Il Sole Domenica 12.11.17
Ogni luogo diventa Taksim
Piazza
Taksim, nel cuore di Istanbul, ha fatto da sfondo a tutte le svolte
della storia turca di questi decenni Dal carcere, o in esilio, ora gli
intellettuali riscrivono le vicende del loro Paese e di questa piazza
simbolica
di Alberto Negri
Soffia forte il
Poyraz, il vento di Nord Est, dalle stradi laterali che portano a Piazza
Taksim, il cuore di Istanbul. Aprendo il taccuino del Bosforo trovo
sempre meno nomi da chiamare, dalla A di Ahmet Altan all’Ypsilon di
Yavuz Baydar, il primo in carcere, il secondo in esilio da noi. Sono
oltre 150 i giornalisti e gli scrittori dietro le sbarre in Turchia, un
record mondiale. Ogni giorno il nome di qualcuno si aggiunge alla lista
degli arrestati, come quello di Osman Kavala, rispettato intellettuale
ed editore. L’imputazione, in generale, è quella di avere cospirato
contro lo Stato o di essere complici del movimento dell’imam Fethullah
Gulen: in carcere sono andati a decine di migliaia dopo il colpo di
Stato fallito del 15 luglio 2016.
Alla fine di Istiqal Caddesi si
schiude piazza Taksim che porta direttamente al nome di Deniz Yucel,
giornalista turco-tedesco, anche lui in carcere. Ogni luogo è Taksim è
il titolo del suo libro appena tradotto da Rosenberg & Sellier. A
ogni tornante della storia turca di questi decenni sono passato da qui.
Nel 1994 quando il sindaco Tayyip Erdogan, ancora sconosciuto, già
voleva ricostruire a Taksim le vecchie caserme ottomane; nel 2003 quando
mi esplose sulla testa una delle bombe che fecero saltare il vicino
consolato britannico con una dozzina di morti; nel 2013 ero qui per le
manifestazioni di Gezi Park, tra un turbinio di manganellate e
lacrimogeni. Di fianco a Taksim sono passati i jihadisti per
disintegrare la discoteca Raia e mettere le bombe allo stadio del
Besiktas, qui sopra hanno sorvolato i jet la notte del tentato golpe.
Questa
piazza, con il monumento ad Ataturk di Pietro Canonica, è un simbolo
per tutta la Turchia, come racconta Deniz Yucel. Un fotogramma in bianco
e nero ci restituisce l’immagine di un lavoratore stilizzato con i
baffoni folti, un’espressione triste, una mano legata alla catena,
nell’altra una bandiera rossa. È lo stile degli anni Settanta, quando il
Primo Maggio 1977 si radunarono mezzo milione di persone. Si
scontrarono formazioni di sinistra con quella dell’estrema destra dei
Lupi Grigi, e dall’alto della terrazza dove oggi c’è l’hotel Marmara la
polizia sparò a raffica, mentre i blindati fendevano la folla: ci furono
34 morti. La Turchia era passata da una società agricola a una
industriale e i partiti di sinistra in tutte le loro declinazioni (anche
terroristiche) portavano milioni di persone in piazza. I militari erano
intervenuti nel 1960 e nel 1971 e quando lo fecero poco dopo, nel 1980,
sulle strade e nella piazze della Turchia erano già state uccise 4mila
persone.
Piazza Taksim fu vietata alle manifestazioni del Primo
Maggio e anche quest’anno è andata così, appena dopo il referendum che
ha assegnato a Erdogan pieni poteri presidenziali. È qui che nel giugno
2013 si radunò l'opposizione giovanile quando Erdogan annunciò il piano
per ricostruire, al posto di Gezi Park, la caserma ottomana Halil Pasha:
fu la più grande ondata di protesta contro il Partito della Giustizia e
dello Sviluppo che vince da 15 anni tutte le elezioni.
Piazza
Taksim è simbolica non soltanto per i laici e la sinistra. Anche per gli
islamisti è un luogo assai importante proprio per quella famosa caserma
d’artiglieria costruita dal sultano Selim III nel 1806. Era un
modernizzatore e voleva riformare l’esercito: i giannizzeri, le
tradizionali truppe d’élite, timorosi di perdere i loro privilegi, si
rivoltarono. Selim, inviso al clero musulmano per le simpatie
filo-occidentali e al popolo infuriato per le nuove tasse, fu costretto
ad abdicare: «Non essere sovrano e califfo - disse con amarezza - è
meglio che provare a comandare questi sudditi ribelli».
