla sua missione universale». È qui che, secondo Margalit, si annida il «tradimento». Perché? In seguito alla Rivoluzione francese, Parigi si vedeva unanimemente votata alla missione di realizzare la volontà universale: la Francia assumeva «la prospettiva dell’umanità in senso lato», in opposizione «a qualsiasi definizione etnica del popolo francese». Il regime di Vichy era volto a «distruggere questa eredità della Rivoluzione francese». Il tradimento collaborazionista ai danni degli ebrei francesi dovrebbe essere dunque considerato come il tradimento dell’eredità della Rivoluzione, secondo cui la solidarietà è fondata unicamente sulla cittadinanza conferita universalmente.
A questo punto della sua ragionata ricostruzione, Margalit piazza un colpo ad effetto che impreziosisce la sua dissertazione e propone quello che lui stesso definisce «un argomento a favore del collaborazionismo». Se il tradimento a danno degli ebrei costituì la cartina di tornasole del collaborazionismo con la Germania, scrive, esso presenta anche qualcosa «che gli apologeti del collaborazionismo di Pétain possono utilizzare con profitto a proprio vantaggio». Si parte da Drancy, il campo di transito da cui tra il 1942 e il 1944 gli ebrei francesi vennero deportati nei campi di sterminio, «ciò che costituisce innegabilmente una pagina terribile e tragica». È vero: «Tra i deportati ci furono anche seimila bambini». È altrettanto vero: i collaborazionisti del regime di Vichy ebbero «un ruolo vergognoso in questa vicenda». Quel che si è testé detto (e che è ampiamente documentato) è inoppugnabile. Ma «bisognerebbe mettere a confronto le cifre» dalle quali balza agli occhi che «il destino degli ebrei nei Paesi collaborazionisti fu molto migliore di quello che veniva riservato loro nei Paesi che non collaborarono con i tedeschi». Si scopre che «nei luoghi in cui la popolazione sceglieva il collaborazionismo anziché la “polonizzazione”, sopravvisse una percentuale più alta di ebrei». In Francia, dei 350 mila ebrei presenti prima della guerra, «solo» 77 mila furono assassinati, mentre nell’eroica Jugoslavia ne furono trucidati 60 mila su 78 mila. Nel Belgio collaborazionista il rapporto fu di 29 mila assassinati su 66 mila israeliti di prima della guerra, mentre nella vicina Olanda, governata direttamente dai tedeschi, ne vennero uccisi 100 mila su 140 mila. In sostanza «per gli ebrei fu meglio vivere sotto un regime collaborazionista». Certamente nessun Paese scelse di collaborare con i nazisti «per il bene degli ebrei». Ma «sembra che all’atto pratico per gli ebrei il collaborazionismo sia stata una scelta migliore della polonizzazione». Il collaborazionista nega che il suo sia «un gioco rigorosamente competitivo in cui una parte guadagna esattamente ciò che l’altra perde». Il collaborazionismo è odioso e umiliante, ma «entrambe le parti, nonostante l’enorme asimmetria, possono guadagnarci». In che senso? L’occupazione, scrive il filosofo, comporta una coercizione, ma coercizione non significa che l’accordo offerto alla parte sconfitta, ovvero la collaborazione, non sia migliore dell’assenza di ogni accordo: il collaborazionismo, questa specifica forma di tradimento, secondo Margalit, «è ciò che di meglio si può fare in alcune circostanze nefaste». Coloro che detengono il potere e scelgono di accettare questo genere di accordo «non dovrebbero essere considerati dei traditori ma dei patrioti che hanno il coraggio di scegliere il male minore in una situazione di estrema difficoltà». Nel corso della Seconda guerra mondiale, per gli ebrei — pur in un dramma di proporzioni immani — fu meglio trovarsi a vivere in Paesi «traditori» e collaborazionisti come Francia e Belgio che in quelli che «non tradirono» e «non collaborarono» come la Polonia o la Jugoslavia.
N onostante ciò, secondo Margalit, fu giusto considerare Pétain un traditore. È la «storia condivisa del popolo francese», scrive, «che Pétain ha corrotto e tradito». Il maresciallo «ha tradito con il suo tentativo di creare una Francia sradicata dalla propria memoria e dall’eredità della Rivoluzione francese». Avrebbe potuto sostenere «di aver radicato più di chiunque altro le proprie azioni in un passato condiviso, un passato che la Rivoluzione aveva distorto creando una Francia omogenea e artificiosa… In questo senso, chi poteva accusare proprio lui, tra tutti, di aver tradito il passato condiviso?». Ogni passato, tiene a specificare Margalit, è composito, è una miscela di elementi nobili e ripugnanti. Essere leali a un «passato condiviso» significa «qualcosa di più che accettare tanto i lati positivi quanto quelli negativi». Significa «impegnarsi a mantenere in vita ciò che si ritiene essere la parte migliore del proprio passato». Ed è a questo impegno che Pétain, l’eroe vittorioso della Prima guerra mondiale, è venuto meno. Se interpretiamo «il tradimento come tradimento della volontà generale della popolazione occupata», possiamo vedere nel collaborazionismo anche «il tradimento delle generazioni passate». L’idea è che i rapporti forti di una comunità in un Paese occupato vadano al di là della popolazione presente in un determinato momento storico e dovrebbero anzi includere «la comunità del passato». Un consenso contingente nella comunità che vive sotto l’occupazione potrebbe «tradire la comunità del passato».
A fine conflitto Pétain, il 15 agosto del 1945, fu condannato a morte per alto tradimento (salvo poi vedere commutata la pena in ergastolo), mentre de Gaulle fu acclamato come eroe nazionale. Ma anche de Gaulle, per Margalit, merita qualche considerazione. Se portate d’urgenza in ospedale un vostro amico privo di sensi, scrive, potete decidere a nome suo, pur in assenza di una delega formale, su alcune questioni che riguardano la sua salute. Si potrebbe vedere in de Gaulle un «amico» di questo genere, il rappresentante informale dei francesi, «in uno stato di necessità di una Francia momentaneamente priva di sensi», che in quel lasso di tempo si sarebbe trovato «nella posizione migliore per esprimere il bene comune del proprio Paese».
Ma, avverte l’autore, «l’idea che in uno stato di necessità un rappresentante possa incarnare il bene comune di una collettività è un’idea rischiosa: sembra un invito rivolto a individui affetti da manie di grandezza o dal cosiddetto “complesso del Messia” ad agire in nome del popolo con la pretesa di insegnare alle persone ciò che è meglio per loro». E non è solo un problema di porte spalancate ai megalomani. Si può anche legittimamente avere paura che la «volontà generale» spiani la strada alla «democrazia totalitaria». Però, una volta prese le dovute precauzioni, conclude Margalit, «l’idea di una volontà generale in una forma o nell’altra, è indispensabile per affrontare la questione di chi ha diritto di parlare a nome di un popolo che appartiene ad un Paese militarmente occupato».
Dopodiché il giudizio finale deve tener conto di alcune importanti circostanze: «De Gaulle, che apparteneva al medesimo ambiente conservatore di Pétain, aveva il corretto senso storico di ciò che valeva la pena conservare della storia francese e, cosa ancor più importante, di ciò che avrebbe comportato il suo tradimento». Invece Pétain, oltre a un giudizio storico sbagliato, «elaborò un giudizio morale erroneo, sostenendo un regime fondato sulla distruzione dell’idea stessa di umanità». In un certo senso, Pétain «tradì anche il popolo con il quale sentiva di avere un rapporto estremamente forte, corrompendo i valori del passato condiviso». O anche solo accettando che fossero corrotti.
In merito al collaborazionismo, Margalit non si sottrae ad un giudizio sul «caso orribile» degli Judenräte , i consigli ebraici che il regime nazista istituì in molti ghetti, costretti a fornire manodopera forzata, a tenere registri di coloro che venivano mandati nei campi di sterminio e a collaborare alla deportazione. Non c’è dubbio, scrive il filosofo israeliano, che nell’Europa sottoposta all’occupazione nazista gli ebrei subissero, sia collettivamente che individualmente, una «brutale costrizione». Ciò non ha evitato che dopo la guerra il termine Judenrat tra gli ebrei divenisse sinonimo di collaborazionismo e di tradimento, ed essere stato un membro di tali consigli equivaleva — nel loro giudizio — ad esser stati collaborazionisti. Si trattava, scrive Margalit, di un giudizio «crudele, sommario e non basato sulla conoscenza dei fatti». Anche se poi «sullo scivoloso crinale del collaborazionismo non ci sono appigli a cui aggrapparsi per attutire la caduta». Il che indurrebbe a pensare che per il tradimento, anche quello «a fin di bene», ci sia poi un prezzo da pagare. Sempre.

