domenica 19 novembre 2017

internazionale 11.18.2017
Scherzi del cervello 
Dimenticare per quale motivo siamo entrati in una stanza, ridere per una brutta notizia, non riuscire a dare un significato alle parole: sembrano comportamenti senza senso, ma in realtà sono il frutto di inciampi normali dell’attività cerebrale
di Helen Thomson, New Scientist, Regno Unito

Perché dimentichiamo il motivo per cui siamo entrati in una stanza? 
Questo vuoto di memoria è così comune da avere perfino un nome: doorway efect, “effetto della porta”. Affascinati da quest’esperienza frustrante, Gabriel Radvansky e i suoi colleghi dell’università dell’Indiana hanno organizzato un esperimento in cui chiedevano ai volontari di muoversi in un ambiente virtuale. Di tanto in tanto i partecipanti dovevano raccogliere un oggetto e poi farlo sparire dalla loro vista. Dopo un po’ gli veniva chiesto cosa avessero preso. Impiegavano più tempo a ricordare l’oggetto ed erano meno precisi nel descriverlo se dopo averlo raccolto avevano cambiato stanza. Radvansky ha ripetuto l’esperimento in stanze reali e ha riscontrato lo stesso comportamento: la capacità delle persone di ricordare diminuisce dopo che hanno oltrepassato la soglia di una porta rispetto a quando hanno coperto la stessa distanza rimanendo nello stesso ambiente. Perché? Mentre ci muoviamo nel mondo, il nostro cervello costruisce quello che Radvansky chiama un “modello di evento” provvisorio dell’ambiente in cui siamo e di quello che pensiamo e facciamo in quel posto. Immagazzinare diversi modelli contemporaneamente è uno spreco di energie. “Un nuovo ambiente può richiedere abilità diverse, perciò è meglio concentrare la memoria su quello in cui ci troviamo al momento”, spiega lo studioso. A quanto pare varcare una soglia ci spinge a sostituire un modello con un altro. Questo cambiamento fa aumentare la probabilità di dimenticare quello che è successo nella stanza in cui eravamo prima. E non sono solo le porte a innescare questo cambiamento: può succedere anche quando passiamo dalla campagna alla città, dalla strada principale a un vicolo o da un piano a quello sottostante. 
Perché dei rumori casuali si trasformano in parole? 
lo sto solo immaginando o la mia stampante dice veramente “piedi freddi, piedi freddi”, ogni volta che si accende? Questa strana percezione ha a che fare con qualcosa di fondamentale nel modo in cui il cervello crea la nostra realtà. Il mondo che ci circonda ci bombarda di informazioni sensoriali. Il cervello non elabora ogni minimo dettaglio – sarebbe uno spreco di energie – ma si limita a fare ipotesi ragionevoli. Per quanto riguarda i suoni, la corteccia uditiva primaria elabora gli elementi basilari, come la tonalità, mentre le regioni superiori del cervello analizzano tratti più complessi come la melodia e il significato. Ma invece di elaborare tutti i dettagli, il cervello prende gli elementi di base e li combina con i nostri ricordi ed esperienze per prevedere quello che probabilmente sentiremo. Questa previsione arriva ai lobi frontali, che la sottopongono a una specie di controllo della realtà. Se il risultato è sensato, percepiamo consciamente quel suono. Altrimenti le informazioni sono spedite alle regioni superiori, che correggono le previsioni. A causa del modo in cui il cervello riempie questi vuoti, il neuroscienziato Anil seth dell’università del Sussex, nel regno Unito, definisce la nostra realtà “un’allucinazione controllata, tenuta a freno dai nostri sensi”. Tanto che, quando qualcosa non funziona e le previsioni del cervello non sono più sotto controllo, possiamo avere delle allucinazioni. Per quanto riguarda la mia stampante che si lamenta dei piedi freddi, dev’essere successo che un rumore casuale ha ricordato al mio cervello le parole “piedi freddi”, forse per via della tonalità o del ritmo, o forse perché in quel momento avevo freddo ai piedi. Qualunque sia stato il motivo, il mio lobo frontale l’ha considerata un’ipotesi accettabile e l’ha fatta arrivare alla mia coscienza. e una volta che il chiacchiericcio della mia stampante ha raggiunto il livello della coscienza, il cervello ha avuto ancora più informazioni su cui basare le sue ipotesi future. e ora è diicile per me non sentire quelle parole ogni volta che la stampante si accende. Potete provarci anche voi. Provate ad ascoltare un discorso a onde sinusoidali, un’alterazione sonora del parlato: sentirete solo una serie di beep e di fischi. Ma se ascoltate la registrazione originale e poi tornate alla versione alterata, improvvisamente sarete in grado di capire cosa sta dicendo la voce. Non è cambiato niente, tranne le aspettative del vostro cervello, che ora ha più informazioni per creare la vostra realtà. 
