domenica 26 novembre 2017

Il Sole Domenica 26.11.17
A colloquio con Bina Agarwal
Il coraggio delle donne indiane
di Eliana Di Caro

L’economista offre una fotografia della condizione femminile del suo Paese: ci sono stati progressi dall’indipendenza, ma restano forti disuguaglianze, il pericolo delle violenze e un netto divario Nord-Sud
«Avevo 15 anni quando ho fatto il mio primo discorso sui diritti delle donne. Nel villaggio di mia nonna, nel cuore del Rajasthan, avevo notato che le ragazze erano trattate in modo diverso dai ragazzi (io no, perché ero un’ospite speciale...). E così tornata a Delhi, un giorno a scuola, dove dovevamo fare un intervento, mentre le altre studentesse parlarono di musica o di come preparare la tavola, io sottolineai l’importanza del voto femminile»: sorride Bina Agarwal, che oggi ha 66 anni, ricordando quel momento della sua adolescenza. Economista dello sviluppo e dell’ambiente all’università di Manchester, in precedenza docente sin dal 1988 all’ateneo della sua città, è stata appena premiata dalla Fondazione Balzan per gli studi di genere nelle comunità rurali povere dell’India e del Sud del mondo. Le sue ricerche condotte a partire dagli anni 70 offrono una fotografia della condizione delle donne indiane.
L’interesse per questo tema è nato anche grazie agli stimoli della figura paterna, ingegnere delle telecomunicazioni: «A 30 anni inventò la tastiera in hindi per la macchina da scrivere e organizzò i primi Giochi per l’India indipendente - ricorda con fierezza - ma soprattutto ha incoraggiato le figlie, le nipoti e le donne della famiglia allargata a studiare. Il Rajasthan (nel Nord Ovest del Paese, ndr) è un’area molto chiusa e conservatrice, non tutte le ragazze andavano a scuola o lavoravano. Mia madre, per esempio, avrebbe voluto fare il medico ma non era permesso».
Bina invece studia, le interessa l’economia come scienza sociale che punta a ridurre le disuguaglianze strutturali e a temperare la povertà; si sofferma sull’influenza della tecnologia sull’agricoltura e analizza il contributo delle donne al lavoro agricolo (in Asia il 40% dei contadini è donna), il loro diritto alla terra e alla proprietà. L’attività femminile nei campi è sottostimata, denuncia la studiosa, non si tiene conto di tutto quel che si fa in casa - la cura del bestiame, la raccolta del legno - che rimane invisibile, non remunerato e quasi del tutto escluso dalle statistiche. Infatti se si dovessero indicare le lavoratrici strettamente sulla base di una busta paga, la partecipazione al lavoro rurale si fermerebbe al 17,4%, ma considerando altri fattori come la produzione domestica e quella di coloro che si dichiarano disoccupate si arriva al 64,8 per cento.
Ampliando la visuale, ci sono stati dei progressi nel Paese, negli ultimi anni, e Agarwal li descrive con impeto: «Da quando l’India è indipendente, cioè dal 1947, le cose sono molto cambiate. Oggi le ragazze possono andare a scuola, al pari dei ragazzi, non importa se vengono da famiglie ricche o povere, conservatrici o meno: quasi tutti i genitori fanno studiare i figli. Molte donne non solo lavorano, ma possono scegliere il tipo di lavoro. Quando mi sono laureata le possibilità erano limitate: insegnante, economista, medico che per la classe media era un buon approdo. Oggi ci sono giornaliste, esponenti di organizzazioni non-governative, imprenditrici, avvocatesse, politiche: nel 1993 è stata approvata una legge secondo cui un terzo dell’amministrazione dei villaggi doveva essere costituito da donne».
Allo stesso modo, l’economista racconta l’altra faccia della medaglia, i passi ancora da compiere in un Paese in cui l’eco degli episodi di violenza contro le donne spesso varca i confini nazionali per la loro efferatezza. «Prima di tutto è ancora forte l’ineguaglianza tra donne e uomini: sono di più le prime a lasciare la scuola superiore; c’è un’alta percentuale di ragazze che si sposano senza aver compiuto 18 anni, e un’altrettanto alta percentuale di giovani che muoiono di parto. Ancora oggi, nell’India del nord, è molto diffuso l’aborto selettivo ai danni delle bambine. Tante studentesse, alla fine delle scuole superiori, vorrebbero andare all’università, ma questo comporterebbe percorrere lunghe distanze o frequentare un ateneo misto e non tutte le comunità o i genitori lo consentono. Poi ci sono i problemi legati alla “modernità”e alla urbanizzazione, come le molestie sessuali sul luogo di lavoro o la mancanza di sicurezza per strada o alla guida di notte. Paradossalmente 20 anni fa potevo tornare a casa in auto molto tardi di sera a Delhi senza patemi: oggi non lo farei. È un fenomeno esploso negli ultimi 10-12 anni».
L’India, non è mai banale ricordarlo, è un Paese di 1 miliardo e oltre 300 milioni di abitanti, le regioni sono tante e le differenze tra l’una e l’altra anche. Nel Sud gli indicatori sociali disegnano una macro area più avanzata: «Nel Kerala, ad esempio, il 100% delle persone sa leggere; tutte le donne hanno finito le scuole, molte vanno all’università e lavorano. Non c’è paragone con il Nord-Ovest. Le molestie sessuali e la sicurezza, invece, accomunano tutta l’India».
Sul tema, cruciale, della rappresentanza politica e di come le donne potrebbero incidere in termini legislativi, la risposta di Agarwal è articolata. Le quote, si è già detto, a livello locale ci sono e simbolicamente è importante, ma per l’economista il punto è «se le elette fanno la differenza per mettere in atto politiche che portino benefici: sostengono o no gli interessi delle donne? Non è così ovvio. Per esempio le madri, anche nel Punjab (una regione ricca), tuttora cucinano con combustibile tossico, usando stufe altamente inquinanti, eppure chi era stata eletta nei vari villaggi non si era occupata di questo problema, così come non aveva fatto del diritto alla terra un tema di discussione. È importante dunque che le azioni delle candidate siano collegate alle priorità delle donne. In Parlamento le quote rosa servono perché senza di esse non ci saranno protagoniste che dimostrano che le donne possono essere delle leader migliori degli uomini».
Vuol dire che siamo ancora lontani dal raggiungimento dell’uguaglianza, anche economica e professionale? È un sogno? «Non è un sogno. È una possibilità. Si deve puntare a un concetto più ampio di uguaglianza, quella razziale e di classe, problemi che stanno crescendo a livello globale, è necessaria un’azione che contrasti questo fenomeno. Ma penso che la direzione del cambiamento per le donne sia giusta, sono ottimista».