il manifesto 7.11.17
Ottobre, l’anniversario senza operai
di Rita Di Leo
Si
stanno svolgendo molti eventi sulla rivoluzione bolscevica. Pochissimi
quelli nostalgici, molti invece quelli che usano l’anniversario per
rispolverare antichi odi. Descritti sono i capi, da un lato il
prediletto Kerenski che avrebbe evitato l’estremismo bolscevico e
dall’altro Lenin e Trotsky, gli autori del «colpo di stato» è
prolungatosi fino al 1991. Intanto è riemersa la famiglia reale,
giustiziata dall’ebreo Sverdlov, ed oggi santificata.
A leggere le
ricostruzioni dei mass media, i programmi dei convegni ti chiedi dove
sono finiti gli operai e i contadini, in nome dei quali Lenin fece la
rivoluzione e cioè si impadronì del governo e dello stato. La loro
assenza non riguarda solo l’anniversario dello sciopero delle officine
Putilov o dell’occupazione delle terre, pur a volte sfiorati. È la
presenza operaia e contadina ad essere quasi assente nella ricostruzione
ufficiale.
Non è così per gli intellettuali e per i politici
bolscevichi. Molti sono i libri di denuncia o esaurienti ricerche
storiche sui processi cui vennero sottoposti gli avversari del
successore di Lenin, e appassionate discussioni intercorrono tra gli
esperti occidentali sul numero di «lavoratori della mente», sui poeti,
sugli artisti, finiti nei lager insieme ai criminali comuni e agli ex
contadini ricchi.
A Stalin infine si imputa lo sterminio per fame
di milioni di contadini ucraini e anche questo ‘compito’ fu affidato ad
un ebreo l’ucraino Kaganovic, uno tra i suoi più fedeli politici
professionali.
Ma gli operai? Gli attori della rivoluzione
proletaria? Tutti nei gulag anche gli operai? Se così fosse avrebbero
meritato l’attenzione degli storici occidentali. I quali invece se ne
sono interessati pochissimo: Sheila Fitzpatrick per spiegare l’origine
operaia del ceto politico dirigente voluto da Stalin, e David Filtzner
per analizzare le leggi anti operaie sul libretto di lavoro, e le misure
sulle infrazioni.
Mi è capitato di chiedere al bravissimo
Filtzner (scappato in Europa per non andare in Vietnam) se era mai
entrato in una fabbrica sovietica. La risposta fu: purtroppo no. Se vi
fosse entrato avrebbe capito che le leggi draconiane erano disattese
innanzitutto dai dirigenti ex operai, dai sindacati, dalla cellula del
partito.
All’epoca dell’industralizzazione la fame di lavoro era
tale che gli operai delle grandi fabbriche erano circuiti con benefit
(un orologio, un taglio di stoffa, un tagliando per “lotterie”) perché
non lasciassero il posto per un’altra fabbrica che aveva promesso un di
più. Il padre di Putin, operaio modello, fu premiato con un appartamento
e gli fu perfino fatta vincere un’automobile ad una lotteria.
Quando
in Urss ti capitava di essere portato a visitare una fabbrica due cose
ti colpivano: la prima erano gli enormi cartelloni con le facce degli
operai modello che dovevano essere di sprone, e la seconda era il clima
di disinteresse per il lavoro da fare. E il «capoccia», non c’era un
caposquadra? C’era e aveva il comportamento giusto per quel clima, un
dare per avere.
Altro che minacce di licenziamenti e multe come
nelle fabbriche occidentali. Se la sua squadra gli faceva il piacere di
consegnare nei termini della norma il lavoro assegnatogli, allora
qualcosa sottobanco sarebbe andata a tutti. Degli operai modello –
udarniki, stakanovisti – si diffidava, servivano a far aumentare le
norme di lavoro e spesso andavano via, scelti per far carriera nel
sindacato, nel partito.
E dunque Lenin aveva fatto la rivoluzione
per il socialismo e Stalin aveva messo il socialismo nelle mani degli ex
operai e contadini, ma è sul risultato che a cento anni di distanza
manca il semplice racconto su quello che è successo al socialismo di
Lenin con gli ex operai al governo e gli operai invece al lavoro.
Molte
lacrime abbiamo trattenuto per il destino di Babel, un po’ meno per la
moglie di Bucharin. Detto ciò rimane da chiedersi che cosa sappiamo di
coloro in nome dei quali i Babel sono stati sacrificati. Veramente poco.
E
dalle statistiche apprendevamo quanti chili di carne mangiavano, i
metri abitativi per abitante e il confronto con i livelli europei era
solitamente sfavorevole per i sovietici. Intanto però nessuno metteva in
dubbio fosse stata raggiunta la parità strategico-militare dell’Urss
con l’altra potenza, o la sua capacità di viaggiare nello spazio come
l’America. E dunque esistevano tecnici e operai di livello pari ai loro
avversari, al lavoro in località ancora più inaccessibili di quella in
cui gli americani avevano costruito la prima bomba atomica.
Nel
resto del paese operai, contadini, impiegati, insegnanti, medici
sperimentavano la gestione popolare di governi affidati a ex operai come
gli ucraini Kruschev e Brezhnev. Quando dalla provincia russa arrivò
uno con la laurea in legge come Gorbachev, s’intestò di far funzionare
l’Urss alla maniera occidentale e l’Urss sparì.
Tornò la Russia e
gli operai presero a essere considerati unità di lavoro, in balia del
mercato, licenziati e assunti, senza più l’ideologia della rivoluzione a
legittimare il loro stare in fabbrica come nessun operaio mai prima era
stato, libero di lavorare oppure di fermare la catena di montaggio per
farsi una sigaretta. Ne sono stata testimone.