domenica 12 novembre 2017

Corriere 12.11.17
«Agli Uffizi ho visto gente svenire davanti a Botticelli»
di Roberta Scorranese

Il direttore parlerà delle emozioni nell’arte. E della sua esperienza a Firenze
Nel 2015, quando si insediò alla direzione degli Uffizi, Eike Schmidt accolse con humour tedesco una definizione che gli cucirono addosso, cioé «lo Schumi dei musei», perché annunciò svecchiamenti e velocità nell’innovazione.
E oggi, dopo aver annunciato che nel 2020 andrà al Kunsthistorisches Museum di Vienna e alla vigilia della sua lezione sulle passioni nell’arte a «Visioni» di Lugano, conferma la definizione (triste attualità a parte)?
«Posso essere sincero?»
Certo.
«Mi sento pieno di meraviglia. Ancora oggi, a due anni esatti dall’insediamento, vado a lavoro come un bambino che scopre giocattoli nuovi».
Ha avuto elogi e critiche.
«Ma io non mi lascio mica spaventare. Io penso ancora che gli Uffizi siano una macchina straordinaria, e se me ne vado a Vienna è perché il Kunsthistorisches è una delle istituzioni più importanti, ma insieme al Louvre, agli Uffizi e ai Musei Vaticani».
Solo questo?
«No, c’è anche il fatto che lì si fa tanta ricerca. Il museo non è solo un luogo di esposizione, ma è vivo, scopre ogni volta cose nuove. Come fanno all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze: ogni restauro non si limita a questo, ma è anche un pezzo di ricerca scientifica».
Ma perché ha annunciato così in fretta la sua dipartita quando mancano ancora più di due anni?
«Per correttezza. Non mi piacciono i giochetti e poi la riforma italiana prevede proprio la rotazione dei direttori, nell’ottica di non essere più inamovibili, incollati alle poltrone. Era quello che si chiedeva, no?».
Passioni nell’arte: lei avrà solo l’imbarazzo della scelta.
«Eh sì, il Rinascimento è stato un trionfo di passioni. Faccio un esempio: il Laocoonte di Baccio Bandinelli degli Uffizi, restaurato qualche anno fa. All’epoca la gente si fermava a guardarlo e cercava di interpretare il suo volto, per decifrarne le emozioni. Era uno spettacolo non solo artistico ma anche psicologico. Ma a Lugano vorrei parlare anche dell’importanza dell’arte nella terapia. Una cura che parte dalle passioni che un dipinto o una scultura possono generare in chi guarda».
Restando alle passioni: nei fiorentini prevale rabbia, tristezza o gioia?
«Gioia, ovviamente».
Ma la polemica è qualcosa di connaturato alla città.
«Non lo dico io, ma la sua storia. Dante, le guerre tra Guelfi e Ghibellini, tanto per fare due esempi. E chi fu a interpretare in modo così magistrale le guerre interne? Ma un artista, ovviamente, Leonardo nella Battaglia di Anghiari ».
A proposito: l’Adorazione dei Magi del Vinci è un altro restauro che si è concluso sotto la sua gestione.
«Sì e ne sono orgoglioso. Ma sono orgoglioso anche delle nuove sale con le opere di Botticelli. Lo sa che prima, con gli spazi angusti e con i primi caldi, la gente sveniva davvero davanti alla Venere?»
Una Sindrome di Stendhal?
«Una specie. Ma è comprensibile: gli Uffizi registrano migliaia di visitatori al giorno. La gente, costretta prima a lunghe code e poi al disagio di spazi angusti, soffre e così avevamo una sequenza di colpi apoplettici. Adesso tutto funziona molto bene».
Due milioni i visitatori l’anno scorso.
«E questo ovviamente è un bene. Ma quello che un buon museo deve fare è rendere fruibili le opere. È inutile avere una collezione vastissima se la gente ne vede solo una parte».
Qual è la sfida più ardua per un museo che guarda al futuro?
«Quella digitale. E non parlo solo di siti o di attività sui social network. Parlo di una divulgazione sempre più allargata dei saperi che la scienza deve compiere, senza restare arroccata su se stessa. Oggi ci sono ancora le comunità scientifiche si trasmettono all’interno delle conoscenze come se si trattasse di un rito iniziatico. Ma non può funzionare a lungo. La gente viene al museo perché sa già che ci troverà quell’artista o quel capolavoro. Trovare il modo di divulgare con serietà, sì, ma anche col giusto tono che si deve usare con un pubblico vasto, è la vera grande sfida».
Una passione recente?
«Quella per il cinema».
Certo, lei ha portato per la prima volta agli Uffizi una mostra su Ejzenštejn.
«Titolo: La rivoluzione delle immagini . Ecco, quello che ci vuole è una rivoluzione ejzensteniana: meno didascalie, più cultura del montaggio».