Il Sole Domenica 19.11.17
Verso il 25 novembre
Il lungo silenzio che ferisce le donne
La
denuncia di violenze è stata messa a tacere nel corso della storia Solo
da poco ha ottenuto uno spazio pubblico e un accenno di ascolto
di Elisabetta Rasy
Di
fronte al cupo e regolare rimbombo degli omicidi, quello che si chiama
sbrigativamente femminicidio, cioè vite femminili spezzate con violenza e
furore da persone contigue e non da criminali occasionali, spesso si
tende a dire che si tratta della reazione dei maschi sviliti di fronte
al nuovo potere e alla nuova libertà femminile che essi, i maschi
impauriti, non sarebbero in grado di accettare. Ma le cose stanno
davvero così? Basta uno sguardo alla cronaca per rendersi conto che la
violenza contro le donne è orizzontale: dagli stupri indiani a quelli
dell’Isis, dalle bambine forzate al matrimonio alle punizioni corporali
per le colpevoli di adulterio secondo la legge islamica, dalle pratiche
di aborto selettivo - selettivo cioè dei feti femminili – alle figlie
femmine chiuse in orfanotrofi lager in Cina e ai dati dell’obitorio di
Ciudad Suarez con le migliaia di ragazze brutalizzate e uccise, è
impossibile non rendersi conto che la mappa delle violenze non conosce
confini e riguarda il mondo occidentale evoluto come quelle aree più
remote dove lo sviluppo economico e sociale fatica ad arrivare. E basta
poi dare uno sguardo al passato, ai libri di storia e di letteratura,
per capire che la violenza femminile è anche verticale, comincia dal
mito, per esempio il sacrificio di Dafne per sfuggire ad Apollo, come lo
racconta magnificamente Ovidio o come superbamente l’ha scolpito
Bernini: uno stupro fatto ad arte, potremmo definirlo.
Poiché sono
molti gli equivoci in materia, vorrei insistere contro l’idea che possa
esserci una sorta di prezzo da pagare per la (ancora poca) libertà
conquistata: Yara Gambirasio aveva tredici anni quando è stata
barbaramente aggredita e lasciata morire, l’unica libertà che aveva era
di andare a far ginnastica in palestra. Proprio questo scampolo di
libertà, questa libertà da bambina, le è stato fatale. Fortuna Loffredo,
del derelitto Parco Verde di Caivano, aveva sei anni quando è stata
buttata dal settimo piano e da un anno veniva regolarmente abusata:
aveva la libertà che hanno le bambine di cui nessuno si occupa e che
possono diventare il giocattolo della crudeltà del mondo. Pure a
qualcuno viene ancora in mente, vedi il parroco del quartiere San Donato
di Bologna, di mettere in relazione la violenza maschile con la libertà
delle donne che spesso non è altro che fiducia, voglia di allegria.
(Chissà se quel parroco tanto impegnato su Facebook ha avuto il tempo di
leggere la notizia delle ventisei giovani nigeriane trovate morte su un
gommone partito dalle coste libiche verso l’Italia, sui corpi delle
quali sono stati trovati lividi, segni di percosse, ossa rotte, forse
brutalizzate prima della partenza o forse dopo, per lasciarle indietro
come merce avariata al momento del tentativo di salvataggio: sono state
sventate?). E, dal momento che è il tema del giorno, viene in mente a
qualcun altro, una bellissima e ammiratissima attrice, di richiamare
alla prudenza (prudenza? e di chi verso chi?) e di invitare a non
confondere avances e molestie, quando anche una adolescente sa che le
avances sono tali quando lei le gradisce e quando c’è reciprocità nel
desiderio e smettono immediatamente di esserlo quando invece sono atti
subiti.
Il caso Weinstein ha un merito: ha messo in campo, oltre a
uno smodato desiderio di dire la propria opinione e di creare tifoserie
contrapposte, un interessante pregiudizio basato sostanzialmente su un
unico capo d’accusa: se molestie ci sono state andavano smascherate
subito e invece, arrivando anni e anni dopo i fatti, la denuncia delle
donne è in colpevole ritardo. Vero, giusto, proprio così, non si
potrebbe mettere meglio a fuoco la situazione: la parola delle donne è
in ritardo. Solo che non si tratta di quei venti anni dai fatti, cioè
dalla prepotenza sessuale del produttore americano. Gli anni sono molti
di più: sono secoli e millenni. La parola femminile sconta un ritardo
infinito per essere stata tacitata da un inviolabile obbligo di silenzio
lungo tutto il corso della storia. È davvero da molto poco che ha
conquistato uno spazio pubblico, e solo qua e là nel mondo uno spazio di
ascolto. Ed è un ritardo certamente colpevole, essendo la colpa però
non di chi non può parlare ma di chi impedisce all’altro di farlo: non è
un silenzio qualsiasi, è l’impossibilità di parola che sempre si
verifica quando c’è uno sbilanciamento dei poteri, uno squilibrio dei
diritti.
In materia di donne è proprio ritardo la parola chiave.
Lo incontriamo in ogni campo della vita femminile e non è difficile
scorgere il nesso tra questo ritardo e la violenza. Dai ritardi del
passato (siamo sicuri di ricordare che solo nel 1981 vengono abrogate
nel norme del codice penale relative al delitto d’onore?) a quelli di
oggi la situazione non è meno grave. Di violenza parlano chiaramente le
cifre. Per esempio quelle di una recente ricerca del World Economic
Forum sul divario di genere nel mondo, i cui parametri non sono la ridda
delle opinioni contrapposte ma elementi precisi, cioè economia,
politica, salute, formazione. Ci vorranno, secondo le previsioni, cento
anni per colmarlo, questo divario. L’Italia, rispetto ai quattro
parametri, è all’ottantaduesimo posto (dopo Burundi, Bolivia,
Mozambico...), ma se si considerano invece solo i parametri della
situazione economica e della salute scende al centodiciottesimo posto.
Salute e denaro, cioè utensili della sopravvivenza. Come è possibile che
chi sia in una posizione così precaria possa difendersi dagli agguati
della violenza? La precarietà crea dipendenza, fragilità, sottomissione,
cioè potenziale esposizione alla violenza. E non riguarda soltanto le
più sfortunate e le più derelitte: è vero, c’è anche chi guadagna bene e
chi può curarsi, ma se non c’è parità diffusa che possa penetrare nelle
menti e nei cuori e nel corpo collettivo della società, non c’è sicura
difesa dalla violenza. E non c’è sicurezza senza giustizia, se non sono
tutelate tutte le donne non lo è nessuna.