Repubblica 19.11.17
Alla scuola delle Frattocchie
Quando il Pci dava i voti
di Simonetta Fiori
In
mezzo secolo di storia ci sono passati un po’ tutti: tra i banchi
Natta, Barca, Tatò e tanti semplici militanti Un libro ora rivela come
funzionava il “college” del Pci: pagelle comprese
Testo di Simonetta Fiori
Togliatti
quella mattina sembrava furioso: ma cosa era venuto in mente ai
compagni della segreteria di intestare la scuola di partito proprio a
lui, in buona salute e intenzionato a vivere ancora a lungo? «Non si dà
il nome di un vivo a una qualsiasi organizzazione se non per augurargli
di morire » , scrisse di getto, non sappiamo se confortato da qualche
gesto scaramantico. L’onomastica fu cambiata. Ma certo nessuno poteva
immaginare che il neonato college al numero 22 della via Appia, il
campus dei rivoluzionari di professione, sarebbe passato alla storia con
il nome sommesso del comune laziale, evocativo di terreni impervi o di
fritti carnevaleschi piuttosto che di austeri studi comunisti:
Frattocchie, il più potente simbolo di pedagogia politica che l’Italia
abbia mai conosciuto. Il “tempio delle certezze” rimpianto da penne
insospettabili.
E allora bisogna chiedersi perché nella generale
liquidazione della tradizione comunista l’unico mito sopravvissuto sia
proprio la scuola di partito, palestra frequentata da un milione di
militanti, per quasi cinquant’anni luogo di formazione non solo del ceto
dirigente ma anche dei cosiddetti apparatchik, “ l’unica burocrazia
efficiente e onesta del nostro paese”, scrisse un volta Indro
Montanelli. Una leggenda che ancora rimbalza su sponde politiche opposte
quando si evocano le “Frattocchie della Lega” o le “Frattocchie di
Forza Italia”. E la spiegazione di così tenace durata si può trovare
nella sterminata ricerca condotta anche in magazzini abbandonati da Anna
Tonelli, professoressa dell’Università di Urbino (
A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie: 1944- 1993).
Grazie
a faldoni mai consultati la studiosa ha colmato una pagina bianca su
quella “centrale di educazione collettiva” che ebbe il merito di
introdurre alla partecipazione politica moltitudini di analfabeti. La
sua indagine ricostruisce un sistema complesso di scuole distribuite in
tutto il territorio nazionale — Frattocchie era solo la più famosa —
finanziate con centinaia di milioni di lire ( cifre stellari negli anni
Cinquanta!) e tenute insieme da un precetto semplice che all’attuale
ceto politico potrà apparire oscuro e incomprensibile: “Se vuoi
dirigere, devi studiare”.
Nostalgia di Frattocchie? Il sentimento
appare fuori luogo, soprattutto se riferito al primo decennio dopo la
fondazione — nel 1944 — quando l’alfabetizzazione fa rima con
rivoluzione, tra mesti autodafé e iniezioni di dogmi marxisti-leninisti a
opera di Pajetta e Grieco. Le materie studiate sono “ rivoluzione
proletaria”, “ storia del movimento operaio internazionale”, “ lotta di
classe in Italia”. E le pagelle finali — dette anche con termine
poliziesco “ cartelle segnalatrici” — non solo valutano il rendimento
sui corsi ma anche la pasta caratteriale degli allievi. Il giudizio non
viene più affidato al mortificante voto borghese marchiato in cifre ma
al grado di profitto esteso da “ottimo” a “insufficiente”, novità
destinata a essere copiata dalla scuola di Stato. Tra le varie
osservazioni, quello di “mormoratore” resta lo stigma più temuto,
scagliato contro i compagni criticoni che seminano maldicenze nei
corridoi della scuola.
Tra i banchi spuntano i volti della futura
classe dirigente — Luciano Barca, Gabriele De Rosa, Tonino Tatò, più
tardi Alessandro Natta, Alfredo Reichlin e Maria Antonietta Macciocchi —
ma prevalgono gli anonimi operai dei quadri medi e bassi, quelli che
compileranno con accenti commossi il tema di fine corso “Cosa mi ha dato
la scuola”. Sono gli anni in cui tutti gli ammessi vengono invitati
all’esercizio della critica e dell’autocritica, detta anche
“autobiografia orale”: in realtà una penosissima confessione in pubblico
da cui anche militanti dall’eroico passato resistenziale escono con le
guance umide di lacrime. Rituali severi che ricordano le strategie
educative messe a punto secoli prima della compagnia di Gesù, la fede
rossa non meno totalizzante di quella celeste.