La Stampa TuttoScienze 1.11.17
Le acrobazie dei neuroni che ci rendono smart
di Marco Cambiaghi

Rodrigo Quian Quiroga e Arnaldo Benini sono pronti a stupirci, parlando di noi. O meglio, del nostro cervello e di quello che pensiamo sia in grado (o non in grado) di fare. Concetti controintuitivi che, tuttavia, sono quelli che ci rendono umani, come l’importanza di dimenticare o il senso variabile del tempo, che non è diverso da quello delle api o delle formiche, e che noi stessi creiamo. Il primo è professore di neuroscienze all’Università di Leicester, nel Regno Unito, il secondo è professore emerito di neurochirurgia all’Università di Zurigo: racconteranno i loro studi in due conferenze, il 3 e il 4 novembre, al Festival della Scienza di Genova.
Quiroga nella lezione «Borges e la memoria: l’importanza di ricordare tutto e di saper dimenticare» dimostrerà che nel cervello esistono neuroni soprannominati «cellule di concetto»: lui li ha definiti «neuroni di Jennifer Aniston» - alcuni si attivano solo quando guardiamo la foto della star americana - e svolgono un ruolo-chiave nella formazione della memoria. «Sembra incredibile, ma abbiamo trovato un neurone che si attivava solo di fronte alla cartina dell’Italia e solo di fronte a una specifica mappa», ci spiega. Queste cellule si trovano per lo più nell’ippocampo, noto per essere un’area fondamentale per la memoria. «È da qui che è partito il legame con Borges, perché in un’area responsabile per la memoria ci sono neuroni che rappresentano concetti: se non ci fossero, avremmo una rappresentazione solo dei dettagli e non saremmo in grado di ragionare e quindi di pensare».
Come nel «Funes, o della memoria» di Borges, infatti, per pensare a qualcosa dobbiamo capirne il significato e per farlo dobbiamo astrarre. Per astrarre, poi, abbiamo bisogno di dimenticare i dettagli. «Se non posso estrarre questa informazione, non posso nemmeno arrivare al livello di pensiero profondo che caratterizza gli umani. È ciò che ancora ci distingue dai computer, che sono ottime macchine per immagazzinare informazioni in modo accurato. Il cervello umano, invece, fa l’opposto: immagazzina poche informazioni, dalle quali estrapolare il significato». Un concetto che va contro lo stereotipo, secondo il quale chi ricorda di più è migliore.
Benini, autore del saggio «Neurobiologia del tempo», edito da Raffaello Cortina, nella conferenza «Neurobiologia del tempo: l’orologio è nella testa» rincarerà la dose. Dice infatti: «Non esiste nel cervello un organo in grado di percepire il tempo. Il senso del tempo viene creato da diverse aree». Una serie di eventi biologici è quindi alla base della percezione del tempo, che risulta diverso da persona a persona, perché diverso è il cervello che lo crea. «Anche le emozioni - continua - influenzano il nostro senso del tempo, poiché lobi temporali e sistema limbico sono connessi: se siamo al semaforo rosso e abbiamo fretta, il tempo viene sentito come doppio o triplo rispetto a quando siamo tranquilli».
Einstein, per spiegare la Relatività, ricorreva alla metafora di un uomo seduto su una stufa, ma il concetto è simile. Eppure in entrambi i casi il tempo assoluto, quello dell’orologio, un marchingegno sempre creato dal cervello, è lo stesso. Sul fatto che il senso del tempo sia neuronale e venga trasmesso per via genetica nella forma di meccanismi nervosi non ci sono più dubbi. «Se in quattro punti differenti viene messa acqua zuccherata ogni 10 minuti a tempi diversi, un’ape che impara questo “timing” non sbaglia un colpo, andando a colpo sicuro solo quando è passato un certo intervallo temporale». Tutti gli organismi con un sistema nervoso hanno infatti un senso del tempo, anche se non numerico, come avviene nell’uomo. «Ma c’è di più - conclude -. A ulteriore conferma della natura nervosa del senso del tempo c’è la sua alterazione, fino alla scomparsa in caso di lesioni cerebrali, come avviene in molti pazienti colpiti da ictus o tumori cerebrali».

