il manifesto Alias 18.11.17
Undici tesi sul comunismo possibile
Il
documento. La sintesi della "Conferenza di Roma" sul comunismo la cui
potenza programmatica è stata raccolta dal collettivo C17 in undici tesi
Collettivo C17
1.Spettro
Dove
è al potere il Partito Comunista, il comunismo è scomparso da un pezzo.
Vigono mercato e sfruttamento, ma senza parlamenti e libera opinione.
Il comunismo è una storia degenerata, sconfitta, rimossa; in Europa e nel mondo.
Raramente
capita che una sconfitta sia ancora uno spettro, abbia la capacità di
spaventare ancora: è il caso, raro, del comunismo. La parola è
impronunciabile, il senso o il progetto difficili da chiarire.
Il
nemico, però, continua ad avere le idee chiare; sicuramente non è
terrorizzato come nel 1848, e di certo ha imparato a prevenire. Il
capitalismo contemporaneo spaventa per non essere spaventato.
Sappiamo,
da Hobbes in poi, che la paura costituisce il sovrano: oggi la paura,
il ricatto permanente delle vite precarie, rendono possibile lo
sfruttamento.
Ma se così è, c’è qualcosa che non torna: le vite,
pure precarie e sempre al lavoro, sono un pericolo, oltre a essere in
pericolo.
Comunismo è il nome di questa eccedenza che, nonostante tutto, continua a far paura.
La
vittoria del capitale, come una nemesi, non smette di produrre questa
eccedenza (di relazioni, mobilità, forza-invenzione, cooperazione
produttiva, ecc.).
La vittoria del capitale, come una nemesi, non
smette di produrre le condizioni oggettive del comunismo: la riduzione
del «lavoro necessario» alla riproduzione sociale della forza-lavoro.
2. Neoliberalismo
«Capitalizzare la rivoluzione»: dal 1968 in poi, è il segno della grande trasformazione nella quale siamo immersi.
Se
con le lotte la vita esce dai cardini e dalla fabbrica, occorre
inseguirla ovunque, mettere a valore i suoi tratti unici e irripetibili,
fare affari con i gusti estetici e le condotte di ciascuno, trasformare
il macchinario in protesi del «cervello sociale» (le tecnologie
digitali e della comunicazione: dal Pc al Web, dagli Smart Phone ai
Social Network) e il general intellect in algoritmo.
Questo è accaduto, mentre correva veloce la globalizzazione e una violenta accumulazione investiva l’Est e il Sud del mondo.
Pensare
i due processi separatamente, o in opposizione, è un errore gravido di
conseguenze politiche nefaste: la globalizzazione neoliberale è una
trama dalla temporalità multipla ed eterogenea; uno spazio comune quanto
segmentato. Capiamo la Silicon Valley con le zone economiche speciali
della Cina o della Polonia, e viceversa.
Il neoliberalismo, più
precisamente, è la contro-rivoluzione, la risposta capitalistica al
1968, evento di lotta – dalla Sorbona al Vietnam, da Berkeley a Praga,
da Roma a Tokyo – compiutamente globale.
Pensare la globalizzazione senza aver capito le spinte decoloniali significa non pensarla affatto.
Soffermarsi
sull’economia della conoscenza senza dedicare attenzione ai movimenti
studenteschi o a quelli operai del rifiuto del lavoro (ripetitivo) vuol
dire consegnare l’innovazione tecnologica, interamente, al comando
capitalistico.
Il neoliberalismo ha riproposto – su scala globale,
con diverse intensità, rendendoli cronici – fenomeni di accumulazione
originaria: lo spossessamento, a mezzo di land grabbing, di milioni di
donne e di uomini come la recinzione dei saperi, a mezzo dei brevetti;
l’erosione del salario indiretto, attraverso fiscalità regressiva e
tagli al welfare, come la compressione di quello diretto, con i processi
di precarizzazione del lavoro; la carcerazione di massa dei poveri come
l’uso della forza-lavoro migrante per destabilizzare le rigidità
salariali; il sodalizio, sempre moralmente condannato, tra economia
criminale e affari “puliti”.
