domenica 12 novembre 2017

internazionale 11.11.2017
Economia e lavoro 
Un pericolo per la democrazia
Le elusioni fiscali commesse da aziende e personaggi famosi e rivelate dai Paradise papers dimostrano che una ristretta minoranza ignora i suoi doveri verso la collettività
Jérôme Fenoglio, Le Monde, Francia

Il viaggio nei corridoi segreti dell’economia mondiale non è ancora finito. Dopo il Lussemburgo nel 2014, la Svizzera nel 2015 e Panamá nel 2016, il 5 novembre 2017 è uscita un’altra inchiesta dell’International consortium of investigative journalists (Icij), i Paradise papers. La ricerca si concentra su alcune isole: le Cayman, Vanuatu, Malta, Jersey, l’Isola di Man e le Bermuda, dove si trova lo studio legale Appleby, uno dei leader mondiali della finanza offshore, di cui i repoter dell’Icij hanno analizzato 6,8 milioni di documenti interni. Nel 2016 i Panama papers hanno permesso di sondare i fiumi sotterranei del denaro sporco, dove si mescolano le acque grigie dell’evasione fiscale e quelle nere delle attività criminali. Le operazioni messe in piedi dallo studio Appleby, invece, mostrano le numerose crepe del sistema fiscale internazionale, sfruttate da questi abili avvocati per consentire a una ristretta minoranza di milionari e multinazionali di sfuggire al fisco restando nei confini della legalità. I Paradise papers non descrivono un universo parallelo all’economia globale, ma una sua parte integrante. Non è il contrario della globalizzazione, è il suo rovescio. I benefici e le fortune passano da una parte all’altra, seguendo le crepe del sistema. Questo lusso sottrae ogni anno alle economie degli stati circa 350 miliardi di euro, di cui 120 all’Unione europea e 20 alla sola Francia, secondo i calcoli dell’economista Gabriel Zucman. Descrivere certi meccanismi per poterli denunciare espone invariabilmente a due tipi di critiche. “Perché scandalizzarsi di operazioni che rispettano la legge?”, ci si chiederà da un lato. “Perché svelare fatti che non porteranno alla condanna di nessuno e che non modificheranno l’ordine delle cose?”, diranno altri. A questo cinismo e a questo fatalismo Le Monde e gli altri 95 partner dell’Icij contrappongono la convinzione che quest’inchiesta possa contribuire alla presa di coscienza dei pericoli immediati per le democrazie. Le nostre società non si basano solo sulla legge, ma si reggono anche grazie a un collante fragile: la fiducia. Questa non può resistere al fatto indiscutibile che la ricchezza concede un ulteriore vantaggio a chi ce l’ha: gli dà la possibilità di ignorare l’interesse generale e i doveri nei confronti della comunità. È questa la realtà descritta dai Paradise papers. Un piccolo numero di imprese o di individui si riserva la facoltà di accedere all’esatto contrario dell’economia aperta e competitiva che da tempo va esaltando: un sistema chiuso e protetto, all’interno del quale ha la garanzia di non giocare con le stesse regole imposte a tutti gli altri. Un mondo in cui sempre le stesse persone sono sicure di vincere può anche avere una parvenza di legittimità, ma rimane condannato a subire in eterno le ingiustizie e le illegalità. Due piste difficili 

Per porre fine a questa situazione sarà necessario spezzare le due molle che l’alimentano: l’avidità senza limiti di alcuni e l’inazione da parte degli stati. La seconda pista non è più semplice da seguire della prima. Come emerge dall’inchiesta, alcuni leader politici occidentali hanno, chi più chi meno, valide ragioni per non muoversi in questa direzione. Alla Casa Bianca di Donald Trump, che è circondato da tredici consiglieri e due ministri coinvolti dalle rivelazioni, evitare di pagare le tasse rappresenta una cultura per cui il più scaltro è chi evita di contribuire al funzionamento della collettività. Nel governo di Justin Trudeau un’ipocrisia di fondo consente di far coesistere le buone intenzioni del primo ministro canadese con la presenza di un caro amico, ex tesoriere del suo partito e grande esperto di finanza offshore. In Francia la storia recente ha addirittura mostrato come sia possibile sopprimere un’imposta sul patrimonio paventando il rischio di una fuga di capitali, senza però aggredire con forza sufficiente i paradisi fiscali che alimentano la tentazione di evasione. È a tutte queste forme di compiacenza che occorrerà rinunciare se si vuole mettere fine a pratiche che conducono le democrazie alla rovina.