La Stampa TuttoScienze 1.11.17
La flessibilità mentale
“E in futuro ci aiuteremo attivando i giusti circuiti”
di Gabriele Beccaria

Ex bambina prodigio, Danielle Bassett, 36 anni, ha studiato fisica e si dedica a ciò che la rende speciale tra miliardi di umani: il cervello. Tanti lo studiano, visto che è l’organo più misterioso e controverso, eppure lei riesce a farlo in modi inediti. Mentre lo indaga con sofisticate formule matematiche, lo rappresenta anche con grafici multidimensionali che hanno il fremito delle visioni artistiche.
Intreccia astrazione e percezione, grazie a un team multidisciplinare alla University of Pennsylvania, negli Usa, ed è sicura che non è lontano il momento X: quello in cui ognuno di noi disporrà di un aiuto personalizzato per migliorare le proprie prestazioni cognitive. Il che vuol dire diventare più curiosi, svelti nei pensieri, pronti a imparare. In definitiva, essere davvero creativi.
Qual è il segreto, allora, professoressa? «È nella flessibilità mentale e nel saperla incrementare». A farla sbocciare - risponde lei, inserita dalla rivista “Popular Science” tra le 10 menti più brillanti della ricerca made in Usa - sono le sempre mutevoli architetture dei neuroni. Per noi restano insondabili, ma lei le strappa dall’invisibilità con la combinazione di scanner cerebrali che «leggono» in diretta l’attivazione dei tessuti e modelli teorici ricavati dalla teoria della complessità. «Quelle strutture si trasformano negli anni e anche su tempi brevissimi. A volte è questione di minuti, addirittura di secondi». Ogni età e ogni individuo ha cronologie e logiche diverse. E le conseguenze sono evidenti, a chiunque: modulandosi in interi network, il linguaggio elettrico delle cellule ci rende più smart o più tonti, a seconda di interazioni multiple.
I fattori in gioco sono tanti, ha sottolineato a Torino giovedì scorso, alla consegna del Premio Lagrange-Fondazione Crt 2017. «Sono legati alla fatica e al riposo, alle ore del giorno, agli stili di vita. E non solo». Danielle Bassett aggiunge che la plasticità biologica è così estesa che potremo influenzarla sull’onda di desideri e necessità: con super-farmaci e training specifici. Ma tenendo la «macchina dei pensieri» sotto controllo e, quindi, non trascurando i necessari vincoli bioetici: se deraglia oltre limiti geneticamente determinati, la flessibilità diventa tutt’altro. Anche schizofrenia e follia.

La Stampa TuttoScienze 1.11.17
Il segreto delle mummie dei grandi tra Quattro e Cinquecento
«Soffrivano delle malattie della modernità»
di Eugenia Tognotti

Tre potenti personaggi nell’Italia spagnola, accomunati dal fatto di essere morti di diverse forme di cancro, tra il XV e il XVII secolo, hanno trovato spazio in «Lancet Oncology»: Ferrante I di Aragona, re di Napoli ( 1431-1494), Ferdinando Orsini, Duca di Gravina in Puglia (1490-1549), il principe Luigi Carafa (1511-1576).
Il perché dell’attenzione della prestigiosa rivista di oncologia è giustificato dall’interesse per la ricerca effettuata dal paleopatologo Gino Fornaciari, già ordinario di Storia della Medicina all’Università di Pisa, su un gruppo di mummie di principi e nobili aragonesi custodite nella Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli. Il primo elemento interessante - che sembra smentire l’idea che il cancro fosse raro nel passato - è dato dal fatto che, su 11 adulti esaminati, siano stati trovati ben tre casi di cancro nella classe di età 55 -71 anni, per una percentuale del 27,7%, vicina all’incidenza attuale della malattia, che rappresenta in Occidente la seconda causa di morte. L’affermazione che in passato il cancro fosse molto raro è quindi da rimettere in discussione, pur tenendo conto dell’esiguo numero delle mummie esaminate: tra coloro che riuscivano ad arrivare ai 50-60 anni, e in particolare tra gli esponenti dell’aristocrazia e dell’élite, esisteva un rischio di ammalarsi di cancro paragonabile, in qualche misura, a quello di oggi. Ad influirvi quelli che oggi chiamiamo «stili di vita» e la dieta, particolare ricca nelle corti rinascimentali e in cui aveva un posto predominante la carne rossa.
Le cronache attestano la preferenza per quest’ultima di re Ferrante, sovrappeso e affetto da adenocarcinoma del colon-retto, il cui insorgere era stato probabilmente favorito da un’alimentazione largamente basata proprio sul consumo di carne, accertato attraverso lo studio paleonutrizionale e tramite gli isotopi stabili del carbonio e dell’azoto . All’esposizione a carcinogeni chimici, probabilmente presenti nella dieta, è associabile la presenza della mutazione di un gene, il K-ras, rivelata dall’analisi del Dna. Del resto, le biografie di esponenti di illustri casati segnalano diversi casi di tumori di personaggi storici in quell’epoca: la regina consorte Anna d’Austria, moglie di Luigi XIII di Francia e reggente per il figlio Luigi XIV, muore a 65 anni di cancro al seno (curato con impiastri a base di cicuta e di polvere di scamonea).
Lo studio di Fornaciari porta quindi un grande contributo di conoscenza: nella letteratura paleopatologica esistono solo cinque casi di tumori maligni dei tessuti molli. Interessanti, infatti, anche i risultati dello studio istologico della mummia del principe Luigi Carafa (che ha rivelato una mucosa di colon ben conservata, con un adenoma villoso ed un adenocarcinoma iniziale, oltre a una forte immunità positiva per le cheratine). Ferdinando Orsini, duca di Gravina in Puglia, ha svelsto poi un caso di neoplasia maligna periorbitale, con invasione del tessuto osseo. I ricercatori si sono trovati di fronte ad una lesione diffusamente distruttiva, estesa dall’angolo interno dell’orbita destra alla radice del naso, interessando anche la glabella e il seno frontale.
Mentre l’assalto di tanti ricercatori sta svelando i segreti dell’«Imperatore del male» - per riprendere il titolo del libro di Siddhartha Mukherjee - gli studi sulle mummie forniscono così prospettive interessanti, a cominciare dal confronto della progressione neoplastica, nel passato e oggi.

