Il Sole 3.11.17
Per la prima volta da un secolo, in una questione così delicata, manca l’azione di Washington
Una crisi europea senza gli Stati Uniti
di Carlo Bastasin
È
ormai un riflesso convenzionale dire che la crisi catalana abbia messo
in luce la carenza di assertività europea. Ma qualcosa di ancor più
inedito dovrebbe saltare agli occhi: la completa assenza degli Stati
Uniti, per la prima volta da un secolo, in una questione di tali
dimensioni sul quadrante europeo. È un vuoto che cambierà l'ideologia
europea e che modificherà il linguaggio politico. L'Europa deve ancora
attrezzarsi per una responsabilità solitaria che non ha mai avuto.
Può
aiutare un episodio 15 anni fa. L’11 luglio 2002, otto soldati
marocchini issarono la bandiera nazionale sull’isola disabitata di
Pereji, territorio spagnolo benché a soli 250 metri dalla costa
africana. La Commissione Ue parlò di inaccettabile aggressione. I
giornali di prima invasione militare in Occidente dalla fine della
guerra mondiale. Meno di una settimana dopo, il premier spagnolo Aznar
inviò 28 unità speciali, cinque elicotteri, cinque navi da guerra e due
sottomarini per riconquistare lo scoglio. Ma nessuno avrebbe sparato un
colpo senza il consenso di Washington. Il generale Colin Powell, allora
Segretario di Stato, controvoglia, dovette deviare da un viaggio in Asia
per sedersi con i due governi e ristabilire l'ordine. Powell descrisse
la contesa nelle sue memorie come riguardante «una stupida isoletta» che
gli ricordava la parodia di Peter Sellers sul «topo che ruggiva».
Nell’attuale crisi tra Madrid e Barcellona, ben più significativa di
quella del 2002, gli Stati Uniti non sono mai apparsi nel radar
diplomatico.
Per 70 anni, gli Usa hanno garantito non solo
l’ordine internazionale, il pivot delle alleanze, la crescita economica
attraverso la cooperazione multilaterale, ma anche la certezza che, nel
caso la politica e la diplomazia avessero fallito, ci sarebbe stata una
minaccia di ordine militare. Oggi in Europa è come se fosse scomparso
non solo il monopolio della forza, ma l’argine alle parole.
Non
abbiamo vere risposte su come sia potuta accadere Brexit, come cioè una
élite di Oxbridge, classista o superficiale, abbia potuto creare un
proprio linguaggio popolare trascinando un intero paese verso
l’autolesionismo. O come un sentimento di diversità imprecisata stia
lacerando la Spagna. O ancora come le regioni più aiutate d’Europa,
Polonia, Ungheria e Germania orientale, si siano rivoltate ai loro
benefattori. Paesi tra i più sviluppati del mondo esprimono
un'aggressività autolesiva che appare irrazionale.
Ricorriamo ad
astrazioni anch’esse imprecisate - identità, populismo, svantaggio,
distanza o altro - calate in due diverse forme di risposta alle pene
dell’adattamento alla globalizzazione. Una polarizzazione tra vincitori e
perdenti della trasformazione economica, reciprocamente ostili, in cui
per esempio la Catalonia o il lombardo-veneto sono centro, mentre Madrid
o Roma sono periferia, così come lo sono diventati il Kentucky e
l’Ohio. Ma nemmeno questa dialettica spiega la radicalizzazione dei
toni. Forse non vediamo ciò che è evidente ed inedito al tempo stesso:
che le parole, i progetti e le promesse nel discorso pubblico corrono
senza freni, perché da pochi anni il maggiore tra gli inibitori è caduto
insieme all'attenuarsi del mondo unipolare americano: la guerra come
argomento centrale della politica.
La guerra come minaccia
terribile il cui timore aveva reso gravi e responsabili le scelte
politiche nei decenni successivi al '45. Oggi questa ponderazione
storica è evaporata, forse anche in Germania, il paese che ne aveva
preservato la memoria, ma temuto la responsabilità. L'irrazionalità
assume così le vesti di un situazionismo privo di sanzioni, o di un
nazionalismo senza spargimenti di sangue. Boris Johnson uno degli
artefici di Brexit ha evocato la guerra proprio alla Spagna
nell'eventualità di questioni su Gibilterra, salvo poi negarne la
volontà. Che si tratti di pura goliardia è una pericolosa illusione.
Così come con l’irreale Brexit, le parole prendono vita propria. La
storia è essa stessa il racconto della storia. Le ultime elezioni
americane sono in gran parte definite da due fattori culturali storici,
specifici a ogni distretto elettorale: la presenza di schiavi
afro-americani 150 anni fa e il livello attuale di istruzione. Nel vuoto
di responsabilità, si radica un linguaggio che vellica l'istinto di
discriminazione.
La guerra senza la guerra non è solo prerogativa
dei populisti. Quando si è trattato di gestire la crisi europea, si è
ricorsi al principio di autarchia – ogni paese viva entro i propri
limiti – come nelle condizioni belliche. La richiesta ai paesi in
difficoltà era di azzerare i debiti interni ed esterni, in modo da non
aver bisogno di aiuti e di non produrre contagi. Una comunità di paesi
isolati l'uno dall'altro, in una vecchia visione di rapporti di forza
tra diplomazie in conflitto.
La pace, come è noto, non coincide
con l'assenza di guerra. Anni fa Samuel Huntington sottolineava gli
effetti collaterali della “non-guerra”: i debiti degli Stati non vengono
mai ripudiati, né ci sono profonde revisioni delle carte
costituzionali. Le istituzioni quindi non si aggiustano alla realtà e
custodiscono i vecchi assetti di interesse, come è tanto evidente se si
osserva la composizione del Congresso degli Stati Uniti, fino a erodere
il senso di democrazia rappresentativa. L'immobile democrazia degli
interessi estrania e irrita gli elettori. L'assenza di informazione
sulle conseguenze di Brexit e il deserto del voto giovanile, hanno
coinciso con lo spostamento del discorso democratico sul piano delle
emozioni. E queste ultime in assenza di principi e valori, che per amaro
paradosso le guerre rendono evidenti, si costruiscono un antagonista e
quindi un nemico alle porte. È così l'identità tra guerra e territorio a
dominare la definizione del potere che, incessante, batte il ritmo del
news-cycle. Significativamente, anche Russia e Cina sono oggi molto più
collaborative sui grandi temi globali – la non proliferazione, la lotta
al terrorismo e l’economia globale – di quanto non lo siano sui temi
regionali, a cominciare dall’Ucraina e dai mari meridionali della Cina. E
in Europa la rivendicazione delle autonomie locali è riemersa con la
caduta dell’impero sovietico e ora si rafforza con il disimpegno
americano.
Il Trattato di Lisbona ha declinato un’unione sempre
più stretta tra i popoli d'Europa, con l’obiettivo di sviluppare la
pace, i valori e il benessere dei popoli. Ma i popoli, è la
contraddizione degli eventi spagnoli, si possono esprimere solo nelle
condizioni delle democrazie e quindi entro le istituzioni degli Stati.
Se si vuole rispettare la diversità dei popoli, paradossalmente bisogna
adottare la visione di un unico popolo europeo anziché di molti Stati.
Sarà d'altronde la strada ovvia per un continente che in questi giorni
sta scoprendo di non vivere più all'ombra della potenza americana.