La scuola di
partito però non è solo dogmatismo e obbedienza, ma anche svago e
divertimento, tra partite di pallone e concertini di musica alla radio
nel lungo dopocena. La scuola è soprattutto la scoperta di un metodo di
studio, per cui è “vietato leggere alla maniera dei villeggianti”, “a
torso nudo” o in pose scomposte, ma solo rigorosamente a tavolino. Un
metodo fondato sul lavoro di gruppo, perché non sono ammesse concessioni
all’individualismo borghese. Quella del collettivo è una legge
inderogabile, non sprovvista di conseguenze comiche. Come quando il
responsabile di un corso per segretari di federazione annota che “il
vitto è stato ottimo e abbondante”, tanto che “il peso complessivo dei
compagni è passato da 1.309 a 1.363 chilogrammi”. La traduzione plastica
dell’uomo sciolto nella massa.
Sui banchi di dottrina politica ci
si può anche innamorare, ma con la cautela richiesta dalla morale
comunista. Le donne sono ammesse ai corsi, ma solo dopo aver documentato
azioni di coraggio sotto il tallone nazista — certificazione non
richiesta ai maschi. Miriam Mafai ricordava l’infinita tristezza del
collegio femminile di Faggeto Lario, borgo piemontese dalle tinte
romantiche, “dove le più temprate delle compagne ebbero acute crisi di
malinconia e depressione”. A un certo punto i maschi erano stati
separati dalle femmine perché così “ non pesa sulle donne quel senso di
inferiorità soprattutto nel campo dei problemi politici”, rileva un
funzionario dotato di formidabile sensibilità di genere. Nel 1946 desta
scalpore il caso di due giovani donne accusate di “andare in cerca di
uomini”, perché disinvolte negli atteggiamenti (“fumano come turche”) e
use a “ un trucco pesante”. Troppo sessualmente esuberanti per poter
convivere a un piano di distanza con i maschi nella scuola Marabini di
Bologna. In fondo “siamo uomini come gli altri”, esclamò il compagno
Masetti nella sua requisitoria sulle regole etiche dei seminari rossi.
L’ampliamento
di Frattocchie nel 1955 — un progetto a cui parteciparono architetti
come Aymonino, Di Cagno, Malatesta e Moroni — fu oggetto di una baruffa
dentro il partito. I vertici non apprezzarono lo stile un po’ tetro del
nuovo “ casermone” e ordinarono di piantare filari di grandi alberi in
modo da nasconderne la vista dalla via Appia. L’atmosfera dentro
Frattocchie si sarebbe rivelata tutt’altro che cupa. “ Assomiglia più a
un’elegante pensione à la page che a una scuola di quadri politici
rivoluzionari”, decretò Carlo Salinari facendosi largo tra i compagni
che giocavano a scacchi su colonna sonora di un quartetto mozartiano.
Col tempo anche i programmi scolastici perdono il dogmatismo dottrinario
delle origini, ma restando ancorati — almeno fino agli anni Ottanta —
ai paradigmi teorici del marxismo leninismo. Resiste la triade classica
filosofia/ economia/ storia, con l’aggiunta della logica e poi delle
scienze.
Per assistere al trionfo di Frattocchie bisogna arrivare
alla metà degli anni Settanta, con l’esplosione elettorale del Pci.
L’aula magna con il dipinto di Guttuso diventa meta di pellegrinaggio da
parte di giornalisti di tutto il mondo. Il tono irridente dei primi
tempi cede il passo al mito. Vittorio Gorresio ne elogia “ il tono di
civile sobrietà”. Paolo Mieli sull’Espresso la descrive “ sempre più
simile a un college statunitense”. Per quelle mura passa una giovane
generazione di intellettuali comunisti destinati a occupare ruoli di
prestigio nella stampa quotidiana, da Paolo Franchi a Giuliano Ferrara. E
alla sua chiusura, nel 1992, non saranno pochi gli addii colorati da
un’imprevista nota di rimpianto.
Oggi la scuola di Frattocchie è
un edificio abbandonato. Da diversi anni la proprietà è passata alla
famiglia Angelucci, molto attiva nell’ambito delle cliniche private. Il
suo destino sembra incerto. Resistono là davanti gli alberi piantati
mezzo secolo fa per nascondere le brutture, quelli sì indistruttibili. E
forse provvidenziali. ?