La Stampa TuttoScienze 1.11.17
Il software della verità che oltrepassa i limiti della logica umana
Tra cause e probabilità, la start-up “Rootclaim”
Stonehenge, simbolo degli interrogativi irrisolti dell’archeologia
di Fabiana Magrì

Dalle origini di Stonehenge alle cause della scomparsa del volo Malaysia Airlines 370, «Rootclaim» è la piattaforma open source che promette di individuare la soluzione più probabile - e quindi attendibile - dei misteri più diversi. Sarebbe perfino in grado - sostiene tra il serio e il faceto - di svelare tutta la verità sui capelli simil-arancio di Donald Trump.
Nella sede della start-up, a Tel Aviv, c’è Saar Wilf, 42enne imprenditore seriale israeliano, che confessa di avere un chiodo fisso: eliminare l’errore umano dalla comprensione della realtà e arrivare fino alla verità delle cose. Nel suo Dna c’è di sicuro una certa dose di «hutzpà» (parola ebraica che descrive un topos israeliano, a metà tra sicurezza di sé e presunzione), ma a prevalere è la determinazione di chi interpreta il mondo attraverso i numeri. «Non c’è niente di meglio - sostiene - che poter provare qualcosa con la matematica».
La chiave dell’approccio di «Rootclaim» è quindi il rovesciamento della classica relazione tra prove e ipotesi. Intuitivamente, così come nelle aule di tribunale, è sempre l’esame delle prove che porta a elaborare le congetture. «Rootclaim», invece, ribalta l’analisi e parte dalle ipotesi, chiedendosi quanta corrispondenza possa esserci con ogni indizio raccolto. Scompone una complessità che appare impossibile da decifrare in una lunga serie di domande a cui è molto più facile rispondere. È a questo punto che i dati sono immessi nel modello, che si basa sul teorema di Bayes (quello della probabilità delle cause), e le conclusioni sono il risultato matematico di questo processo di elaborazione.
«Usiamo un modello matematico ben noto, non ci siamo inventati niente - minimizza Wilf -. Quello che mancava, tuttavia, era la capacità di applicare la teoria al mondo reale». Dal 2009, così, si sono avvicendati quattro gruppi di esperti, fino al lancio del sito. Ogni team ha migliorato il modello precedente. «Il punto debole del nostro cervello è l’incapacità di comprendere una situazione completamente nuova, soprattutto se complessa». Quando questa complessità si allarga e diventa indispensabile capire bene ogni pezzo del puzzle per afferrare la visione d’insieme, il ragionamento classico si rivela sostanzialmente inutile. «Eppure questo limite non impedisce ad agenzie di intelligence, ricercatori o giornalisti di formulare le loro teorie. E allora come è possibile che persone intelligenti e preparate giungano a conclusioni tanto distanti su una stessa questione? Il problema - spiega Wilf - è che non hanno esperienza di ciò che analizzano».
«Il nostro prodotto è superiore alla capacità di ragionamento standard in questo tipo di situazioni», aggiunge, sottolineando come la prevalenza della matematica sia, «tutto sommato, lo scopo stesso del metodo scientifico. Da sempre». Il sogno di Wilf è vedere applicato «Rootclaim» nei tribunali, prima di tutto: «Sono i luoghi in cui potrebbe avere il maggiore impatto. Ma lì si affrontano questioni sensibili, che hanno a che fare con la vita delle persone, ed è difficile introdurre dei cambiamenti: non credo che sarà questo il primo campo di applicazione».
Il business, invece, sembra pronto. Migliorare i processi decisionali e l’impatto sui profitti - conclude Wilf - può essere decisivo: «Con “Rootclaim” le aziende capiranno meglio il mondo».

La Stampa TuttoScienze 1.11.17
“La ricetta per diventare leader, tra cyber e robot”
La Ben Gurion University, “hub” dell’high tech, firma un accordo con l’ateneo di Torino
di Federico Callegaro