Perché se guardiamo a lungo una parola perde significato? 
Caffè. Caffè. Caffè. Se leggiamo tante volte una parola, non solo ci sembra che sia scritta in modo strano, ma comincia a perdere significato. Questa buffa sensazione è stata descritta per la prima volta nel 1907 dalle psicologhe Elizabeth Severance e Margaret Washburn: se fissiamo lo sguardo troppo a lungo su una parola stampata “comincerà ad assumere un aspetto curioso e alieno, a volte fino a sembrare una parola di un’altra lingua o una semplice sequenza di lettere”. In seguito lo psicologo Leon Jakobovits James ha dato un nome a questo fenomeno: sazietà semantica. Si pensa che questo ben studiato scherzo del cervello sia la conseguenza di un “affaticamento cellulare”. Quando si attiva, una cellula cerebrale usa energia. Di solito può attivarsi una seconda volta subito dopo, ma se continua a farlo alla fine si stanca e deve prendersi una piccola pausa. Quando leggiamo ripetutamente una parola, le cellule cerebrali addette a esaminarne tutti gli aspetti – forma, significato e associazioni – si stancano. E quindi la parola perde significato. Per dimostrare questa teoria, Jakobovits James e i suoi colleghi hanno chiesto a un gruppo di studenti di leggere e pronunciare una serie di parole e numeri due o tre volte al secondo per quindici secondi. La fase successiva consisteva nel chiedere ai soggetti di valutare quanto fossero significativi su una determinata scala. La richiesta veniva fatta subito o dopo che avevano letto o pronunciato una parola o un numero diverso. È emerso che dopo la ripetizione le parole perdevano di significato, ma lo riacquistavano se c’era stata una breve interruzione. Con alcune parole quest’illusione si crea più facilmente. Parole con una maggiore carica emotiva come “massacro”, per esempio, possono impiegare più tempo a sembrarci strane perché prima di stancarsi il nostro cervello esamina tutte le associazioni che attribuisce a quel termine. Mentre per una parola con una minore carica emotiva, come “caffè”, possono bastare poche ripetizioni per trasformarla in una parola priva di senso. 
Come è possibile che dimentichiamo all’improvviso il pin del bancomat? 
È una sequenza di pochi numeri che usiamo automaticamente da anni. e poi un giorno siamo davanti al bancomat e sbagliamo il pin. Tanto per peggiorare le cose, più ci sforziamo di ricordare e più quei numeri magici ci sfuggono. Come facciamo a dimenticare una cosa così familiare? Gli scienziati ritengono che i nostri pensieri vivano nelle sinapsi, i punti di contatto tra neuroni che servono per propagare gli impulsi nervosi. Ogni attivazione rinforza il legame tra la coppia di neuroni coinvolta, rendendo più probabile che qualsiasi ulteriore attività del primo stimoli anche il secondo. Per esempio, se pensiamo all’immagine di un fiore e al suo nome, la rete di neuroni responsabile di quei due concetti si attiverà e si rafforzerà. Quando in seguito ricordiamo l’immagine, è più probabile che contemporaneamente ci venga in mente il nome del fiore. Questo è il modo in cui immagazziniamo le informazioni a lungo termine, compreso il nostro pin. A parte il caso di malattie gravi, i motivi principali per cui la memoria ci tradisce sono due. Se non viene attivato spesso, per esempio richiamando alla mente un ricordo, il collegamento tra i neuroni con il passare del tempo s’indebolisce. Forse è per questo che ogni tanto il nostro pin ci sfugge di mente, perché non lo usiamo da un po’. L’altro motivo è l’interferenza. Quando lo richiamiamo alla mente, un ricordo diventa malleabile e predisposto al cambiamento. Nel caso del pin dimenticato, può darsi che abbiamo usato quel numero in un altro modo, per esempio rimescolando le cifre per creare una nuova password, che ha sostituito il numero originale nella nostra mente. o forse abbiamo appena ricevuto il pin di un’altra carta. Il ricordo del pin originario è stato contaminato dalla nuova informazione. Anche il nostro stato mentale può inluire: lo stress, in particolare, inonda il cervello di sostanze chimiche che disturbano la memoria. ma è improbabile che un numero che usate spesso come il vostro pin sia completamente sparito dalla memoria, quindi aspettate e ritentate dopo un po’ di tempo. 
