il manifesto 3.11.17
«Dichiarazione Balfour, un documento di matrice coloniale»
Israele/Palestina.
Intervista al docente Roberto Mazza dell'università di Limerick. «Per
alcuni quella dichiarazione britannica è stata un gesto umanitario ma
accademici e commentatori convergono che fu parte di una politica
coloniale»
di Michele Giorgio
GERUSALEMME I
motivi e il contesto che portarono, il 2 novembre di cento anni fa, alla
Dichiarazione Balfour da parte della Gran Bretagna sono al centro di un
inteso dibattito in questi giorni. Ne abbiamo parlato con il professor
Roberto Mazza, docente di storia all’università irlandese di Limerick.
Mazza, autore di numerose pubblicazioni sulla genesi di Israele e sulla
Palestina, ha partecipato ieri alla conferenza a Gerusalemme “100 years
after- Balfour and beyond”, assieme agli storici Avi Shlaim e Salim
Tamari.
I palestinesi condannano con forza la Dichiarazione
Balfour. Israele al contrario festeggia quel documento fondamentale per
la sua nascita nel 1948.
La Dichiarazione Balfour non ha avuto dei
risultati immediati dopo il suo annuncio. Ha avuto un grande effetto
dopo che fu inserita, nel 1920, nel contesto legale del Mandato
Britannico in Palestina. Soprattutto a livello di propaganda e anche
psicologico. Chaim Weizman (tra i principali leader sionisti e primo
presidente di Israele, ndr) riuscì attraverso la promessa (della
creazione di uno Stato ebraico in Palestina) a mettere insieme i pezzi
del movimento sionista spaccato al suo interno. Con l’inclusione della
Dichiarazione nel Mandato britannico parliamo di un sionismo più unito,
coloniale e di occupazione.
Quanto i palestinesi furono consapevoli della portata della Dichiarazione Balfour.
Sebbene
l’élite palestinese fosse a conoscenza della Dichiarazione, per un paio
d’anni non riuscì a comprenderne il senso e quanto fosse importante ed
effettiva. Solo dopo la sua inclusione nel Mandato britannico i
palestinesi si sono resi conto che la promessa (di Balfour) era
diventata qualcosa di più tangibile. I britannici non solo avevano
promesso ma anche aiutavano il movimento sionista.
La
Dichiarazione Balfour fu, come ancora oggi sostiene la storiografia
tradizionale, un gesto umanitario a favore degli ebrei vittime delle
persecuzioni e dell’antisemitismo, oppure rappresentava un tassello nel
disegno britannico di ridefinizione del Medio Oriente dopo la fine
dell’impero Ottomano.
Per alcuni è stato un gesto umanitario ma la
grande maggioranza degli accademici e dei commentatori convergono che
fu parte di una politica coloniale. Magari da un punto di vista
personale qualcuno aveva l’idea di supportare gli ebrei di fronte ai
progrom che accadevano nell’Europa dell’est. Ciò nonostante la
Dichiarazione Balfour fu un documento di matrice coloniale.
Uno
storico arabo, Bashir Nafi, sostiene che i britannici non hanno mai
fatto riferimento a uno “Stato” in Palestina ma solo una “national home”
per gli ebrei.
Vero, il genio dei britannici ha creato una parola
senza nessun vero significato. In italiano “national home” fu tradotto
come “focolare nazionale”. Di questo i sionisti hanno fatto un punto.
Per loro significava un “focolare” che sarebbe diventato uno Stato, per i
britannici era semplicemente una parola per non usare “Stato”. Per gli
arabi era un grande punto di domanda: cos’è? E sotto gli occhi degli
arabi la situazione si è evoluta: prima il Mandato britannico, poi la
formazione di uno Stato e oggi siamo all’occupazione anche di
Cisgiordania e Gaza.
Dopo la Grande rivolta araba del 1936-39, che
pure avevano represso brutalmente, i britannici cominciano ad
avvicinarsi ai palestinesi. Il famoso “Libro Bianco” del 1939 ne offre
una dimostrazione visto che non prevede più la creazione di uno Stato
ebraico, punto che scatenò la reazione, anche armata, dei militanti
sionisti, specialmente quelli di destra.
C’erano sempre tante
domande sulla possibilità di trovare un ponte tra due tendenze, tra lo
stabilire una colonia ebraica in Palestina e le rivendicazioni dei
palestinese. Con gli anni Trenta però i britannici, ai quali la
Palestina comincia a costare molto sotto ogni punto di vista, si rendono
conto che le loro politiche in Palestina sono in conflitto. Pensano
perciò a un solo Stato, preconizzando una soluzione di cui oggi si
comincia a discutere.
Poi arriva la Seconda guerra mondiale e a
questo punto riemerge un interrogativo al centro del dibattito tra gli
storici. Quanto l’orrore suscitato in Europa e nel mondo dall’Olocausto,
dallo sterminio di milioni di ebrei compiuto dai nazisti, spinse i
britannici, a cominciare dai laburisti, e i leader mondiali a realizzare
la promessa di Balfour, procedendo alla partizione della Palestina nel
1947 e alla creazione dello Stato di Israele l’anno successivo.
Sul
terreno i sionisti apparivano già vincenti, tuttavia l’Olocausto
diventa importante nel momento in cui si deve giustificare la nascita di
Israele. E l’Olocausto resta centrale per la sopravvivenza di Israele
anche nel post 1948. Per motivi politici, con le potenze europee che
chiudono un occhio sulla guerra e sui massacri che avvengono in
Palestina. Per la sinistra europea (in quel periodo) sostenere lo Stato
ebraico è ovvio, anche per la sua natura socialista. Cosa facciamo con
gli arabi? Questa domanda non ha mai avuto una risposta. Gli arabi, i
palestinesi, non erano responsabili dell’Olocausto però ne hanno pagato
il prezzo.