«Einstein diceva che, se la Terza guerra mondiale fosse stata combattuta con armi atomiche, la Quarta avrebbe visto uomini armati di clave e pietre. Io, invece, credo che il prossimo conflitto sarà una cyber-guerra».
A parlare è Zvi HaCohen, rettore della Ben Gurion University di Beer-Sheva. Il professore è a Torino per siglare con il rettore Gianmaria Ajani un accordo di collaborazione con l’ateneo piemontese e le sue parole hanno un peso particolare: l’istituzione che dirige è la più avanzata di Israele (e tra le prime al mondo) in materia di cybersecurity. Così all’avanguardia da aver convinto Deutsche Telekom a chiudere i laboratori di Stanford per trasferire i suoi specialisti in questa città di 200mila abitanti, nel Negev. «Siamo giovani ma in espansione - racconta HaCohen -: siamo passati dai 5mila iscritti del 1987 ai 20mila di oggi». Sicurezza informatica, ma non solo. C’è anche tanto biotech e genetica, oltre all’incubazione di start-up e allo studio di metodologie agricole d’avanguardia in questa università al top: ambiti di ricerca che gli israeliani vogliono ora condividere con l’ateneo torinese, in un percorso di crescita comune.
Minacce digitali. «Conti correnti azzerati, niente elettricità, le valvole che regolano il cloro nell’acqua potabile manomesse e tutto questo attraverso un pc - spiega HaCohen -. Quanto tempo passerebbe, in condizioni simili, prima che in una città si inneschi una guerra civile? È questo che cerca di scongiurare la ricerca sulla cybersecurity». E in Israele hanno preso seriamente la questione: tanto da spingere il governo a eleggere l’ateneo come «hub» per una disciplina che è d’interesse nazionale e da progettare il trasferimento di 5mila militari specializzati, che lavoreranno nel campus.
La protezione delle attività in rete, però, interessa anche le aziende e Apple ha aperto a Beer-Sheva un laboratorio. «Anche l’Università di Torino investe nella ricerca nel campo digitale, dai Big Data all’ambito medico fino ai contenuti multimediali - spiega Dario Peirone, docente di economia e tra i promotori dell’accordo tra atenei -. In questo ambito, come in altri, le competenze delle due università possono risultare complementari».
Scenari biotech. «Uno dei maggiori problemi legati alla fisioterapia è che, spesso, si rivela noiosa e viene abbandonata - racconta Limor Aharonson-Daniel, vice-rettrice della Ben Gurion University -. Per ovviare al problema abbiamo progettato una serie di robot che facciano fare attività giocose e ricreative». E accanto alla robotica medica un’altra eccellenza dell’ateneo è rappresentata dalle ricerche sul Dna. «Lo studio della genetica offre l’occasione di decifrare i geni responsabili di determinate mutazioni. Grazie al rapporto instaurato con le popolazioni locali (alla Ben Gurion University insegna la prima dottoressa di origine beduina al mondo e l’ex direttore del dipartimento di computer science è di una famiglia beduina della zona) abbiamo studiato da vicino diverse malattie, aiutando anche a migliorare la vita delle “tribù del deserto”».
Start-up e agricoltura
A Beer-Sheva i finanziamenti privati sono essenziali: ecco perché la valorizzazione delle start-up incubate lì fornisce un modello di business, da trasferire anche in Italia. «Con 1400 ingegneri e 1000 brevetti la nostra Università è una realtà dinamica - sottolinea il rettore -. Ci concentriamo su programmi che, analizzando i social network, aiutino i soccorritori in caso di terremoti e attentati». Ma anche l’Università di Torino ha fatto breccia negli israeliani. «Sono rimasti colpiti dai laboratori di biotecnologie e agraria - racconta Giacomo Büchi, docente di management e referente dell’accordo per l’ateneo torinese -. Conoscere strade nuove che aiutino l’agricoltura in condizioni difficili è un’esigenza vitale».

Repubblica 1.11.17
Ma quanto Machiavelli c’è nel populismo 3.0
Da Kim Jong-un a Putin, ecco perché i leader carismatici o i despoti di oggi somigliano tanto ai protagonisti dei grandi classici letterari sul potere
di Stefano Massini

L’AMORE “Il Principe” spiega come gli autocrati si facciano invocare a gran voce dalle masse
LA PAURA Sofocle racconta l’angoscia del capo, Alfieri il terrore collettivo da cui nasce