Il suo
successore, Mahmud II, fu meno flessibile: nel 1826 fece trucidare 6mila
giannizzeri con l’artiglieria. Era la fine della guardia pretoriana,
formata da cristiani convertiti e prigionieri di guerra (mamelucchi),
che aveva deciso per secoli la sorte dei sultani. Il nuovo esercito di
Mahmud denominato “i vittoriosi soldati di Maometto” non vinse mai
nessuna guerra ma i “vittoriosi” furono i primi a indossare i pantaloni
in stile europeo.
La caserma di Taksim qualche tempo dopo tornò al
centro di un’altra battaglia storica. Il 31 marzo 1909 la guarnigione
di Halil Pasha si ribellò al triumvirato rivoluzionario dei Giovani
Turchi che aveva detronizzato il sultano Abdul Hamid II.
I ribelli
occuparono la città con lo slogan ”Vogliamo la sharia”, la legge
islamica. Ancora oggi è controverso se si trattò di una ribellione
islamista o di un complotto ordito da agenti provocatori. Lo scrittore
Ahmet Altan(di cui è stato appena pubblicato in Italia il romanzo
Scrittore e assassino, edizioni e/o), nel romanzo L’amore ai tempi della
ribellione, suggerisce che si trattò di una lotta di potere tra
militari. Il risultato, comunque, fu che vinsero i Giovani Turchi, e la
caserma di Selim fu in gran parte rasa al suolo.
«Quando il primo
semestre interrogo gli studenti su eventi precisi della storia ottomana,
mi rendo conto che nessun data è rimasta così impressa come questa del
31 marzo 1909», racconta lo storico Mehmet Alkan.
Per i kemalisti,
i seguaci secolaristi di Ataturk, questo è il giorno della vittoria dei
poteri progressisti su quelli reazionari, per gli islamisti l’inizio di
cento anni di predominio dei militari e dei laici. Qualche tempo dopo
la battaglia Abdul Hamid II abdicava, mentre i Giovani Turchi,
capeggiati da Enver Pasha, trascinavano la Turchia nella Prima guerra
mondiale e le truppe straniere occupavano il Paese. Fu Ataturk a
liberarlo da greci e occidentali, proclamando nel 1922 l’abolizione del
sultanato e del califfato.
In realtà per gli islamisti turchi il
sultano Abdul Hamid II rimane un eroe perché aveva combinato il
risveglio dell’Islam con il progresso tecnologico: lo chiamano Ulu
Hakan, il Grande Sovrano, un termine coniato dallo scrittore Fazil
Kisakurek, morto nel 1983. «Gli aleviti (circa 10 milioni, ndr) e i
deviazionisti dell’Islam - diceva Kisakurek - devono essere sradicati
come erbaccia e buttati via». Non proprio un tollerante. «Il suo libro I
Musulmani Oppressi mi ha cambiato la vita» ha detto una volta Erdogan. E
citò un suo verso per sigillare la repressione di Gezi Park a Taksim
nel giugno 2013, quando definì i manifestanti dei capulcu, «un’orda di
mercenari macedoni».
Ma intanto, dopo la sconfitta nella guerra di
Siria, per salvare i confini e contenere l’irredentismo curdo, anche
Erdogan ha dovuto mettersi d’accordo con i miscredenti scendendo a patti
con Putin e l’Iran sciita degli ayatollah.
Con il vento dai
Balcani, in autunno Taksim appare ancora più grigia e fredda,
attraversarla dà quasi i brividi, anche con il bavero alzato e in tasca
tutti quei numeri di colleghi e scrittori che dal carcere non possono
più rispondere. Leggo nel libro di Deniz Yucel che sulla piazza c’era
anche uno stadio con 8mila posti, eretto nel cortile della famosa
caserma ottomana.
Qui fu giocata un partita di calcio memorabile.
Nel 1923, mentre si negoziavano gli accordi di Losanna ed era già stato
deciso il ritiro delle truppe straniere da Istanbul, il comandante
inglese Harrington sfidò con la sua squadra una selezione del
Fenerbahce. I britannici andarono in vantaggio con una rete dello
scozzese Willie Ferguson, ma i turchi replicarono con una doppietta
fenomenale di Bedri Gursoy, il quale, alzando la “Coppa del generale
Harrington” disse: «Siamo l’unico Paese che ha vinto una guerra sia con
il mortaio che con la palla». Davvero, come scrive Yucel, ogni luogo è
Taksim.