domenica 12 novembre 2017

Il Sole 12.11.17
Medio Oriente. Confini inalterati ma Trump e Putin ridisegnano le aree di influenza
Usa e Russia d’accordo sulla spartizione della Siria
Mosca ha vinto Ora i due leader devono bloccare la crisi in Libano
di Alberto Negri

Trump e Putin, che in Siria coabitano in un turbolento “condominio militare”, hanno deciso a Da Nang, ben lontano dal Medio Oriente, la loro Sykes-Picot, l’accordo di spartizione del Medio Oriente raggiunto 101 anni fa da Gran Bretagna e Francia. In sintesi gli Usa riconoscono la vittoria di Mosca.
Stati Uniti e Russia si sono pronunciati in una dichiarazione congiunta per l’integrità territoriale e la sovranità della Siria dopo la sconfitta del Califfato che voleva esattamente il contrario: cambiare i confini coloniali e abbattere insieme al fronte sunnita - Turchia e monarchie del Golfo - il regime alauita di Bashar Assad, l’unica minoranza rimasta al potere in Medio Oriente, sostenuto da Iran e Hezbollah libanesi.
La spartizione è nei fatti, anche se precaria perché tutto viene rinviato ai negoziati Onu di Ginevra, diventati una sorta di appendice di quelli di Astana sponsorizzati da Russia, Turchia e Iran, lontani eredi dei tre ex imperi, zarista, ottomano e persiano.
Il passaggio di Ankara, storico membro della Nato, al campo opposto, attraverso l’intesa con Mosca e Teheran, è stata la svolta decisiva: Erdogan, per bloccare l’irredentismo curdo, è sceso a patti con gli avversari e sguarnito il fronte sunnita rinunciando a diventarne il leader.
La sconfitta dell’Isis affonda il progetto utopico di Califfato ma subisce un duro colpo anche l’islam politico come soluzione ai problemi della regione: questo non significa la fine delle correnti integraliste, come del resto la sconfitta di Al Qaida nel 2001 in Afghanistan, dopo l’11 settembre, non fu la fine del terrorismo. Il Medio Oriente di rado consente sentenze definitive.
La Siria, il Libano e l’Iraq diventano quindi una sorta di Jugoslavia araba dove l’Est - la Russia - e l’Ovest - gli Usa e la Nato - manterranno la loro presenza militare dovendo convivere con nemici e alleati.
La Turchia, grazie all’accordo con Mosca, è entrata con le sue truppe in Siria del Nord, sollevando le proteste di Damasco; l’Iran continuerà ad avere il suo asse sciita in Iraq, Siria e Libano con gli Hezbollah, nonostante l’ostilità di Arabia Saudita Israele. Ma se i sauditi si sentono sconfitti, Israele continua a occupare dal 1967 le alture siriane del Golan, dato strategico ineludibile. Turchia a Nord, Israele a Sud: solo ai sauditi non è stata lasciata una fetta di torta siriana.
Quanto all’indipendenza curda, è stata congelata dopo la devastante sconfitta di Massud Barzani a Kirkuk mentre i curdi siriani, alleati degli americani a Raqqa, dovranno contrattare la loro autonomia con Damasco e fare i conti con la Turchia che li ritiene dei terroristi affiliati al Pkk di Abdullah Ocalan.
La dichiarazione di Da Nang è un messaggio che Mosca e Washington recapitano ai rispettivi alleati nel pieno della crisi tra Arabia Saudita e Libano, tinta di giallo per la sorte del premier dimissionario Saad Hariri, ospite-ostaggio a Riad del principe ereditario Mohammed bin Salman. Con la guerra in Siria e l’intervento della Russia nel 2015 a fianco di Assad, il fronte sunnita è stato sonoramente sconfitto.
La responsabilità è degli errori clamorosi di valutazione compiuti dagli avversari dell’Iran come l’Arabia Saudita che ha sostenuto l’opposizione jihadista in Siria e si è impantanata in una guerra in Yemen, nel cortile di casa, contro gli Houthi appoggiati da Teheran. Sono 37 anni, dalla guerra Iran-Iraq del 1980, che le monarchie del Golfo, con gli Usa, tentano senza successo un cambio di regime a Teheran. Trump, per accontentare i suoi maggiori acquirenti arabi di armi e gli israeliani, vuole uscire dall’accordo sul nucleare del 2015 e imporre nuove sanzioni: gli europei, che nel 2017 hanno aumentato del 94% gli scambi con l’Iran, forse non saranno contenti. Ma se gli Usa sbagliano ancora una volta bersaglio gli errori li pagheremo anche noi, come è avvenuto Iraq nel 2003 e in seguito in Libia nel 2011.
Si stanno definendo i contorni del Medio Oriente post Isis. Questo non è più soltanto uno scontro sciiti-sunniti ma dentro lo stesso campo sunnita, come dimostra la crisi tra Riad e Doha. Il Qatar vive da giugno in uno stato d’assedio imposto da Riad e dalle altre monarchie del Golfo, con il risultato che Doha, dove si trova una base militare Usa con 8mila uomini, ha dovuto appoggiarsi alla Turchia e all’Iran, l’arci-nemico dei sauditi.
Sono in competizione due agende, l’una con l’altra. La prima punta a rafforzare l’asse sciita, alleato di Mosca, che unisce Teheran con Baghdad, Damasco e Beirut (Hezbollah). La seconda, sostenuta da Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mira a imporre un nuovo ordine regionale sunnita. Secondo la stampa israeliana, i sauditi premono su Tel Aviv perché apra un conflitto in Libano con gli Hezbollah.
Le spese militari del secondo asse sono impressionanti. L’Arabia Saudita investe circa 64 miliardi di dollari annui in spese militari, gli Emirati (con appena 1,5 milioni di abitanti) 23, Israele 18, gli Stati Uniti 611. Per contro l’Iran è fermo a 12 miliardi annui, la Russia a 69.
Il principe ereditario Mohammed bin Salman, dopo avere fatto fuori con le purghe i suoi concorrenti, adesso cerca un fronte esterno in Libano dove sfogare le tensioni interne e coprire i fallimenti in Siria e Yemen. Dopo Da Nang Stati Uniti e Russia sembrerebbero d’accordo (il condizionale è d’obbligo) ad attuare una sorta di “doppio contenimento” dei loro alleati regionali: dal loro impegno passano le chance di un negoziato o gli scenari per una nuova guerra devastante.