C’è tutto Trump nel “Principe” di Machiavelli. E c’è anche molto su Kim Jong-un. Eppure non credo — fino a prova contraria — che né il paffuto coreano né The Donald abbiano mai sfogliato l’acuto libello del Segretario fiorentino. Peccato per loro: vi troverebbero più di una dritta sull’ingrato mestiere che gli è toccato in sorte, quello del leader carismatico. Dal rischio di congiure interne al volubile mutar del popolo, non c’è in fondo niente che non sia stato messo già per iscritto da messer Niccolò e non solo da lui, in duemilacinquecento anni di trattati sull’uomo solo al comando.
Ve n’è abbastanza per ricavarne insomma un ritratto a tutto tondo di quello che potremmo definire il leader populista 3.0: erede di altri leader più antichi, quasi sempre tiranni, spesso coronati da epiloghi infausti. Perché in fondo l’equilibrio che sostiene un personaggio di questo tipo è sempre precario, affidato a quel fattore del tutto irrazionale che è la paura. Ed è un dato di fatto, lucidamente delineato da Vittorio Alfieri nel 1777, nel suo Della tirannide: il supremo capo è un’entità che prende forma dal terrore collettivo (dettato da qualsiasi minaccia, militare, sociale, politica) per poi stabilizzarsi in un’aura di angoscia da cui egli stesso è logorato.
Già all’alba del I secolo dopo Cristo, il latino Valerio Massimo ci racconta che il tiranno greco di Siracusa viveva talmente ossessionato dall’essere ucciso che permetteva solo alle figlie di radergli il viso (fino a che non cominciò a nutrire dubbi perfino su di loro, e gli proibì l’uso dei rasoi facendosi bruciare la barba con gusci di noce incandescenti). Come a dire che l’esercizio accentrato del potere comporta di fatto una convivenza con la paura di perderlo: Erdogan ha comminato ergastoli anche ai morti, Kim Jong-un è perfino accusato di aver ucciso fratello e zio pur di sedare cospirazioni al vertice, mentre il dittatore peruviano Fujimori arrivò a dilapidare capitali immani per tirare a sé i suoi sobillatori. Anche qui: Machiavelli scripsit. Ed ecco profilarsi l’inattesa contraddizione di cui già diceva Platone: il tiranno è solo all’apparenza un vincente («io sono uno che nella vita non ha mai perso», copyright Mr. Trump),e dietro la sua fierezza si nasconde un essere infelice, dilaniato dalla continua percezione della propria precarietà.
Il drammaturgo Sofocle ci consegna non per nulla in Edipo e Creonte due ritratti di tiranni fragili, maldestri, esposti all’errore, pieni di zone d’ombra e di proverbiali scheletri nell’armadio. Va da sé che proprio la consapevolezza di questi limiti si traduca poi in maggiore arroganza, per disperato bisogno di nascondersi in una corazza, senza la quale il despota è nudo (ricordo un bel racconto di Dino Buzzati, tutto ambientato fra cani, dal titolo Il tiranno malato). Da Hitler a Saddam, da Gheddafi a Napoleone, il leader celebra da sempre nel corpo il mito della sua infallibilità, ostentando la propria prestanza in una narrazione quasi mitologica. «Il tuo potere è provvisorio!» tuonava Savonarola contro Lorenzo de’ Medici, e dunque cosa di meglio se non celare questa provvisorietà dietro un vigore leggendario?
Infatti: Stalin impose agli scultori di aumentargli la statura di almeno venti centimetri, e fece sì che negli asili ogni mattina i bambini lo chiamassero papà. Quanto alla retorica fascista, imperversavano achillei filmati in cui Mussolini scandiva i giorni della settimana con indefesse attività sportive (lunedì marcia, martedì nuoto, sabato scherma e via dicendo).
Nasce così insomma — come un formidabile paravento — il grande connubio fra il despota e lo sport, in cui naturalmente egli non si limita a competere ma come minimo primeggia: basta sfogliare le pagine dei nostri quotidiani per ammirare Putin judoka o il sanguinario dittatore ceceno Ramzan Kadyrov immortalato mentre dribbla Ronaldinho su un campo da calcio di Grozny. Non fa anche qui eccezione l’atomico Kim, di cui è nota la passione per il basket, al punto tale da imporre uno strappo al suo fervido antiamericanismo: Dennis Rodman campione dell’Nba non solo viene e va da Pyongyang, ma ha avuto il privilegio di comunicare lui al mondo la nascita della prima figlia del sommo leader.
Si dirà che tutto questo amore per lo sport è anche un vettore di consenso. E in effetti è sacrosanto che perfino nel regime più despotico non c’è tiranno senza un volgo che sotto sotto lo acclami, come scrisse Coluccio Salutati nel De Tyranno. È innegabile che l’assolutismo sia una patologia da cui il corpo democratico si lascia volutamente contagiare, alla dannata ricerca di una protezione da chissà quali insidie: come scrive caustico Giacomo Leopardi, il popolo inneggia alla dittatura mentre è ancora caldo il sangue del tiranno ucciso. Ma perché? Niente è più feroce e volubile delle masse, ci suggerisce Alexis de Tocqueville nel suo illuminante La democrazia in America, ed è un’amara verità: il Leviatano di Hobbes prende forma da un istinto cieco, che assoggetta il branco all’autorità di un padre di famiglia, cui ci si rimette con una delega prima affettiva che politica. Fra il popolo e il suo capo si tratta dunque in origine di un amorevole abbraccio, che tutto sembra fuorché la rottura drammatica di quel patto di eguaglianza che sta alla base degli stati democratici, e non per nulla il tiranno — alla ricerca di una sintonia di carne più che di cervello — ama sempre presentarsi come un essere istintivo, antipolitico, anticonformista, talvolta addirittura iconoclasta ed eccentrico fino all’eccesso (si pensi a Caligola, a Nerone, a Domiziano, il cui sfarzo davvero ricorda i leoni d’oro massiccio dei resort trumpiani in Florida). È dunque una questione anche di linguaggio: più sarà concreto — ai limiti del triviale — e più si avrà la sensazione di una dimestichezza familiare, senza cerimonie, garanzia quasi di una intesa amicale (Vladimir Putin ha buon gioco allora a dire che «stanerà i terroristi anche nelle tazze dei cessi»).
Torniamo così ancora una volta a Machiavelli, ai ritratti fulminanti e modernissimi dei suoi Agatocle, Oliverotto da Fermo o del duca Valentino: essi ebbero la forza non di sovrastare, ma di farsi chiedere dal popolo stesso di sopraffarlo, sorvolando sui metodi abietti della loro ascesa e sugli abomini della giungla cortigiana. Poterono farlo perché al di là di tutto il popolo li amava, vedendo magari in loro il simbolo di un’identità collettiva di cui riappropriarsi (il terribile Mobutu nel Congo si spacciò per anni come il padre che riportava tutti alle perdute radici di un’età dell’oro: make Zaire great again…). È il profondo insegnamento di secoli e secoli di trattati: la tirannia non è un virus, non è un’infezione. È molto peggio: una malattia autoimmune.

Repubblica 1.11.17
Il ritorno del sacro
Viaggio a oriente dell’Occidente: il nuovo libro di Silvia Ronchey
Quel passato che ancora risuona dalla nostra cattedrale sommersa
La civiltà greca e quella islamica Buddha, Cristo, Mithra e Dioniso
Le migrazioni gli scontri e la convivenza tra i popoli Come leggere nell’attualità la Storia rimossa
di Corrado Augias

