Corriere 3.11.17
Etiopia
A casa di Lucy
Nella valle
dell’Omo furono ritrovati i resti della prima donna, «la bellissima».
Lì ancora vivono alcune tra le tribù più antiche del mondo: volo sulla
storia dell’umanità con alcuni dubbi. Ma il turismo «responsabile» li
protegge davvero?
di Antonella De Gregorio
Dici
valle dell’Omo e immagini l’immensa voragine della storia. Perché sta
nella Rift Valley, quella lacerazione della terra originata milioni
d’anni fa, che si estende dal Medio Oriente al Mozambico, punteggiata di
crateri di vulcani e laghi. Perché sono le viscere di questa terra che
hanno restituito all’uomo moderno i resti della prima donna, Lucy – o
Dinknesh , la «bellissima» – fossile umanoide di 3 milioni e mezzo
d’anni. Atterri ed entri in una macchina del tempo, che ti consente di
gettare uno sguardo sulla vita di millenni fa.
Dalla capitale,
Addis Abeba, si esce in direzione sud. Passata l’estesa cinta di
periferia, il cemento disordinato lascia spazio al verde brillante dei
campi. Ovunque gruppi di bambini e donne che camminano per chilometri
con gli immancabili contenitori di plastica gialla, per raggiungere le
rare fonti d’acqua. Le capanne dipinte degli Oromo son visibili per gran
parte della strada che porta ai confini con il Kenya. Casupole di
sottili tronchi d’eucalipto e di un impasto d’erba e fango. I chioschi
che vendono birra artigianale hanno come insegna un bastone conficcato
nel terreno con sopra, in equilibrio, una tazza di metallo e una
bottiglia di plastica vuota. In grossi sacchi di tela si vendono tozzi
di carbone, per l’elaborato rito del caffè. Al tramonto, donne chine sui
campi di teff , la cui farina è materia prima per il cibo nazionale, la
‘njera , una focaccia spugnosa con cui accompagnare le pietanze.
Man
mano che si procede a sud, verso l’Equatore, l’altopiano cede il passo a
basse pianure infestate dalla mosca tze tze; i campi verdissimi
coltivati alle savane; il fresco all’umidità tropicale; le genti
semitiche alle scure popolazioni nilotiche. Sullo sfondo di paesaggi
ancora incontaminati, si apre il bacino dell’Omo, che sgorga a 2.500
metri d’altezza e corre per 800 chilometri, fino al lago Turkana. Sono i
territori abitati da un mosaico di pop oli, un’umanità diversa e unica,
sopravvissuta lontano e fuori dalle vicende del mondo, con un’economia
di sussistenza, ancorata a tradizioni e stili di vita ancestrali.
Un
itinerario circolare di un migliaio di chilometri, da percorrere in
fuoristrada, che tocca le cittadine di Jinka, Konso, Turmi, Omorate e si
spinge fino al deserto del Kenya settentrionale e a lambire i bordi del
Sudan. Un’avventura da vivere con realismo e disincanto. Si soggiorna
in lodge spartani o tende. Si cercano spazi di preistoria, ma con la
consapevolezza di un rapporto delicato con culture primordiali e
intense. Una ricchezza umana e culturale esposta al rischio di una
modernizzazione che può rivelarsi pericolosa. Tribù cha hanno in comune
la religione animista, la poligamia, le scarnificazioni corporali, la
nudità, il p otere dei maschi e la subalternità delle donne. Ma alcune
etnie vivono di agricoltura, altre di pastorizia, altre ancora di caccia
e di pesca. Le acconciature sono la cifra distintiva di ciascuna tribù:
una babele di treccine spalmate di burro, riccioli, crani rasati a
linee geometriche, ciuffi scolpiti, tinti con impasti di terra. Grande
l’attenzione al corpo, che viene disegnato, ornato, abbellito con
polveri e monili d’osso, piume, cuoio, perline. E il piattello labiale
delle donne Mursi: simbolo di appartenenza, forse di bellezza. Età,
status sociale. Oggi, anche, fonte di reddito.
Già, i Mursi.
Intanto devi raggiungerli. Arrivare a Jinka, che sta diventando, la
città della perdizione, quella dove vanno a bersi i birr – la moneta
locale - ricavati con le foto in costume tradizionale. Da lì, 60
chilometri di pista argillosa, un passo scenografico che scavalca una
montagna e apre la vista alla vallata del parco del Mago. Savana aperta e
foresta, e ranger armati, per evitare scontri tra gruppi e scongiurare
aggressioni ai turisti. I Mursi occupano vaste aree del Mago. Coltivano e
allevano bestiame, usato anche per pagare le doti delle spose. Forgiati
da clima torrido e pratiche guerriere che li hanno preservati per molto
tempo da qualsiasi contatto con la modernità, vivono liberi e ancorati a
un passato che si sta assottigliando. Per entrare nei loro villaggi,
isolati e miseri, si paga una tassa alla comunità, che servirà per
costruire pozzi, scuole, presidi medici. Si contratta il prezzo di ogni
fotografia. Con gli altri (pochi, pochissimi) turisti mediamente
«responsabili» in circolazione, una costante sensazione di imbarazzo:
aspettativa, illusione di un privilegio che tutti, un po’, temono si
riveli un boomerang. Non ti lascia mai il dubbio: la nostra presenza
qui, a loro, giova? Li aiuta a conservare tradizioni che altrimenti
andrebbero smarrite o li spoglia della dignità, ne fa mendicanti in casa
propria? Resta la meraviglia, la straordinarietà dell’incontro, ma
anche la sensazione di sentirsi fuori posto.
Poi le altre tribù: i
Sidamo che vivono nelle piantagioni di caffè, a sud del lago Awasa. I
Borana, al confine con il Kenya: allevatori semi nomadi conosciuti per i
«pozzi cantanti», un sistema di estrazione dell’acqua con spettacolari
catene umane che si passano secchi ricolmi intonando canzoni per
smorzare la fatica. Gli Hamer, le loro donne bellissime e orgogliose,
che portano i capelli coperti di argilla e burro, indossano gonne di
pelle di capra e portano pesanti collane di pelle e metallo, i busti
segnati dalle cicatrici rituali, a dimostrare coraggio.I Karo, con i
corpi dipinti di calce e polveri minerali. I Dassanech, installati sulle
due rive del fiume, in un territorio reso fertile dalle inondazioni del
delta dell’Omo, che qui si allarga fino a dissolversi nel lago Turkana.
E i Konso, popolo di montagna: infaticabili coltivatori, hanno scolpito
con terrazze e canali un paesaggio unico che l’Unesco ha dichiarato
patrimonio dell’umanità.
Una varietà di culture e tradizioni, la
cui sopravvivenza è legata al grande fiume, alla cadenza delle
esondazioni che rendono fertile la terra polverosa, dissetano il
bestiame. Un sistema delicato, minacciato non solo dal turismo, ma anche
dalla gigantesca diga che il governo etiope ha commissionato nel 2006 a
una ditta italiana, ora arrivata a compimento. Quella sopraelevata di
pali e cavi dell’alta tensione riduce la portata dell’Omo, interrompendo
il ciclo naturale delle piene. Incidendo in maniera dolorosa su realtà
naturali e antropologiche, sopravvissute immutate per millenni.