Impoverimento, ma accesso
generalizzato ai consumi, alle tecnologie; rinnovata mobilità e
diffusione dei muri; esaltazione delle differenze e radicalizzazione
dello sfruttamento: il neoliberalismo è la combinazione, sempre
ri-attivata, di questi processi.
3. Crisi
Dicono gli economisti che la crisi nella quale da dieci anni continuiamo a sprofondare è una Grande depressione.
Grande,
come quella degli anni Settanta dell’Ottocento, come quella esplosa nel
1929 e sopita, solo dopo diverse decine di milioni di morti, nel 1945.
Riprendendo il lessico degli anni Trenta (del Novecento), alcuni
economisti parlano di «stagnazione secolare»: decenni di crescita bassa,
salari bassi, disoccupazione alta, povertà. C’è di che sperare…
La crisi, in questo senso, non è più solo una malattia, ma la “cura” ogni giorno adottata perché il morbo divampi.
La domanda si impone: perché, se il capitalismo ha vinto ovunque, c’è bisogno della crisi per governare il mondo?
Una
prima risposta ci indica che il mondo è tutt’altro che governato:
l’egemonia americana tramonta; un nuovo multipolarismo si presenta
minaccioso; la guerra uccide in periferia e al centro, e si fa con le
armi, gli attentati, la moneta, il commercio.
Una seconda
risposta, invece, ci dice che la crisi è una forma di governo della
forza-lavoro. Proprio perché la vittoria del capitale non smette di
produrre, suo malgrado, le condizioni oggettive del comunismo, allora il
comando del capitale ripristina senza sosta quel portato di violenza
extra-economica che ne aveva caratterizzato le origini a partire dal XVI
secolo.
Tanto più il robot si sostituisce al lavoro umano, tanto meno il capitalismo può permettersi giustizia sociale e democrazia.
Tanto più i soggetti incorporano strumenti produttivi, tanto più sarà necessario demoralizzarli, impoverirli, disciplinarli.
La
gestione neoliberale della crisi connette il controllo delle condotte
con il rilancio delle discipline, siano esse la coazione al lavoro, la
violenza maschile contro le donne, la repressione dei poveri e dei
migranti (dall’internamento alle espulsioni).
Il volto più noto
del capitalismo-crisi è Donald Trump: miliardario vicino alla Goldman
Sachs, dunque a Wall Street, non disdegna, anzi difende e quando può
fomenta la destra nazionalista e razzista. Il neoliberalismo, che per
anni ha fatto rima con globalizzazione, rafforza il suo polo aggressivo e
autoritario; lo spazio della finanza si sposa con quello dei muri,
della discriminazione, della patria.
Di più: nella crisi, riemerge l’arcaico della Sovranità, la guerra civile e quella contro i poveri.
In
questo scenario, se la sinistra neoliberale – quella in voga ai tempi
di Clinton, Blair e Schröder – rattrappisce quasi ovunque, la destra
(neoliberale) si riscopre sciovinista e non esclude retoriche fasciste.
4. Proletariato
Se
vale quanto scritto fin qui, non è più possibile definizione di
proletariato che non tenga in conto l’ibridazione di produzione e
riproduzione, la globalizzazione (e la sua crisi), l’eterogeneità dei
tempi storici del capitale («contemporaneità del non contemporaneo»).
Il
lavoro, infatti, fatica a distinguersi dalla vita; non tanto e non solo
perché tempo di lavoro e tempo di vita tendono a coincidere, ma anche e
soprattutto perché per lavorare e produrre plusvalore è fondamentale
attingere a quelle risorse affettive, relazionali, simboliche che
articolano la vita stessa e la sua riproduzione.
Così come è
impossibile descrivere i soggetti produttivi senza mettere al centro la
mobilità; anche quando quest’ultima viene impedita o viene largamente
utilizzata per favorire nuovi processi di gerarchizzazione del mercato
del lavoro.
Ancora: in uno stesso territorio possono coabitare
imprese hi-tech, caporalato e semi-schiavitù nella produzione agricola,
lavoro di cura sotto-pagato, economia informale e criminale.