Titolo impegnativo: “La cattedrale sommersa”; richiama i sordi accordi dissonanti con i quali Claude Debussy apre il suo preludio evocando profondità sottomarine. Qui invece la metafora rimanda all’immensa civiltà bizantina che l’Occidente, Italia in prima fila, ha inabissato racchiudendo l’aggettivo “bizantino” nel connotato quasi caricaturale di una burocrazia puntigliosa e inefficiente. Con questa raccolta di saggi Silvia Ronchey
vuole porre riparo all’ingiustizia, e alla lacuna, recuperando, come scrive con garbata modestia, «qualche frammento di fregio di archivolto, di colonna». In realtà va molto più lontano come del resto rivendica il sottotitolo del volume “Alla ricerca del sacro Perduto”. Come mai la civiltà bizantina è in pratica scomparsa dall’orizzonte delle nostre abituali conoscenze? Vi ha contribuito una sorta di censura collettiva della chiesa cattolica e della storiografia confessionale ma anche, dopo l’Unità italiana, la storiografia ufficiale poiché l’influenza di Bisanzio rendeva evidenti le differenze di tradizione politico-amministrativa in un’Italia che ambiva invece a mostrare un’identità unitaria.
Ciò che si trova, dissotterrando quelle radici, sono in primo luogo i continui scambi, le reciproche ibridazioni che hanno caratterizzato la vita delle religioni, non solo dei tre monoteismi, tutte sgorgate dal grembo fecondo dell’Oriente, vicino o estremo che sia. Come afferma Denis de Rougemont (qui citato) proprio questo continuo intreccio e scambio di mitologie conferma; «una confusione insensata di religioni mai del tutto morte e raramente del tutto comprese e praticate».
Impressiona per esempio sapere dell’iniziale confusione, in alcune regioni dell’oriente, tra le due figure del Buddha e del Cristo. Nel Kashmir si trova anche la tomba del Gesù indiano e islamico. Oppure la diffusione di un simbolo quale l’esile falce di luna crescente che si ripete sulla bandiera turca e sulla cima dei minareti ma anche come emblema di Diana Artemide e, nel cristianesimo bizantino, tra gli attributi della Madonna dalla veste azzurra e dalla corona di stelle d’argento, raffigurata con una falce di luna sotto i calzari. Si tramanda, scrive Ronchey, che sia stato l’imperatore Costantino dedicando la nuova città da lui fondata sulle rive del Bosforo alla Vergine Madre di Dio ad aggiungere alla mezzaluna di Diana la stella, così fondendo paganesimo e cristianesimo.
Esempio ancora più impressionante è lo straordinario percorso della croce uncinata, o svastica, ideogramma dell’Eterno Ritorno, collegata al moto perpetuo nella Grecia pre-ellenica, simbolo sciamanico dei nativi americani, in altre parole un segno veramente universale fino a quando nel 1895 un monaco cistercense austriaco, Adolf Lanz, appassionato di occultismo non lo trasforma nell’emblema della sua setta dove si praticava l’esaltazione della razza ariana iperborea e del suo ruolo di purificatrice dell’umanità contro la degenerazione ebraica. Da quel bric-à-brac esoterico la trae Hitler, che dall’occultismo era affascinato, inserendo nel 1920 la svastica nella bandiera del partito nazista.
Un caso forse esemplare, affascinante ed enigmatico, è la misteriosa composizione inserita nella Bibbia che si chiama Cantico dei Cantici. Come leggere versi di un’audacia erotica che sfiora la pornografia? «Dilectus meus misit manum suam per foramen/ et venter meus intremuit ad tactum eius» è la traduzione latina di Girolamo che così possiamo riportare in italiano: «Il mio amato infila la mano nel mio grembo, le mie viscere fremono alle sue carezze». Spasimi della passione carnale? Nell’interpretazione analogica midrashica quei versi diventano la celebrazione delle nozze tra Jahvè e Israele, sulla medesima falsariga il cristianesimo li trasforma nell’amore del Cristo per la Chiesa. Il Talmud però ammonisce che non si deve mai sottovalutare la lettera di un testo biblico. Dunque quei versi continuano a galleggiare irrisolti nel vuoto di numerose interpretazioni possibili.
Il fascino, e la successiva scomparsa, del dio Mithra è un altro caso di commistione; la divinità ha origine dell’India vedica, passa alla profonda Persia mazdea, arriva a Roma importata dai legionari che rientravano dalle campagne militari. Innumerevoli le coincidenze con Gesù. Il dies natalis di Mithra si celebrava il 25 dicembre (solstizio d’inverno); lo si diceva nato in una grotta adorato dai pastori, ai suoi fedeli promette la sopravvivenza dell’anima e la finale resurrezione della carne. Come ha scritto Ernest Renan (qui citato): «Se il cristianesimo fosse stato fermato nel suo sviluppo da una qualche malattia mortale, il mondo sarebbe diventato mitraico».
Inquietante la cronaca delle controversie con le quali è stata progressivamente fissata la figura di Gesù qual è oggi, vale a dire “vero Dio e vero uomo”. Nestorio, patriarca di Costantinopoli, morto in esilio nel 451, vedeva due nature, divina e umana, e due persone in Cristo, non era poi così lontano da quella che diventerà la posizione ufficiale della Chiesa. Alcuni però gli attribuirono la negazione della natura divina e la sua posizione venne condannata come eretica dal concilio di Efeso (431). Ugualmente condannata la posizione opposta, detta dei monofisiti, secondo i quali la natura umana di Gesù era assorbita dalla sua divinità, dunque in lui rimaneva solo la natura divina.
Tra i più diffusi e potenti elementi comuni ai tre monoteismi e ad altre religioni della Terra, c’è poi il culto delle reliquie. Il Maqam Ibrahim ovvero la pietra con l’orma di Abramo chiusa in un tabernacolo alla Mecca, la colonna della flagellazione di Gesù che si trova invece a Roma. Ma anche, elenca Ronchey: «Il sangue e il latte di San Panteleimone, la testa di Gregorio di Nazianzo, il piatto dell’ultima cena, il baule dei vestiti della Vergine, i vasi d’oro con i doni dei Magi, la griglia su cui fu arrostito san Lorenzo » e via di questo passo fino alle schegge di ossa, fiale con il sudore, resti di capelli o di unghie, il prepuzio di Gesù, ovvero l’infinitesimo lembo di pelle che il rabbino ha escisso dal pene di un bambino di otto giorni, per passare, estremo opposto, ai corpi imbalsamati e plastificati di uomini e donne considerati santi.
Le reliquie soddisfano il bisogno di avvicinarsi, toccare con mano la materia sacrale con riti che accomunano, come ha sostenuto l’antropologo Ugo Fabietti (qui citato): «I feticci africani, i misteri greco-romani, i culti precolombiani andini, il vodu». D’altronde anche le religiosità laiche conoscono questo tipo di venerazione, dai residui corporei di Garibaldi alla salma imbalsamata di Lenin. Annota Ronchey: «Anche nell’Islam come nel paganesimo greco-romano o nel buddismo, le reliquie si usavano nella fondazione di edifici sacri e pubblici, si trasmettevano, si diffondevano con l’avanzata storica e geografica di quella civiltà».
Ho riportato solo qualche esempio nella ricchissima casistica contenuta nel saggio che illustra con quali diversi strumenti le varie fedi, cristianesimo compreso, siano state lentamente costruite. Quali reazioni potrà suscitare la constatazione di quanto le religioni debbano l’una all’altra, quanto numerosi siano stati i prestiti, le ibridazioni, le imitazioni, quanto affanno e ingegno, quali contrasti, le dottrine, le liturgie, i miti di fondazione hanno richiesto per essere organizzati, resi più o meno coerenti.
In alcuni forse delusione e disincanto, la dimostrazione che non dal cielo sono discese quelle formule di salvazione perché vi si sono applicati uomini mescolando alla loro immensa fede errori, lacune, contraddizioni. Per altri invece sarà la conferma che la secolare dedizione posta nel costruire intorno alla nostra effimera vita una sacralità risponde all’ancestrale bisogno di attenuare il terrore della morte dando una qualche consolazione alla nostra fragile umanità.
FRIEDRICH, “IL CICLO DELL’UOMO”
IL SAGGIO La cattedrale sommersa di Silvia Ronchey (Rizzoli pagg. 256 euro 19) Domani in libreria

