il manifesto 9.11.17
Shane Bauer: «Il mio lavoro sotto copertura nell’America violenta e ingiusta di Trump»
Parla
il reporter investigativo che si è arruolato nelle milizie al confine
Usa-Messico e ha vestito la divisa dei secondini in una delle prigioni
private più vecchie e temute del profondo sud per raccontare il paese.
«Le milizie paramilitari, composte da suprematisti bianchi e anti
musulmani, si fidano solo di Trump e si stanno preparando al peggio,
addestrandosi come un esercito».
di Guido Caldiron
Per
indagare sulle milizie anti-immigrati ha passato giorni e notti lungo
il confine tra Messico e Stati uniti, indossando una mimetica, con una
radio in spalla e una carabina Roger Mini-14 tra le braccia. Per
scoprire perché migliaia di detenuti avevano iniziato uno sciopero della
fame in tutto il paese, ha vestito la divisa dei guardiani in una delle
prigioni private più vecchie e temute del profondo sud.
Per Shane
Bauer il giornalismo è una questione di pelle e non solo di principi.
Se per arrivare a scoprire qualcosa c’è bisogno di mettersi in gioco
fino in fondo, lui non si tira indietro.
36 anni, già studente di
Berkeley, giornalista investigativo di Mother Jones, una delle voci più
significative della stampa progressista, dopo aver lavorato a lungo in
Medioriente per diverse testate statunitensi e aver passato, dal 2009,
quasi due anni nelle prigioni iraniane insieme ad altri due free-lance,
Bauer – che è stato quest’anno tra gli ospiti del Festival di
Internazionale a Ferrara -, ha indagato alcuni degli aspetti più
inquietanti della realtà del suo paese, dove la violenza, il feticismo
per le armi e le ideologie dell’odio dominano la scena, fino a comporre
il ritratto di una società violenta in cui si può morire ogni giorno
quasi per caso.
Reporter di guerra in Medioriente e giornalista investigativo in patria, come sono andate le cose?
Quando
sono tornato nel mio paese, dopo aver passato molto tempo tra
Kurdistan, Iraq, Siria e Iran, mi sono accorto che solo un lavoro sotto
copertura mi avrebbe consentito di arrivare alle informazioni che
volevo; far luce su delle realtà scomode o complesse. Erano in corso
rivolte e scioperi della fame in diverse prigioni e ho capito che solo
entrando in quei posti avrei potuto documentare quello che accedeva. La
stessa cosa è successa con le milizie: solo dall’interno potevo capire
cosa covava in quegli ambienti. E non è stato neppure difficile. Per il
posto da guardiano ho inviato una domanda e mi hanno preso in un paio di
settimane, mentre per contattare le milizie mi sono creato un profilo
facebook e con quello ho conosciuto dei militanti. Nessuno mi ha fatto
troppe domande. Qualcosa ho certamente rischiato, ma alla fine è andato
tutto bene.
Il no all’immigrazione ha portato Trump alla Casa
Bianca; lei ha passato mesi tra i miliziani della «3% United Patriots»
lungo il confine con il Messico. Gruppi pericolosi e legati in che modo
con la politica?
Le milizie paramilitari «patriottiche» sono nate
nella prima metà degli anni Novanta ma hanno conosciuto uno spettacolare
revival dopo l’elezione di Obama. Nelle loro fila ci sono anche dei
suprematisti bianchi, ma più che la questione razziale in quanto tale,
la loro vera ossessione sono i migranti irregolari e il timore che le
autorità possano regolamentare il possesso di fucili e pistole. Per lo
più si tratta di maschi bianchi della working class, xenofobi e
anti-musulmani, ostili anche a movimenti come Black Lives Matter e alle
femministe. Si fidano poco dei politici, ad esclusione del solo Trump, e
si stanno preparando al peggio, addestrandosi come un esercito.
Nel 1995 da simili gruppi emersero i responsabili della strage di Oklahoma City. Una storia che rischia di ripetersi?
Quel
terribile attentato che fece 168 vittime fu compiuto da persone che si
opponevano a Washington e al presidente dell’epoca che era Bill Clinton,
mentre oggi gli estremisti sembrano in sintonia con la Casa bianca.
Temo piuttosto un conflitto all’interno della società, che i razzisti se
la prendano con chi si oppone loro, come è accaduto a Charlottesville
il 12 agosto. E la grande circolazione delle armi può fare il resto,
alimentando nuove stragi di innocenti, come accade ogni settimana.
Lei ha seguito anche un recente raduno della Alt-Right, si tratta di un ambiente così lontano da quello delle milizie?
In
questo caso abbiamo a che fare con dei giovani del ceto medio, spesso
si tratta di studenti universitari che hanno avuto a lungo come
obiettivo quello di una rielaborazione ideologica del vecchio
suprematismo bianco. I gruppi della Alt-Right operano nei campus e sui
social mescolando riferimenti alla Storia americana e alla nuova destra
europea. Perciò, si tratta di un ambiente diverso da quello delle
milizie, anche se oggi, grazie alla presenza di Trump, tutte queste
realtà finiscono per battersi per le stesse cose: contro la sinistra,
contro gli immigrati e i musulmani.
Prima di infiltrarsi tra le
milizie, ha fatto per 4 mesi il guardiano in una prigione privata della
Louisiana. Ha capito qualcosa in più del suo paese?
Certamente,
che si tratta di una società violenta e ingiusta. Quel carcere si trova
in una contea povera di uno Stato tra i più poveri del paese. I lavori
più ambiti sono la segheria, Wal-Mart e il carcere. La vita dentro la
prigione era durissima, regolata solo dalla logica del profitto. Gli
stipendi dei guardiani erano da fame e i detenuti che stavano male non
erano portati in ospedale perché altrimenti bisognava pagare le spese
del ricovero. C’era pochissimo personale, spesso ragazzini appena usciti
da scuola. Ho visto molta violenza, ma soprattutto disinteresse, anche
da parte della direzione. Il responsabile delle guardie ripeteva di
continuo, «che senso ha rischiare la pelle per meno di 9 dollari
all’ora. Se i detenuti si vogliono accoltellare a vicenda, lasciamoli
fare».
Ma nell’America delle «fakenews» e di Trump c’è ancora spazio per il giornalismo investigativo?
In
realtà credo che proprio ora questo lavoro possa assumere un
significato ulteriore. Ogni volta che delle informazioni su un soggetto
di interesse pubblico non sono ottenibili altrimenti, il muoversi sotto
copertura diventa l’unica strada. Le inchieste sulle prigioni private e
sulle milizie non avrebbero potuto essere realizzate in altro modo. Sono
convinto che il nostro ruolo come giornalisti sia quello di chiedere
conto a chi detiene il potere di quello che sta facendo. E forse questo è
il momento più opportuno per farlo.