lunedì 6 novembre 2017

internazionale 3.11.2017
Paesi Bassi 
Oltre le sbarre 
Negli ultimi dieci anni i Paesi Bassi hanno dimezzato la popolazione carceraria. Merito di un sistema basato sulle pene alternative e la responsabilizzazione dei detenuti
di Johannes Böhme, Brand Eins, Germania 


Anche se non sarà rilasciato prima di otto giorni, Sebastian Vos ha già cominciato a fare i bagagli, riempiendo di vestiti una grossa busta di plastica che ha poggiato sul pavimento della sua cella. La settimana prossima Vos, 36 anni, lascerà il penitenziario di Leeuwarden, nel nord dei Paesi Bassi. Supererà per l’ultima volta il metal detector all’ingresso, passando davanti alla fotografia che ritrae il sovrano olandese e la sua consorte, per poi attraversare il parcheggio e raggiungere la macchina di sua madre, che sarà lì ad aspettarlo. Vos ha passato undici mesi dietro le sbarre. Appartiene a quel ristretto gruppo di persone che finiscono ancora in prigione nei Paesi Bassi. Lui stesso dice: “Mi è sembrato un periodo piuttosto breve, considerato quello che ho fatto. E non è neanche la prima volta che mi mettono dentro”. In base all’accordo con la direzione del carcere non possiamo rivelare il suo vero nome né i particolari del reato che ha commesso. Dobbiamo limitarci a dire che ha interpretato in modo molto permissivo le norme olandesi sulle armi. Talmente permissivo che in un momento imprecisato del 2016, in piena notte, si è ritrovato in casa una squadra dei reparti speciali. Agenti con giubbotti antiproiettile e fucili d’assalto hanno sfondato la porta con un ariete, mentre i mirini laser dei cecchini proiettavano disegni sulle pareti dell’appartamento. Lo hanno portato via con un sacchetto di stoffa calato sul viso. Vos è finito dentro la prima volta a 17 anni per una storia di droga. Nel corso della sua carriera criminale, il sistema giudiziario olandese ha subito la trasformazione più radicale mai avvenuta in occidente. Negli anni novanta i Paesi Bassi puntavano ancora sulla severità della pena come deterrente, come fanno tuttora molte altre democrazie, innanzitutto gli Stati Uniti, ma anche l’Inghilterra e la Francia. Dal 1990 al 2005 il numero dei detenuti è quasi triplicato. Poi però il paese ha compiuto un’impresa che non è riuscita a nessun altro stato occidentale: invertire la tendenza. Cosa funziona Negli ultimi dieci anni il numero dei detenuti olandesi si è quasi dimezzato. Nel 2005 nei Paesi Bassi c’erano 125 detenuti ogni centomila abitanti, una delle percentuali più alte dell’Unione europea. Per fare un paragone, in Svezia ce n’erano 78 ogni centomila abitanti. Oggi nei Paesi Bassi il dato è sceso a 59 ogni centomila abitanti. Molti meno di Inghilterra e Galles (146), della Francia (103) o degli Stati Uniti (666), e anche della Germania (77). Mentre in Germania, Francia e Inghilterra le carceri sono piene, nei Paesi Bassi si sono svuotate: perciò negli ultimi anni sono state chiuse 19 prigioni su 85. Se in Germania se n’erano costruite troppo poche, nei Paesi Bassi ce n’erano troppe. Con il loro tipico pragmatismo, gli olandesi hanno trasformato le prigioni in alberghi, uffici per start up, parchi avventura e centri d’accoglienza. Il paese affitta due degli immobili alla Norvegia e al Belgio, che hanno molti detenuti e poche prigioni. Peter van der Laan, 62 anni, insegnante all’Istituto olandese per lo studio della criminalità e delle misure di polizia (Nscr) di Amsterdam e consulente del governo olandese, è stato uno degli artefici di questa trasformazione. Alla fine degli anni novanta lavorava presso il centro di ricerca e documentazione del ministero della giustizia (Wodc), che rispetto alle dimensioni del paese dispone di risorse eccezionali. I collaboratori del Wodc si misero all’opera per progettare un sistema carcerario totalmente nuovo. Tra le altre cose, presero in esame i risultati di una ricerca condotta dallo psicologo britannico James McGuire dal titolo