Repubblica 1.11.17
Il grido di Francesco per svegliare l’Europa dal letargo
di Eugenio Scalfari

PARLARE di un contributo cristiano al futuro del continente significa anzitutto interrogarsi sul nostro compito come cristiani oggi, in queste terre così riccamente plasmate nel corso dei secoli dalla fede». Così è cominciato il discorso di papa Francesco pronunciato nel pomeriggio di sabato scorso e pubblicato ieri mattina dall’Osservatore romano. Nell’aula nuova del Sinodo era stato preparato dalla Cancelleria di Stato un convegno con un pubblico molto affollato e rappresentativo di numerose personalità europee e intitolato ( Re) Thinking Europe.
Un discorso fatto, come osserva il giornale vaticano, di molti mattoni: il Papa ha affrontato i temi che hanno rallentato e stanno distruggendo la stessa idea di Stato federato e tutte le soluzioni e le speranze di farlo rivivere. Il titolo che abbiamo già citato (Ripensare l’Europa) indica quanto sia impegnativo il discorso di Francesco. Il Papa è cattolico e cristiano, ma quando affronta argomenti come questi il suo sguardo comprende tutti, di tutte le religioni e di ciascuno di noi.
NON parla di un’Europa cristiana, sebbene fu quella religione a ricostruire il nostro continente alcuni decenni dopo la caduta dell’Impero romano. Francesco pensa ad un’Europa unita, una «Comunità» — così la chiama — alla quale partecipano insieme a tutti, religiosi e laici. E i temi da affrontare e gli obiettivi da realizzare sono esaminati da Francesco con molta attenzione.
Il primo è la differenza tra l’individuo e la persona. Sembrerebbero due sinottici, invece sono due diverse figure: l’individuo è dominato da un Io che accentra tutta la realtà e cerca di guidarla a suo vantaggio egoistico; la persona invece è consapevole dei problemi che affliggono la società in cui vive e desidera affrontarli realizzando così il bene proprio e quello degli altri. La chiama Comunità e ricorda che fu proprio questo il primo atto verso un’Europa unita: la Comunità del carbone e dell’acciaio i cui primi fondatori furono l’Italia, la Germania, la Francia, il Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo). Questi furono i fondatori della prima Comunità, cui rapidamente se ne aggiunsero altri fino a diventare 28 ed ora 27 per il ritiro dell’Inghilterra. Ecco dunque il primo mattone, la riscoperta del senso dell’appartenenza ad una Comunità.
Il secondo mattone riferito allo stato attuale dell’Europa è il seguente: la tendenza oggi diffusa non solo in Europa, ma in tutto l’Occidente, di vivere in libertà dando tuttavia a questo essenziale valore un’interpretazione che lo avvilisce e lo trasforma in una tendenza negativa: la libertà di essere sciolti da qualsiasi legame; in questo modo si è costruita una società sradicata, priva di ogni senso di appartenenza. Così vivono e questo pensano le classi dirigenti e i popoli d’Europa con la conseguenza che stanno aumentando movimenti populisti e anti- europei.
Francesco affronta qui un tema inconsueto per un Papa: l’importanza della politica. Ed ecco che cosa dice in proposito: «Ricordate quello che era un tempo l’agorà politica? La Piazza è la polis, non soltanto uno spazio di scambi economici ma anche cuore nevralgico della politica, sede in cui si elaboravano le leggi per il benessere di tutti, luogo in cui si affacciava il tempio così che alla dimensione crescente della vita quotidiana non mancasse mai il respiro trascendente che guida oltre l’effimero, il passeggero, il provvisorio ».
L’effimero, secondo Francesco, trasforma la politica da un pensiero colmo di ideali e valori in un traffico di interessi della peggiore specie, offerta al potere. In questo modo la politica, invece di identificarsi con l’interesse generale, consente il dispiegarsi degli interessi particolari, il peggio del peggio che renderà sempre più forte il sovranismo delle Nazioni, dei singoli partiti e dei loro leader. La politica decade in strumento di affari e interessi privati. In questa condizione l’Europa, quella vera, non nascerà mai.
Papa Francesco proseguendo il suo discorso raccomanda il dialogo che a suo parere è una responsabilità basilare della politica. Se mancasse si trasformerebbe in uno scontro con le forze contrastanti: «Alla voce che dialoga si sostituiranno le urla delle proprie rivendicazioni. Trovano così terreno fertile le formazioni estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio senza tuttavia offrire l’alternativa d’un costruttivo programma». Personalmente non so se Francesco avesse in sé l’immagine di quello che sono in Italia i grillini, ma ascoltando le parole che abbiamo già riferito descrive in modo perfetto il Movimento 5 Stelle e anche quello di Salvini. In questo modo si distruggono i ponti e si costruiscono i muri e questo richiama anche — senza che il Papa lo sottolinei — il messaggio cristiano che dovrebbe invece — per quanto lo riguarda — dedicarsi alla costruzione d’una società saldamente democratica, modernizzando al tempo stesso la religione e la mentalità laica.
La conclusione è la seguente: «Un’Unione europea che nell’affrontare la sua natura non fosse consapevole di dover essere un’unica Comunità che si sostiene soltanto nella difesa degli interessi generali e non quelli di piccoli gruppi dediti solo all’interesse proprio, perderebbe non solo delle sfide importanti della sua storia ma anche la più grande opportunità per il suo destino».
Questo non è stato un discorso, ma un messaggio, anche al suo clero perché si mobiliti, ma soprattutto ai popoli, alle loro classi dirigenti e insomma all’Europa affinché si svegli dal letargo e veda il pericolo di protrarre la situazione di oggi e la necessità di ripensare se stessa. Questo è il momento e non si può tardare.