Corriere 25.11.17
la Cina taglia i dazi per tener testa agli usa
di Massimo Gaggi
L
a drastica riduzione dei dazi sulle importazioni di 187 prodotti
(numerosi quelli italiani) decisa ieri dalla Cina prova che la linea
dura della Casa Bianca con Pechino sul free trade funziona? Donald Trump
ne è certamente convinto, ma le cose non stanno così, se non in minima
parte. Il mondo è complicato e anche le grandi scelte economiche della
potenza asiatica hanno motivazioni complesse. Xi Jinping ha voluto
certamente dare un segnale di disponibilità agli Usa e anche alla Ue,
impegnata in negoziati infiniti con la Cina sulle barriere commerciali.
Ma la sostanza è un’altra: l’abbattimento dei dazi, il secondo in due
anni, è soprattutto una mossa rivolta all’interno che ha l’obiettivo di
accelerare la trasformazione di un sistema fin qui sostenuto dall’export
e da massicci investimenti in infrastrutture in un’economia basata
soprattutto sulla crescita dei consumi interni.
Che si tratta di
questo è evidente già dall’elenco delle merci su cui i dazi verranno
ridotti dal 17 al 7 per cento (e in qualche raro caso addirittura
azzerati): niente prodotti tecnologici, macchinari, beni d’investimento.
Solo normalissimi beni di consumo — dai pannolini al latte in polvere,
passando per le bevande alcoliche e i profumi — che il ceto medio
asiatico ormai benestante e affamato di merci occidentali (soprattutto
dopo gli scandali che hanno messo in dubbio la qualità e la sicurezza di
alcuni prodotti cinesi) va sempre più spesso ad acquistare fuori dai
confini nazionali. Meglio, allora, spingere i cittadini a comprare
questi prodotti in patria: il margine che spetta alla distribuzione
commerciale resterà in Cina e si ridurranno le spese per viaggi
all’estero.
Certo, tutto questo ha anche un significato a livello
di relazioni internazionali, ma sarebbe miope ridurlo a una sorta di
inchino cinese davanti ai pugni battuti sul tavolo da Trump. Dopo il
recente viaggio asiatico del presidente molti organi d’informazione e
anche i servizi Usa di intelligence hanno sottolineato come, capita la
vulnerabilità psicologica di un leader così narcisista, i leader da lui
incontrati abbiano tentato di compiacerlo con elogi e concessioni
formali.
Più che un inchino, quindi, l’apertura sui dazi (come la
possibilità di controllare fondi d’investimenti e altre attività
finanziarie concessa alle imprese straniere pochi giorni fa, durante il
viaggio di Trump) è un altro passo sulla via della trasformazione della
Cina in una superpotenza politica, oltre che economica.
Non più la
fabbrica del mondo che non raggiunge, però, l’eccellenza tecnologica,
un’economia emergente retta da un regime autoritario, ma un Paese che,
grazie anche alla crisi d’identità dell’America trumpiana, tende ad
acquistare un ruolo centrale in varie aree: l’impegno per la tutela
ambientale e lo sviluppo delle energie rinnovabili (Pechino protagonista
dopo il sostanziale ritiro di Washington), la sfida agli Stati Uniti
per la leadership nell’intelligenza artificiale, la tecnologia del
futuro, strategica anche sul piano militare. E poi, ancora, questo
stesso, forte sviluppo dei consumi interni destinato a rendere quello
cinese un mercato irrinunciabile per le imprese di tutto il mondo e
perfino l’impegno per la riduzione delle diseguaglianze economiche tra i
cittadini: è lo slogan sbandierato da Xi Jinping al recente congresso
del Partito comunista cinese che lo ha visto uscire da trionfatore. Ma
non sono solo parole: i dati della Banca mondiale e dell’Ocse mostrano
che in Cina le diseguaglianze, divenute estreme in 30 anni di rapido
sviluppo economico, ora si stanno riducendo soprattutto grazie a
un’industrializzazione che, dopo le città costiere, sta ora investendo
le aree interne del Paese, le più povere.
La Cina vera
superpotenza in grado di tenere testa agli Stati Uniti resterà ancora a
lungo un sogno per la leadership di Pechino che deve occuparsi prima di
tutto di evitare il collasso di un’economia surriscaldata dall’eccesso
d’investimenti alimentati dai prestiti facili delle banche e gravata da
un enorme debito pubblico (il 260 per cento del Pil, il doppio di quello
italiano). Ma il taglio dei dazi e il sostegno ai consumi interni
servono proprio a tentare di riequilibrare questa situazione e a dare
credibilità allo yuan come valuta alternativa a dollaro ed euro.
Offrendo al tempo stesso agli altri Paesi emergenti del mondo il modello
di una tecnocrazia illiberale ma efficiente (le misure annunciate ieri
entreranno in vigore tra pochi giorni) contrapposto a quello di
liberaldemocrazie occidentali tutte scosse in misura più o meno
rilevante da crisi di governabilità e da perdite di credibilità.