Proletariato dunque deve sempre dirsi attraverso tre sensi: differenza
sessuata; dimensione transnazionale (nuovo regime migratorio; gerarchie
secondo la linea del colore); moltiplicazione del lavoro (e delle forme
dello sfruttamento).
La classe operaia bianca, “maschile troppo maschile”, non è mai stata tutto il proletariato.
La
Rivoluzione russa, per esempio, inizia con lo Sciopero delle donne, l’8
marzo del 1917 (il 22 febbraio nel calendario giuliano).
Il
proletariato, che evidentemente comprende anche la classe operaia
globale (con maggiore attenzione alla Cina o al Bangladesh, ecc.), oggi
più che mai è donna, è giovane scolarizzato, è nero, è migrante.
Nell’intersezione
di questi elementi, poi, ritroviamo i soggetti sfruttati della scena
contemporanea. Un proletariato che è maggioranza, ma è fatto di
minoranze, un tessuto ibrido che sfugge alle identità.
5. Lotta di classe
Quando
produzione e riproduzione si intrecciano, fino spesso a confondersi,
non c’è lotta di classe che non sia anche conflitto per l’affermazione e
la difesa delle forme di vita.
La lotta economica, quella
demandata storicamente al sindacato, perde i suoi confini, esonda
continuamente sul terreno della sessualità, della formazione, del
diritto alla città, dell’antirazzismo, della comunicazione.
In
questo senso, viene meno la tradizionale distinzione tra lotte
economiche e lotte politiche; semmai assistiamo a processi di
politicizzazione che insistono e si dislocano tanto nella scena
produttiva quanto nella cooperazione sociale, nelle condotte come nella
difesa dei commons, nell’intimità come nelle relazioni.
Lotta di
classe è tanto lo Sciopero globale delle donne quanto Gezi Park, Black
Lives Matter quanto gli scontri – aspri e duraturi – per gli aumenti
salariali in Cina e in India, o i primi scioperi dei lavoratori Uber e
Foodora.
Come le donne in particolare ci hanno saputo mostrare, lo
Sciopero non è più uno strumento esclusivo dei sindacati, ma una
pratica che innerva le lotte contro la violenza patriarcale, quella
contro lo sfruttamento e la disparità salariale, quella per la
riappropriazione democratica del welfare, per i diritti sociali e per
quelli civili.
Sciopero, dopo l’8 marzo globale, è (finalmente) processo di politicizzazione.
Negli
esempi citati, i momenti che ancora apparivano disposti in sequenza nel
Manifesto di Marx ed Engels – «collisione» tra proletariato locale e
singolo capitalista, «coalizione» degli operai, lotta politica – sono da
subito compresenti e conquistano terreni prima considerati estranei
alla lotta di classe.
Ma questa compresenza o co-articolazione
mantiene intatta, semmai la rafforza e la complica, la spinta del
processo costituente: dal basso – della vita e della sua potenza, dei
rapporti sociali e di sfruttamento, dalle lotte molecolari, del
linguaggio e dei suoi contagi, ecc. – verso l’alto – del potere.
La
violenza, che pure è componente ineliminabile della lotta di classe e
dell’esercizio del potere, riscopre i tratti dello ius resistentiae: non
è tanto l’inimicizia, politica e militare, a definirne la fisionomia e
il ritmo quanto la «difesa delle opere dell’amicizia», della
cooperazione sociale, delle forme di vita alternative.
6. Comuniste e comunisti
Chi sono, oggi, le comuniste e i comunisti? Meglio: cosa fanno?
Ripartiamo,
schematicamente, dalle indicazioni del Manifesto di Marx ed Engels:
fanno «emergere gli interessi comuni», oltre i perimetri
locali/nazionali delle lotte; si dedicano pazientemente e con
determinazione alla «formazione del proletariato in classe»; si battono
per prendere il potere politico; esprimono in modo generale i «rapporti
di forza di una esistente lotta di classe» («cioè di un movimento
storico che si svolge sotto i nostri occhi»).
Le comuniste e i comunisti dunque, in primo luogo, conquistano o costruiscono il comune nelle lotte.