molto semplice: What works (cosa funziona). Nel 1995 McGuire aveva analizzato centinaia di studi, arrivando alla conclusione che la repressione è inefficace e che le pene detentive servono solo ad aumentare la probabilità di reiterazione del reato dopo il rilascio. Si tratta quindi di una strategia controproducente, a meno che non sia accompagnata da altre misure. Sebastian Vos ne è un ottimo esempio. Era considerato un criminale recidivo, cioè uno che entra e esce di prigione, perché non si riusciva a incidere sulle cause più profonde dei suoi problemi, quelle che lo spingevano a commettere i reati. Nella sua ricerca McGuire sostiene che siano più utili misure come la sospensione condizionale della pena, nonché la presenza di agenti di custodia con atteggiamenti da assistenti sociali. Meno pene e più incentivi insomma. “Il suo studio ha avuto grandissimo peso nei Paesi Bassi”, dice van der Laan. “I suoi risultati si potevano trasformare subito in un progetto concreto”. E così è stato. I Paesi Bassi hanno una lunga tradizione di collaborazioni trasversali, che su perano le divisioni tra i partiti e cercano soluzioni con l’aiuto degli esperti. A dimostrazione di questo, i due ministri della giustizia che hanno sostenuto le leggi svuota carceri, nel 2001 e nel 2006, erano entrambi conservatori. Grazie alle nuove regole per i giudici è più semplice sospendere le pene detentive con la condizionale o sostituirle con l’affidamento ai servizi sociali. Spesso questi provvedimenti sono accompagnati da altre misure, come cavigliere elettroniche, risarcimenti alle vittime e terapie. Oggi l’affidamento ai servizi sociali è frequente quanto la condanna a pene detentive – in entrambi i casi si tratta di circa 35mila sentenze all’anno. Inoltre la maggior parte delle pene detentive è di breve durata: il 60 per cento dura meno di un mese. Negli ultimi dieci anni il tasso di criminalità è calato di un punto percentuale ogni anno. Tutto questo ha fatto sì che oggi le prigioni nei Paesi Bassi siano meno popolate che in Germania o in Francia. A detta di van der Laan, l’opinione pubblica olandese ha reagito “con vero e proprio entusiasmo”: “Gli olandesi pensano che almeno così i criminali possono rendersi utili”. Alcuni criminologi però considerano le riforme insufficienti. René Van Swaaningen dell’università Erasmus di Rotterdam disapprova il fatto che misure puramente punitive, come la cavigliera elettronica, siano applicate senza essere accompagnate da misure di risocializzazione. “Così si chiudono le prigioni, ma poi la società intera diventa un carcere”, commenta. Quelli che ancora finiscono in galera sono i soggetti più diicili. Il 30 per cento torna dietro le sbarre entro due anni dal rilascio. Spesso si tratta di tossicodipendenti (60 per cento) o di persone che soffrono di disturbi psichici (sempre il 60 per cento), e molti (il 30 per cento) presentano leggere disabilità mentali. Proprio per questo la giustizia riserva molte attenzioni a questo zoccolo duro. E ora anche Sebastian Vos dev’essere ricondotto sulla retta via. A parte una rissa, negli ultimi mesi di detenzione si è comportato in modo impeccabile: ha svolto i compiti che gli sono stati affidati, ha pulito, ha fatto lavori di falegnameria, non ha usato né venduto droghe e ha ottenuto l’abilitazione a guidare il carrello elevatore. E poi non è stato lui a provocare la rissa, almeno così dice. L’uomo che lo accompagna nella sua nuova vita si chiama Jim Nijdam. È un gigante spigoloso di 53 anni, con lo sguardo duro e la testa rasata. Assiste 36 detenuti del carcere di Leeuwarden. Passando per i corridoi bestemmia, sghignazza e fa battute. Gli piacciono i modi spicci. I detenuti del suo braccio li condivide con una collega: “Lei si prende i piagnoni, io i matti. Non sopporto i piagnistei!”, spiega. Non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalla sua scorza dura: Nijdam svolge il suo lavoro in un modo che solo vent’anni fa nei