Se non funziona, provate a ricordarlo usando la memoria visiva, per esempio il movimento che fate con il dito per scriverlo sulla tastiera. Alcuni studi hanno dimostrato che associare le cose che non vogliamo dimenticare alle immagini rende più facile ricordarle. 
Perché la maniglia della porta ti sorride?
Qualche tempo fa la principessa Kate Middleton è apparsa su una caramella di gelatina, e Gesù è comparso su tutto, da una parete imbiancata male a un vasetto di marmellata. la tendenza a vedere facce su oggetti inanimati è un fenomeno ben noto che si chiama pareidolia. Probabilmente è capitato anche a voi di vederne una sulla luna. Succede perfino alle scimmie. ma perché? Il nostro cervello è predisposto a vedere facce fin dall’inizio. I feti riconoscono la forma di un viso già da quando sono nell’utero. Gli esperimenti con le ecograie hanno dimostrato che si voltano verso una serie di punti luminosi che somigliano a una faccia proiettati sulla pancia della madre, mentre ignorano altre forme. Per studiare la pareidolia, Kang Lee dell’università di toronto, in Canada, ha osservato l’attività cerebrale di volontari che guardavano schermi statici, dicendogli che metà delle volte sarebbe apparsa una faccia. Anche se non era vero, un terzo delle volte i partecipanti dicevano di averla vista. Mentre eseguivano quel compito, le regioni anteriori e posteriori del cervello addette alla memoria, alla programmazione e alle decisioni sembravano provocare l’attivazione della circonvoluzione fusiforme dell’emisfero cerebrale destro, la zona responsabile del riconoscimento facciale. Sappiamo che il cervello formula ipotesi su quello che potremmo vedere in base alle nostre conoscenze precedenti. l’attivazione della circonvoluzione fusiforme fa pensare che l’aspettativa di vedere una faccia spinga il cervello a crearne una anche con un minimo di informazioni. 
Ma perché vediamo facce anche quando non ce l’aspettiamo? Dal punto di vista evolutivo è normale che il cervello sia sempre all’erta in questo senso. Dobbiamo essere in grado di individuarne una e di comprenderne le intenzioni – capire se si tratta di un amico o di un nemico – per poter agire di conseguenza. Il fatto che di tanto in tanto esageriamo e vediamo un mostro urlante su un peperone o la madonna in un pezzo di formaggio grigliato è un piccolo prezzo da pagare per riuscire a individuare un viso nascosto tra gli alberi. 
Cosa provoca i lapsus freudiani? 
Nel 2012 Rob Morrison, conduttore del telegiornale della cbs, definì il principe William “the douche” (il coglione) di Cambridge, invece che “the duke”, il duca. era solo un lapsus o rivelava la sua opinione personale sul principe? Freud avrebbe detto che quel lapsus aveva lasciato trasparire il pensiero di Morrison, ma potrebbe anche esserci una spiegazione più indulgente. Quando parliamo, il cervello chiama in causa numerose aree: le reti che prendono in considerazione tutte le possibili scelte di parole, quelle che elaborano i signiicati e quelle che ci permettono di formulare i singoli suoni. ma trovandosi a gestire tutte queste attività, a volte commette degli errori, dimenticandosi di eliminare una scelta alternativa o attivando un suono al posto di un altro. A volte salta fuori una parola del tutto fuori luogo, come quando chiamiamo il nostro capo “mamma”. Può succedere perché la parola ha qualcosa in comune con quella che volevamo dire: forse il capo somiglia a nostra madre o entrambi i nomi evocano l’idea di una figura autorevole. mentre esamina tutte queste associazioni per trovare la parola giusta, ogni tanto il cervello si sbaglia. “continuavo a parlare ai miei studenti di tuono ed enfasi invece che di tono ed enfasi”, racconta Michael Motley, professore emerito di comunicazione dell’università della California a Davis. Nella maggior parte dei casi, spiega, gli errori linguistici che commettiamo non sono di tipo freudiano. “Sono semplici conflitti tra possibili scelte”. Detto questo, l’idea di Freud non è infondata. In un esperimento del 1979 l’équipe di Motley chiese a due gruppi di uomini eterosessuali di leggere a mente una serie di coppie di parole fino a quando non suonava un campanello. A quel punto dovevano leggerle a voce alta. Un gruppo si trovava di fronte lo stesso Motley, che all’epoca darlo usando la memoria visiva, per esempio il movimento che fate con il dito per scriverlo sulla tastiera. Alcuni studi hanno dimostrato che associare le cose che non vogliamo dimenticare alle immagini rende più facile ricordarle. 