Uno
sforzo tanto più necessario se si intende fare i conti, seriamente, con
la molteplicità irriducibile e l’orizzonte globale delle stesse, con la
disparità dei ritmi storici, con il primato delle differenze sulle
identità.
Formare il proletariato in classe, quando il primo
sfugge a codificazioni omogenee, significa spostare l’attenzione dal
soggetto ai processi di soggettivazione. La classe a venire non potrà
che essere «un pachtwork a prosecuzione infinita» o «un mantello di
arlecchino»; il metodo delle comuniste e dei comunisti, la composizione.
Affidiamoci
ancora alle metafore dei filosofi: comporre il proletariato in classe
significa fare arcipelago, delineare costellazioni. Solo nel mezzo di
questo processo, che è sempre anche un laboratorio di
auto-apprendimento, è possibile generalizzare le lotte, coglierne gli
aspetti trasversali.
Le comuniste e i comunisti, nel
combattimento, esprimono questi aspetti con la propria vita, non li
rappresentano con le chiacchiere.
7. Comunismo
Lo si
confonde spesso con la comunione dei beni, siano essi naturali o
artificiali. Vale la pena, invece, essere letterali: comunismo è
«abolizione della proprietà privata borghese». Consapevoli che
quest’ultima è un rapporto sociale di sfruttamento; equivale al furto
del lavoro altrui. Meglio ancora: del lavoro altrui viene rubato quello
eccedente, ovvero quello che non è necessario alla riproduzione della
vita di chi lavora.
Se non si afferra questo nocciolo duro, si confonde il comunismo con un semplice problema di equa distribuzione della ricchezza.
È
vero, però, che non c’è sfruttamento senza spossessamento (della terra,
dei mezzi di produzione, in generale delle condizioni oggettive della
riproduzione): vende al mercato la propria forza-lavoro il povero, chi
non dispone di altro, cioè, se non di essa.
Ma oggi, a differenza
del XVI secolo, il povero è da subito gettato in una rete di
comunicazione e di mobilità che il nuovo modo di produrre e la
globalizzazione, malgrado tutto e secondo differenti regimi di
inclusione, hanno reso possibile.
In una parte significativa del
mondo, tra l’altro, gli strumenti produttivi sono stati ampiamente
socializzati (tecnologie informatiche, digital labour, ecc.), la
riproduzione della vita largamente finanziarizzata (debito).
Il capitale, in questo senso, si qualifica come un insieme, assai articolato, di «operazioni estrattive».
L’estrazione
del valore avviene a monte del processo produttivo (terra, risorse
naturali, rendita urbana, ecc.), attraverso meccanismi di spossessamento
e recinzione; avviene nel processo stesso, ovviamente, succhiando
plusvalore assoluto e relativo; ma avviene anche – e sempre di più – a
valle, nella cattura e nel comando, a mezzo di algoritmi e finanza,
della cooperazione e della creatività sociale.
«Espropriare gli
espropriatori» (o lotta di classe), allora, significa abolire questa
proprietà privata: il comune del comunismo riguarda tanto i beni e il
welfare – il loro uso condiviso, la loro gestione democratica – quanto
il rifiuto del lavoro sotto padrone, l’invenzione di nuove misure
monetarie quanto l’autonomia dell’intelligenza collettiva e della sua
costruttività (scientifica, economica, politica, artistica).
8. Forme di vita
Appropriazione
comunista – ovvero rifiuto del lavoro salariato, democratizzazione del
welfare, ecc. – è anche abolizione della ‘persona’.
Nella società
borghese, ricordano Marx ed Engels, a essere «indipendente e personale» è
soltanto il capitale, mentre «impersonale» è il lavoro vivo. Dove
finisce il capitale, lì finisce anche la finzione individuale, con i
suoi perimetri.
La tradizione politica liberale e oggi, in modo
assai più spiccato, la governamentalità neoliberale insistono sul
primato indiscusso dell’individuo nei confronti della società.
