Il Sole Domenica 26.11.17
alle origini della politica
Poteri ispirati dal peccato
I teologi del Medioevo si interrogarono a lungo
su Adamo ed Eva, e sulla necessità di leggi e strutture sociali dopo la cacciata dall’Eden
di Massimo Firpo
Narrata
all’inizio del Genesi, la disobbedienza di Adamo ed Eva nel mangiare il
frutto proibito assunse un significato cruciale nel cristianesimo, che
individuò in essa il peccato originale, evento fondante del percorso di
redenzione del genere umano dalla perfezione edenica alla caduta, dal
vecchio al nuovo Testamento. Ma per secoli i teologi ne sottolinearono
anche il ruolo decisivo nella storia terrena dell’umanità, perché
proprio dalla corruzione provocata dalla caduta avrebbero avuto origine
la proprietà, il diritto, l’esigenza di norme, poteri, istituzioni,
strutture sociali chiamate a mettere un freno alla violenza, a regolare i
conflitti, a reprimere i delitti, a mantenere la pace: ebbe cioè
origine la storia, e con essa la politica.
Fu su questo
presupposto che sant’Agostino costruì il grandioso disegno del De
civitate Dei, fondato sulla dicotomia tra città divina e città terrena,
affrontando specificamente la questione del peccato originale nei
commenti al Genesi, in cui spiegava come esso avesse reso «inevitabile
la jacquerie di tutte le debolezze, le passioni, le violenze e le
sopraffazioni che assediano la natura umana e che fanno di ogni
individuo al tempo stesso uno schiavo e un tiranno», uno schiavo del suo
brutale egoismo e un tiranno nell’imporlo agli altri. Oltre a esporlo
alla fame, alla fatica, alla malattia, alla morte, il suo disordine
ontologico lo rende incapace «di perseguire il bene, che pure in certa
misura vorrebbe». Per questo egli ha bisogno di un potere che freni le
forze distruttive del male che è in lui e imponga le norme di una
convivenza civile, che nascono quindi da quel male ma al tempo stesso ne
costituiscono un rimedio. Ha bisogno per esempio di governare quella
concupiscenza che secondo Agostino ha trascinato la riproduzione nel
gorgo di una sessualità aggressiva e viziosa, della quale la famiglia
rappresenta un pur precario strumento di controllo e regolamentazione.
Molte
del resto erano le inquietanti domande che si collegavano a quella
primigenia rottura. Perché Adamo ed Eva, pur creati a immagine e
somiglianza di Dio, avevano peccato? Perché ai loro figli e discendenti
era stata addebitata una colpa di cui non erano responsabili? Tale
corruzione ereditaria era totale e assoluta o qualcosa di buono era
restato, consentendo quindi agli uomini l’esercizio del libero arbitrio e
le scelte morali che ne conseguivano, oppure le loro possibilità di
salvarsi dipendevano solo dagli insondabili decreti della
predestinazione? E quale sarebbe stata la società umana se i primi
progenitori non avessero mangiato il frutto proibito? «Quando Adamo
zappava e Eva filava dov’erano i nobili?», si chiedevano i contadini
inglesi in rivolta nel ’300. Quando e perché era nata la servitù? Ed era
lecito combatterla e liberarsene? Quale era il fondamento del diritto
di coercizione? Quesiti tutt’altro che oziosi, tali da suggerire una
ricostruzione alternativa – “controfattuale” – della storia umana, volta
a recuperare una razionalità perduta e a indicare una strada da
seguire, una meta cui tendere, un obiettivo da raggiungere.
Su
tali quesiti, spesso frammisti alle più varie leggende, si interrogarono
grandi teologi e canonisti del Medioevo, consapevoli «del nesso
produttivo tra immaginazione e ragione» che essi generavano. Di essi, e
dell’implicito realismo politico che ne conseguiva, la ricerca di
Briguglia ricostruisce con analisi sottili i percorsi tutt’altro che
univoci, inoltrandosi con dotta perizia in una selva oscura di Summae e
trattati che affrontavano quel garbuglio di problemi. Dalla lucida
«fenomenologia del potere» di Agostino si passa alle distinzioni
scolastiche nel definire le origini, gli ambiti di legittimità, le forme
di esercizio del potere, e alla raffinata riflessione di san Tommaso,
secondo il quale già nell’Eden esistevano differenze tra le creature:
tra uomo e donna anzitutto, tra complessioni fisiche diverse, tra gradi
disomogenei di bellezza, santità, attitudini, capacità. Differenze che
non inficiavano la libertà di ciascuno (anzi, nascevano proprio da
essa), ma creavano distinzioni e con ciò davano vita a spazi di azione
politica tali da smentire che quest’ultima fosse solo una conseguenza
del peccato originale. Anche il mondo edenico, insomma, sarebbe stato un
mondo da governare e governato, e pertanto «la politica non è frutto
del peccato», ma scaturisce da un ordine divino delle cose. Il fatto che
ogni autorità, ogni istituzione e forma di governo, ogni diritto di
punire, ogni dovere di obbedienza derivi dalla corruzione e dal
disordine prodotti dal peccato originale, non significa legittimare la
tirannia, poiché nella tutela dell’ordine sociale il potere politico
deve pur sempre rispettare criteri di razionalità. Anch’esso nasce da
Dio, insegna san Paolo (Rom. XIII, 1). Per questo gli uomini devono
accettarlo non solo per paura o mancanza di libertà, ma «con un’adesione
interiore», cui solo in rari casi di iniqua tirannia è lecito
sottrarsi.
Ci si poteva quindi chiedere se fosse possibile
restaurare la politica che aveva retto gli uomini prima della caduta,
abbandonare il diritto positivo per ristabilire nella sua pienezza il
diritto naturale. Secondo i teologi francescani, per esempio, la
vocazione alla povertà del loro ordine era un modo per tornare al
primitivo stato di innocenza di cui anche Cristo e gli apostoli erano
stati un esempio. «Idee incendiarie», a ben vedere, dal momento che
davano vita a una contestazione radicale della Chiesa come corpo
giuridico e struttura di potere quale si era venuta costituendo in
Occidente. E ancor più incendiarie furono quelle espresse a metà
Trecento da John Wyclif, che dalla restaurazione della grazia per
tramite della fede giungeva alla definizione della vera Chiesa come
comunità dei predestinati, dalla quale anche il papa poteva essere
escluso. Idee poi riprese dalla Riforma protestante, mentre le grandi
scoperte geografiche imponevano di interrogarsi sulle misteriose origini
dei nuovi popoli al di là degli oceani, che sembravano mandare in pezzi
la monogenesi biblica. E infine Robert Filmer che nel suo trattato
Patriarca, o del potere naturale dei re, apparso postumo nel 1680,
affermava contro Francisco Suarez e la seconda scolastica l’idea di un
Adamo che non era stato solo padre ma anche re della sua discendenza, e
quindi archetipo dell’intangibile diritto divino dei sovrani. Fu contro
di lui che John Locke scrisse il primo dei Due trattati sul governo, con
i quali – sviluppando il contrattualismo hobbesiano – avrebbe costruito
le fondamenta di un potere assoluto che scaturiva dal basso e non
proveniva più da Dio. L’era di Adamo ed Eva era ormai finita per sempre.
Gianluca Briguglia, Stato d’innocenza. Adamo, Eva e la filosofia politica medievale , Carocci, Roma, pagg. 158, € 17