Perché la maniglia della porta ti sorride? 
Qualche tempo fa la principessa Kate Middleton è apparsa su una caramella di gelatina, e Gesù è comparso su tutto, da una parete imbiancata male a un vasetto di marmellata. La tendenza a vedere facce su oggetti inanimati è un fenomeno ben noto che si chiama pareidolia. Probabilmente è capitato anche a voi di vederne una sulla luna. Succede perfino alle scimmie. Ma perché? Il nostro cervello è predisposto a vedere facce in dall’inizio. I feti riconoscono la forma di un viso già da quando sono nell’utero. Gli esperimenti con le ecografie hanno dimostrato che si voltano verso una serie di punti luminosi che somigliano a una faccia proiettati sulla pancia della madre, mentre ignorano altre forme. Per studiare la pareidolia, Kang Lee dell’università di Toronto, in Canada, ha osservato l’attività cerebrale di volontari che guardavano schermi statici, dicendogli che metà delle volte sarebbe apparsa una faccia. Anche se non era vero, un terzo delle volte i partecipanti dicevano di averla vista. mentre eseguivano quel compito, le regioni anteriori e posteriori del cervello addette alla memoria, alla programmazione e alle decisioni sembravano provocare l’attivazione della circonvoluzione fusiforme dell’emisfero cerebrale destro, la zona responsabile del riconoscimento facciale. Sappiamo che il cervello formula ipotesi su quello che potremmo vedere in base alle nostre conoscenze precedenti. l’attivazione della circonvoluzione fusiforme fa pensare che l’aspettativa di vedere una faccia spinga il cervello a crearne una anche con un minimo di informazioni. ma perché vediamo facce anche quanera un uomo di mezza età, un altro una bella ragazza vestita in modo provocante. “Volevamo influenzare i loro possibili pensieri”, dice Motley. Alla fine scoprirono che tutti gli uomini commettevano lo stesso numero di errori, ma erano errori di tipo diverso. Quelli accolti dalla ragazza commettevano più lapsus di tipo sessuale. Perciò sembra proprio che ogni tanto i nostri pensieri influiscano sugli errori linguistici. Forse anche il lapsus di Morrison era uno di quelli. 
Perché la nostra voce registrata non ci piace? 
Quando parliamo forte, sentiamo la nostra voce in due modi. Il primo è come quello in cui ci sentono gli altri: attraverso le onde sonore che fanno vibrare i timpani. l’altro è tramite le vibrazioni che partono dalle nostre corde vocali e viaggiano attraverso il cranio fino ai timpani. entrambe queste vibrazioni si trasformano in segnali nervosi che vengono combinati e poi elaborati dal cervello per darci la sensazione di come suona la nostra voce. Ma mentre viaggiano attraverso il cranio, le vibrazioni che provengono dalle corde vocali si difondono, la loro frequenza si abbassa e crea l’impressione di un tono più basso. Quando ascoltiamo la nostra voce registrata, sentiamo il suo vero tono, che non è quello che abbiamo sempre sentito. È così che molti di noi si rendono conto di avere una voce più stridula di quanto pensassero. 
Perché ridiamo per una brutta notizia? 