Agli
inizi della contro-rivoluzione, mentre schiacciava i minatori e più in
generale i sindacati inglesi, Margaret Thatcher ripeteva il mantra: «non
esiste la società, esistono solo gli individui». Slogan incarnato
nell’estensione a dismisura della forma impresa (l’imprenditore di se
stesso), nelle celebrazioni del capitale umano, nella proliferazione del
lavoro autonomo.
Farla finita con lo sfruttamento, oggi che
questo si presenta nella cattura del valore oltre i confini della
fabbrica, nella sussunzione della cooperazione sociale, nella
coincidenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, significa farla finita
con l’individualismo competitivo.
Comunismo è autonomia del lavoro
vivo, primato del presente sul passato (capitale, lavoro accumulato),
dunque affermazione del carattere irriducibilmente sociale
dell’individuo.
Di più: non c’è abolizione della personalità del
capitale senza abbattimento della famiglia e del patriarcato, senza
invenzione di nuove istituzioni amorose.
Non è tutto. Ripetiamo,
proprio ora che la creatività e la dimensione estetica si combinano in
modo inedito con l’innovazione tecnologica e produttiva, l’adagio del
giovane Marx: «la soppressione della proprietà privata rappresenta
quindi la completa emancipazione di tutti i sensi».
Oltre Marx,
diciamo che la conquista di nuovi modi di sentire non è solo punto
d’arrivo, ma accompagna ogni processo di liberazione.
9. Programma
Come
la classe, il programma si compone. Da questo punto di vista, non sono
tanto le «domande sociali» a essere decisive, quanto le lotte e i
processi di soggettivazione.
Vale la pena insistere, anche per distinguere la politica comunista da quella populista.
La
molteplicità irriducibile delle domande fa del popolo un «significante
vuoto», da riempire attraverso un insieme di mosse discorsive ed
egemoniche.
La molteplicità irriducibile delle lotte e dei
fenomeni di politicizzazione a esse legati, invece, incarna le pretese,
le svolge su un piano polemico e costruttivo nello stesso tempo;
l’egemonia non riguarda più solo i discorsi, ma insiste sulle forme di
vita.
In questo senso, il programma comunista non è, semplicemente, un programma di governo.
Formare il proletariato in classe vuol dire «conquistare la democrazia», qui e ora.
E
conquistare la democrazia, qui e ora, significa espropriare gli
espropriatori, fare il comune contro il capitale e le sue operazioni
estrattive.
Presentiamo dunque, senza gerarchia alcuna, un
programma già forte nei tanti conflitti fin qui ricordati: reddito di
base universale, sganciato dalla prestazione lavorativa e a carico della
fiscalità generale; salario minimo globale; riduzione dell’orario di
lavoro; libertà di circolazione delle donne e degli uomini; tassazione
dei patrimoni, delle transazioni finanziarie, dei robot; eliminazione
dei paradisi fiscali; sviluppo delle produzioni del comune e per il
comune (salute, cura, innovazione tecno-scientifica, ecc.); sostegno
senza sosta alla formazione pubblica; lotta senza quartiere, e a partire
dalla scuola d’infanzia, contro il patriarcato; implementazione della
bellezza (urbana, del paesaggio, culturale); ecc.
10. Soviet
Scriveva Lenin nell’aprile del 1917: «Il problema fondamentale di tutte le rivoluzioni è quello del potere dello Stato».
Partiamo
dunque dalla domanda: cos’è, oggi, il potere dello Stato? Lo Stato è
ancora, così come appariva a Lenin, e con lui ai comunisti del
Novecento, il luogo di massima concentrazione del potere politico?
Conveniamo
con chi, descrivendo la razionalità neoliberale, ha contestato le
retoriche che in questi anni molto hanno insistito sull’evaporazione
dello Stato, o celebrato i fasti dello «Stato minimo».
Il modello
ordoliberale europeo, per un verso, ma più in generale il peso degli
stati nei processi di neoliberalizzazione che hanno travolto l’Est del
mondo (Cina e Russia in particolare), mostrano uno scenario del tutto
diverso. Altrettanto, però, sappiamo quanto la globalizzazione
neoliberale abbia stravolto lo spazio e i poteri.