Paesi Bassi era impensabile e in molti paesi lo è ancora. “Abbiamo smesso di giocare a guardie e ladri. Non è una sfida in cui il nostro unico obiettivo è scovare le droghe e gli alcolici fatti in casa dai detenuti. Adesso si tratta di lavorare sul serio per risolvere i veri problemi di questi ragazzi. Il 95 per cento di loro ha avuto un’infanzia molto difficile, e io voglio che con me riescano ad aprirsi. Purtroppo abbiamo poco tempo, ma almeno facciamo un tentativo. Cerchiamo di essere assistenti sociali più che secondini”. Nijdam si occupa anche delle prime, importantissime 48 ore che i detenuti passano dietro le sbarre: è fondamentale che telefonino al datore di lavoro, al padrone di casa, al partner e ai figli, per non tagliare i ponti col mondo esterno. Anche questa è un’idea che viene dagli studi di criminologia: i primi due giorni passati in prigione sono determinanti per gli sviluppi successivi. Autonomia e responsabilità Anna Nijstad, la direttrice della prigione di Leeuwarden, vuole ridurre al minimo la differenza tra una vita in libertà e una vita dietro le sbarre. Per questo cerca di lasciare ai detenuti la massima autonomia possibile: la mattina si svegliano da soli, poi percorrono da soli i duecento metri che li separano dalle falegnamerie e alla sera tornano da soli dal lavoro. Possono guidare il carrello elevatore, usare la sega circolare e i coltelli da cucina. Possono perino chiudere a chiave la loro cella. La direttrice del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria olandese, Monique Schippers, lo definisce un “metodo incentrato sulla persona”: “Bisogna che i detenuti capiscano che la reiterazione del reato dipende da loro. Devono prendersi la responsabilità in prima persona”. È una questione di autodeterminazione in un luogo caratterizzato dalla subordinazione alla volontà altrui. E questo metodo funziona, almeno per alcuni detenuti. Nijdam non è uno che vede sempre tutto rose e fiori, ma nel caso di Vos è cautamente ottimista: “Quando è arrivato era terribilmente nervoso. Da allora è migliorato molto”. Durante la prima settimana di detenzione gli sono stati prescritti medicinali contro l’iperattività, per la prima volta nella sua vita. Una misura semplice ma efficace: fino ad allora Vos si sentiva spesso sopraffatto dai suoi stessi pensieri. “Mi rendo conto che i medicinali frenano il caos che c’è nella mia testa,” dice. “Sono ancora irrequieto, ma prima facevo dieci cose contemporaneamente”. Secondo i criminologi i fattori che spingono le persone a delinquere si dividono in statici e dinamici. I fattori statici non sono modificabili. Questo vale soprattutto per quelli biografici: un’infanzia infelice non si può cancellare. Molte altre cose, però, possono cambiare. La tossicodipendenza si può superare. I debiti si rinegoziano e si pagano lavorando. Con il sostegno adeguato, i senzatetto trovano casa. Anche gli atteggiamenti possono cambiare, e farsi nuovi amici e conoscenti è difficile, ma non impossibile. A Leeuwarden, Nijdam e colleghi si concentrano sui fattori dinamici: casa, lavoro, salute psichica, dipendenze. Spesso la parte più difficile è fare in modo che i detenuti ammettano di avere un problema. Nijdam ha spinto Vos a mettere tutto nero su bianco: la sua storia, i suoi problemi, tutto quello che lo ha condotto qui. E Vos racconta che a un certo punto gli si sono aperti gli occhi: “Mica ci credevo io a queste cavolate, tipo che con l’età si diventa più saggi. Ma ora ho cambiato idea, ho capito quante cose ho da perdere.” Per l’intero periodo passato in galera, Vos ha continuato a pagare l’affitto del suo appartamento, attingendo ai propri risparmi, per poter tornare a casa dopo il rilascio. E ha già un lavoro che lo aspetta, anche se fa parte della sua pena: deve lavorare per tre mesi in una fattoria, ed è contento di farlo. Gli piacciono gli animali. “Hai fatto passi da gigante,” gli dice Jim Nijdam. “Non mandare tutto a monte”. usk