A volte è piuttosto imbarazzante. Nel bel mezzo di una lite, o quando qualcuno ci dà una notizia terribile, l’unica cosa che riusciamo a fare è metterci a ridere. Un possibile motivo di questa apparente gaffe è che il riso svolge la funzione di collante sociale: comunica alle persone intorno a noi che ci piacciono e che la pensiamo come loro. Perciò il bisogno di ridere durante un litigio potrebbe essere semplicemente un modo istintivo per sdrammatizzare la situazione. 
Da uno studio condotto sui macachi è emerso che quando si sentono minacciati da un partner dominante, gli animali giovani spesso ridono o sorridono. Questa reazione è accompagnata da un comportamento arrendevole, che è stato interpretato come un tentativo di evitare il conflitto. Vilayanur Subramanian Ramachandran, neuroscienziato dell’università della California a san Diego, ha un’altra spiegazione per la risata nervosa. “Quel suono ritmico si è evoluto per avvertire quelli che condividono i nostri geni di non sprecare risorse preziose perché si tratta di un falso allarme”, scrive nel suo libro A brief tour of human consciousness. Forse la risata nervosa è un meccanismo protettivo, un modo per convincere noi stessi e gli altri che una situazione non è poi così brutta come sembra o per difenderci dall’ansia che ci provoca una cattiva notizia e impedire che ci indebolisca troppo. Quindi la prossima volta che ridete nel momento sbagliato non preoccupatevi, non siete una persona senza cuore. Prendetevela con il vostro cervello troppo protettivo. 
Come fa il parlato ripetuto a diventare una canzone? 
Nel 1995 la psicologa Diana Deutsch stava controllando la sua introduzione parlata a un cd sulle illusioni musicali quando lasciò per sbaglio che la registrazione della frase “sometimes behave so strangely” (a volte si comportano in modo così strano) continuasse a ripetersi. “Quando l’ho sentita stavo lavorando su qualcos’altro”, dice, “e mi sono chiesta perché sembrava cantata piuttosto che parlata”. In seguito Deutsch, che insegna all’università della California a san Diego, veriicò quell’illusione facendo ascoltare a gruppi di persone la stessa frase dieci volte. La frase ripetuta a volte rimaneva la stessa, in altri casi cambiava l’intonazione e in altri ancora aveva le sillabe rimescolate. Solo quando rimaneva uguale dopo un po’ sembrava che fosse cantata. Per verificare questo effetto, Deutsch chiese a un altro gruppo di ascoltarla dieci volte e poi di pronunciarla. La combinazione delle varie registrazioni dimostrò che cantavano le parole con lo stesso ritmo e la stessa intonazione. secondo Deutsch, dato che l’intonazione non è un tratto fondamentale della lingua inglese, le aree del cervello che se ne occupano sono parzialmente inibite, forse per permettere a chi ascolta di concentrarsi su aspetti più essenziali come il suono delle vocali e il significato. ma quando il parlato si ripete, quelle aree del cervello si sbloccano, perciò l’intonazione viene evidenziata e l’intera frase sembra più musicale. Anche se questa illusione funziona con tutte le frasi, il particolare esempio di Deutsch – “sometimes behave so strangely” – sembra funzionare meglio di altri. “Credo che sia perché ha lo stesso tono delle campane del Big Ben e il ritmo della canzone Rudolph la renna dal naso rosso”, dice. “Quando li metti insieme, la mente immagina che sia una canzone e non una frase parlata”. 

Da sapere 
Pensieri profondi

“Vi siete mai accorti che a volte arrivate a casa in macchina senza aver prestato nessuna attenzione al tragitto? È un comportamento normale che si veriica quando il cervello va in modalità ‘pilota automatico’, e che alcuni studi recenti hanno confermato”, scrive New Scientist. “Quando la nostra mente vaga, entra in una modalità che ci permette di portare a termine dei compiti in modo veloce ed eicace anche senza avere pensieri coscienti”. La modalità pilota automatico dipende dalla cosiddetta rete della modalità di default, distribuita nelle regioni corticali e sottocorticali, che si attivano quando non prestiamo attenzione a nessun compito specifico. I ricercatori dell’università della California a Los Angeles hanno dimostrato il legame tra la privazione di sonno e il rallentamento dell’attività cerebrale. Nei volontari che avevano dormito poco i neuroni rispondevano meno velocemente alle informazioni visive: “Dormire poco ha lo stesso effetto sul nostro cervello dell’abuso di alcol”, conclude New Scientist.