Ai confini
nazionali si sono sostituiti le zone economiche speciali, i corridoi, i
flussi, gli accordi transnazionali, ecc. Tanto che non è più possibile
far coincidere il potere politico, la sua efficacia, con il potere dello
Stato.
Quest’ultimo, semmai, è un attore importante dei processi
di neoliberalizzazione («riforme strutturali»), senza mai essere il
regista unico o privilegiato degli stessi. L’esaurimento dell’egemonia
americana, la definizione di un mondo propriamente multipolare, non
cancellano la globalizzazione; la articolano secondo traiettorie
inedite, anche dal punto di vista delle crisi belliche.
Il breve
testo di Lenin di cui sopra, interrogando il potere dello Stato dopo la
rivoluzione di febbraio, qualifica un fenomeno politico decisivo: il
«dualismo di potere».
Da una parte il governo della borghesia,
dall’altra, seppur embrionale, il governo dei Soviet degli operai, dei
contadini, dei soldati.
Il secondo è un potere – parole di Lenin –
«dello stesso tipo della Comune di Parigi del 1871»: alle norme e ai
parlamenti si sostituisce l’iniziativa diretta e dal basso, agli
eserciti e alle polizie il popolo in armi, alle burocrazie il mandato
imperativo.
Senza dualismo di potere, senza esemplificazione e
approfondimento di un’altra forma di governo, non è possibile la
rivoluzione, l’abbattimento del governo borghese.
Nel criticare i
sindacati, Antonio Gramsci presenta il consiglio di fabbrica – dove al
semplice salariato si sostituisce il «produttore», un soggetto che
decide sulla cooperazione sociale – come «il modello dello Stato
proletario».
Ancora: la dittatura del proletariato non è che la confluenza di nuove «esperienze istituzionali della classe oppressa».
Proprio
ora che lo Stato non concentra più l’interezza del potere politico,
proprio ora che nuovi assemblaggi articolano la governance globale, oggi
che il lavoro vivo ha conquistato densità relazionale, linguistica,
affettiva, il dualismo di potere perde il suo carattere temporaneo per
divenire il terreno privilegiato e permanente dell’iniziativa comunista.
Ciò non impedisce, anzi, di cogliere le occasioni e di andare al governo, quando congiunture positive lo consentono.
E
non cancella la consapevolezza che il regime neoliberale spesso
mobilita e cattura i processi di auto-organizzazione, facendone terreno
di contesa. Ciò vuol dire, però, che senza una fitta rete (fortemente)
transnazionale di contro-poteri, di Soviet, anche la conquista della
Stato non fa la differenza, è destinata a non lasciare tracce durature.
Alla
Comune si devono dunque affiancare fenomeni di sindacalismo
rivoluzionario, vere e proprie istituzioni del lavoro vivo dove lotta di
classe e processi di politicizzazione, conflitto e auto-governo
procedono di pari passo.
11. Futuro
Pur stando nel movimento
reale del lavoro vivo, nelle lotte che fanno valere gli interessi
immediati, i comunisti esibiscono l’«avvenire del movimento» stesso:
così si conclude il Manifesto del 1848.
Esibire l’avvenire, farlo
vivere nelle lotte singolari, significa – lo abbiamo appreso poco fa con
Gramsci – consolidare «esperienze istituzionali della classe oppressa».
Significa,
anche, riconquistare il futuro, la prefigurazione, dopo troppi anni nel
segno della distopia, con un presente che tiene stretti e senza fiato,
come fosse una gabbia; anni di svalutazione neoliberale della raffinata
arte proletaria dell’organizzazione e del progetto.
Fare piani, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la collettivizzazione forzata a mezzo di violenza di Stato.
Ma
vuol dire, nell’orizzontalità delle lotte, allargare a dismisura il
possibile; stare nel movimento elaborando – istituzionalmente – le sue
virtualità; delineare paradigmi e strumenti per una governamentalità del
comune.
Progetto comunista, allora, è un nuovo costruttivismo,
dove produzione, riproduzione, decisione politica e forme di vita si
fanno (finalmente) inseparabili.