il manifesto 3.11.17
Quando Pompei parlava in greco
Intervista.
Carlo Rescigno, curatore insieme a Massimo Osanna della mostra presso
la Palestra Grande degli scavi di Pompei, racconta come «la
romanizzazione fu un modo per integrare in un nuovo sistema economico un
patchwork di culture che componevano l’Italia di quel periodo»
di Valentina Porcheddu
«Quando
gli scavi restituiscono un oggetto proveniente da un mondo lontano ci
si interroga sempre sul suo significato, su come sia arrivato in quel
contesto e se sia il frutto di un semplice scambio commerciale o non
entri piuttosto in gioco il concetto di identità». Carlo Rescigno,
docente di Archeologia classica presso l’università della Campania
«Luigi Vanvitelli» è il curatore, insieme a Massimo Osanna, della mostra
Pompei e i Greci (visitabile fino al 27 novembre presso gli Scavi di
Pompei, Palestra Grande, con l’organizzazione di Electa).
È un
percorso ideato dalla Soprintendenza archeologica della Campania allo
scopo di esplorare il rapporto tra Pompei e gli organismi politici,
sociali e culturali che la attraversavano. La rassegna esprime la
volontà di spiegare al grande pubblico cosa significhi per un archeologo
fare ricerca su temi che concernono gli incontri di culture. Il
progetto espositivo porta la firma di Bernard Tschumi, l’architetto
svizzero al quale si deve la realizzazione del nuovo Museo dell’Acropoli
di Atene. Partecipa, inoltre, all’allestimento lo studio canadese
Graphics eMotion mediante tre installazioni multimediali che
intensificano l’esperienza del visitatore.
Il corposo catalogo
(Electa) raccoglie saggi interdisciplinari, fra cui vale la pena
segnalare i contributi dell’antropologo Francesco Remotti e dello
storico Irad Malkin. Interessante anche la parte del volume intitolata
Hellenika, con aggiornamenti puntuali su ogni aspetto degli studi
pompeiani: Abitare, Consumare vino, Leggere, Viaggiare sono solo alcune
delle sezioni che approfondiscono i contenuti dell’esposizione.
Se
consideriamo il Mediterraneo antico come uno spazio dove si muovevano
differenti gruppi etnici, possiamo affermare che quest’ultimi non
fossero dei «monoliti» ma che condividessero linguaggi «franchi» e
interagissero anche attraverso gli oggetti?
Oggi si parla del
Mediterraneo come «reti di culture», fenomeni articolati ma permeabili
in cui conoscenze e acquisizioni travalicano confini etnici. Ciò che in
passato consentiva la diffusione delle informazioni era un sistema
culturale aggregante, che non stabiliva cioè gerarchie come invece
accadeva – e accade ancor oggi – nel caso di identità etniche chiuse,
escludenti.
Marte, affresco nella Casa di Venere, Pompei
Come si traduce questo pensiero nell’esposizione pompeiana?
Abbiamo
provato a riversare nella mostra cos’abbia significato, per Pompei,
entrare in contatto con il mondo greco e affacciarsi sull’orizzonte
mediterraneo. Seguendo l’evoluzione cronologica dalle origini della
città fino alla distruzione del 79 d.C. emerge il rapporto tra culture
diverse ma soprattutto la formazione di culture miste, ibride. Processo
favorito, agli inizi, dalla circolazione degli artigiani.
La
rassegna rivela come in una Campania ancora priva di città dal carattere
univocamente riconoscibile, ci fosse un mondo fluido in cui le presenze
etrusche, italiche, greche e magnogreche (Cuma da un lato, Poseidonia
dall’altro) convivevano nel rispetto dei reciproci interessi economici. È
proprio in questo quadro che – nel VII sec. a.C. – venne fondata, su
spinta etrusca, Pompei.
Gli artigiani che lavorarono alla
costruzione della città erano Greci o provenivano dalla Capua etrusca.
Nel santuario di Apollo, furono maestri cumani a decorare l’edificio con
modanature in pietra lavica e un tetto di tipologia campana composto da
terrecotte architettoniche.
Quali reperti testimoniano al meglio il fermento culturale che ruotava attorno a Pompei?
Attraverso
le iscrizioni sappiamo che in Campania si parlavano più lingue: il
greco – alla maniera di Cuma e nel dialetto dorico di Poseidonia –,
l’etrusco nelle varianti di Tarquinia e Cerveteri o Capua, senza
tralasciare l’italico e, ovviamente, il latino. La lingua era soggetta a
un uso sociale e non corrispondeva necessariamente all’identità etnica.
Nel percorso espositivo c’è una vetrina con iscrizioni parietali
risalenti all’ultima fase di vita di Pompei. Nel I sec. d.C. si
insegnava ancora il greco ma è importante osservare come questa lingua
venisse utilizzata solo quando si aveva a che fare con espressioni
letterarie, l’amore e la cura del corpo femminile.
La fascinazione
per il mondo greco ebbe il suo apice in epoca romana, seppur con
differenze sostanziali rispetto al periodo arcaico…
Nella Pompei
romana la Grecia sarà un modello meditato a cui ispirarsi e l’ellenismo
una filosofia e una moda da seguire. Basti pensare al celebre mosaico
che raffigura la battaglia di Alessandro Magno contro Dario III di
Persia rinvenuto nella domus del Fauno. Duecento anni dopo quell’evento,
l’opera diviene uno strumento di comunicazione del potere. Roma,
insomma, si impossessa del modo di rappresentare il mito per dargli
nuovi significati. Un altro oggetto indicativo esposto in mostra è
un’hydria del V secolo a.C. – premio dei giochi Argivi – che, assieme ad
altri vasi, costituiva il lussuoso corredo della casa di Giulio
Polibio.
Pompei, soprattutto in conseguenza dell’eruzione che
fermò per sempre il tempo al 79 d.C., è considerata la città romana per
antonomasia. Questa mostra va controcorrente?
La romanizzazione fu
un modo per integrare in un nuovo sistema economico un patchwork di
culture che componevano l’Italia di quel periodo. Anche in questo caso
si è trattato di un processo culturale e non etnico. Pompei è dunque a
tutti gli effetti una città romana ma con una stratificazione complessa.