sabato 25 novembre 2017

Il Sole 25.11.17
il reportage
Lo scoglio che divide Cina e Giappone
di Stefano Carrer

Ishigaki. Yoshitaka Nakayama è un sindaco strattonato dalle pressioni del governo centrale e da quelle di un Paese straniero, che lo mettono in difficoltà con i cittadini del piccolo comune che amministra, situato in un’amena isola tropicale che rischia di infuocarsi non solo per il sole.
Non c’è solo la Corea del Nord o il Mar Cinese Meridionale: anche il Mar Cinese Orientale fa da teatro a una latente crisi geopolitica che, messa per il momento in ombra dalle altre due, rischia in futuro di generare una guerra generale. E già oggi non fa dormire sonni tranquilli a Nakayama, che non ha ancora ufficializzato se si ripresenterà o meno alle elezioni di marzo per farsi rinnovare il mandato di primo cittadino di Ishigaki. Ma lo farà, questa volta con il pericolo di non farcela. Non saranno elezioni municipali come le altre: si tratterà di un vero e proprio referendum sul quesito se accettare o meno la presenza di ben 600 soldati sulla piccola isola all’estremo sud dell’arcipelago delle Ryukyu, prefettura di Okinawa.
Già da qualche anno i piani del ministero della Difesa giapponese sono chiari: più che dedicare grandi risorse a contrastare la minaccia nordcoreana, va spostato il baricentro della difesa nazionale sullo scacchiere Sud, per proteggere dalle mire cinesi le disabitate isolette Senkaku, che sul piano amministrativo dipendono da Ishigaki (distante da esse 170 km, molto meno dei 410 km da Okinawa). I turisti fanno immersioni nelle acque cristalline di Ishigaki sotto un cielo diventato minaccioso dal 23 novembre di quattro anni fa, quando la Cina istituì una Zona di identificazione per la difesa aerea (Adiz) che si sovrappone a quella giapponese sopra le Senkaku, di cui rivendica la sovranità chiamandole Diaoyu. Secondo vari analisti, è stato così gettato il seme permanente di un potenziale conflitto mondiale. Il “9/11” giapponese è stato nel 2012, quando l’11 settembre il governo centrale nazionalizzò le tre principali isole del piccolo arcipelago (fino ad allora di proprietà privata) per evitare che le comprasse il governatore nazionalista di Tokyo Shintaro Ishihara: Pechino reagì con un boicottaggio economico e cominciò a moltiplicare le incursioni nell’area. Tokyo non intende solo continuare ad aumentare le unità della guardia costiera a Ishigaki, ma inviarvi un forte contingente permanente di Forze di Autodifesa di Terra (l’esercito), con tanto di sistemi missilistici antinavi. Già su un’altra remota isola, Yonaguni, sono comparse nuove installazioni radar, mentre anche le isole di Miyako e Amami dovranno essere presidiate.
«I miei cittadini sono divisi: c’è chi comprende che si tratta di uno sviluppo inevitabile e chi si oppone: occorrerà tempo per cercare di raggiungere un consenso, ma non si può far finta di niente di fronte alle aumentate pressioni cinesi», afferma Nakayama. «Si tratta di una questione di primaria importanza nazionale: sarebbe assurdo vederla sotto un’ottica locale», afferma Yushiyuki Toita, segretario della Yaeyama Defense Association, che raggruppa cittadini di Ishigaki e delle isole vicine. «Direi anzi - prosegue - che il governo centrale sta dando priorità ai legami economici con la Cina ed è fin troppo accondiscendente». La situazione appare unica nel mondo: Nakayama amministra un territorio, ma alle Senkaku nessuno può andare. Neanche lui. Lo vieta il governo nazionale, per evitare ritorsioni cinesi. «Pensare – sospira Nakayama – che sull’isola principale, Uotsuri, sarebbe indispensabile quantomeno un management ecologico». L’ecosistema è stato danneggiato dalla moltiplicazione esponenziale delle capre, dopo che una coppia di questi animali fu portata lì alcuni anni fa da un gruppetto di nazionalisti. «Vorremo andarci a pescare, ma siamo costretti a evitare possibili incidenti. E questo ci danneggia molto», dice Koukichi Irabu, direttore della cooperativa dei pescatori delle Yaeyama. Per la verità, parlando con i pescatori si ha la sensazione che il problema più sentito non sia tanto andare alle Senkaku (piuttosto lontane), ma l’accordo sulla pesca che Tokyo ha fatto con Taiwan, concedendo molto ai pescatori taiwanesi per evitare un fronte comune tra Taipei (che rivendica anch’essa la sovranità sulle Senkaku) e Pechino. «L’anno scorso – afferma il tenente colonnello Taro Murao del 9th Air Wing della Japan Self-Defense Force, istituito l’anno scorso presso l’aeroporto di Naha, a Okinawa, con un raddoppio dei caccia F-15 da 20 a 40 – su un totale di 1.168 missioni di intercettazione, 851 hanno riguardato sospette incursioni cinesi nel nostro spazio aereo. Quest’anno sono un po’ calate, ma non le pressioni complessive». Pechino ora guarda all’oceano aperto: i suoi caccia e bombardieri hanno cominciato dall’anno scorso a volare tra Okinawa e Miyako o anche sul Mar del Giappone. È chiaro che lo faranno sempre più, ponendo nuovi problemi strategici, anche se hanno il pieno diritto di passare in corridoi aerei internazionali. Più critiche, dal punto di vista giapponese, le flottiglie di pescherecci, anche armati, o di unità costiere cinesi che periodicamente girano intorno alle Senkaku. Nel corso di una recente puntata effettuata il 2 novembre scorso, ad affacciarsi sono state 4 navi della Guardia costiera cinese.
Nelle scorse settimane a Tokyo il premier Shinzo Abe non ha chiesto a Donald Trump quello che aveva preteso da Obama: una solenne riaffermazione che l’art. 5 del trattato di alleanza militare impegna gli Usa alla guerra se il Giappone, come è scontato, decidesse di difendere le isolette da un attacco nemico. Il premier ha deciso di non fare nulla per contrariare o imbarazzare l’ombroso compagno di diplomazia del golf. Insistere sul punto avrebbe rovinato l’allora imminente viaggio di Trump dal presidente cinese Xi Jinping. Inoltre il campione dell’America First può ben agitare venti di guerra se si tratta di difendere città Usa da minacce missilistiche nordcoreane; meno apprezzabile dalla sua base elettorale sarebbe evidenziare il conferimento in atto a un Paese straniero di carta bianca per coinvolgere gli States in una possibile guerra mondiale a causa di remotissime isolette disabitate di cui il 99% degli americani non ha mai sentito parlare. Tanto più che gli Usa non hanno mai preso posizione sulla questione ultima della sovranità su queste isole: le devono difendere in quanto territorio “amministrato” dall’alleato. Una delle isole contestate si chiami Kuba: inquietante reminiscenza, almeno fonetica, della crisi caraibica che portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare nel 1962.