il manifesto 30.11.17
Il corpo della donna e quello di Ny
Televisione.
Disponibili su Netflix i dieci episodi della prima serie di Spike Lee,
«She’s Gotta Have it», remake del suo «Lola Darling» del 1986
di Giovanna Branca
Seduta
sul letto, guarda in camera e parla con lo spettatore: come nel film di
ormai trentun anni fa la Nola Darling di Spike Lee – in Italia il suo
nome era stato cambiato in Lola – è una giovane e bellissima artista
nera di Brooklyn, piena di vita e insofferente verso la monogamia.
She’s
Gotta Have it, il film del 1986 di cui era la protagonista, è ora anche
una serie tv-remake creata per Netflix dallo stesso Spike Lee, anche
produttore esecutivo insieme alla moglie Tonya e regista di tutti e
dieci gli episodi disponibili sulla piattaforma streaming dal 23
novembre.
«La gente parla di me, ma non mi conosce» dice dunque
Nola (DeWanda Wise) allo spettatore in apertura del primo episodio
«#DaJumpoff (DOCTRINE)»: il «problema» della sua identità nello scarto
fra percezione interiore e lo sguardo degli altri è al cuore della sua
vicenda di donna orgogliosamente libera e determinata a essere chi e
come vuole. Come nella storia originale, la protagonista si destreggia
infatti fra tre amanti che vorrebbero l’esclusiva: l’uomo d’affari Jamie
Overstreet, l’adone narcisista Greer Childs e il giovane e squinternato
che vive nelle case popolari di Brooklyn – ma vorrebbe trasferirsi da
Nola – Mars Blackmon, il ruolo che nel 1986 Spike Lee aveva ritagliato
per se stesso e che ora è interpretato da Anthony Ramos.
Rispetto
al film la serie tv – quasi un musical sulle note della musica black che
scandisce l’azione, da Miles Davis a Mary J. Blige – introduce e
approfondisce anche altri personaggi, come le amiche di Nola e i loro
personali fantasmi. Ma anche l’arte stessa della protagonista diventa
una parte integrante della narrazione e del personaggio: i suoi quadri –
su cui il film non si soffermava – dipingono il mondo come Nola lo vede
e lo desidera, si oppongono anch’essi a un’immagine di lei imposta
dall’esterno. «Non permetterò a loro di dipingere la mia vita», dice
Nola – grande cinefila – dei suoi tre amanti che come in Rashomon di
Kurosawa hanno ciascuno una diversa prospettiva su di lei – e su ciò che
da lei vorrebbero.
I trent’anni trascorsi dall’uscita di She’s
Gotta Have it (da noi Lola Darling) permettono a Lee di indagare nella
contemporaneità non solo una soggettiva femminile emancipata – che
rivendica la differenza e l’amore per il piacere fisico – ma anche
quanto la percezione di questa emancipazione si sia evoluta, o risenta
ancora di vecchi pregiudizi, nel corso del tempo. E gli permette anche
di fare ammenda di quello che nella sua autobiografia era citato come
uno dei suoi più grandi rimpianti cinematografici: la scena dello stupro
di Nola nel film originale, della quale Lee dice di rammaricarsi perché
all’epoca comprendeva a un livello troppo superficiale le implicazioni
di una simile violenza.
Lo scarto principale impresso su She’s
Gotta Have it dal passaggio del tempo è però quello visibile
sull’epidermide dell’altra grande protagonista del film – e imperituro
amore del filmmaker: New York, e qui in particolare le strade di
Brooklyn che nelle prime sequenze ci vengono mostrate con le immagini di
allora e di oggi. È la gentrificazione, il «vampirismo» con cui agenzie
immobiliari e classi agiate cercano di svuotare il quartiere da chi lo
abita da decenni, in primo luogo famiglie african american come quella
della protagonista.
E anche a questa vampirizzazione, come a
quella della sua persona, Nola oppone una fiera resistenza in una
sovrapposizione tra il suo stesso corpo e le strade della città, che
ricopre di manifesti da lei creati e che elencano gli appellativi con
cui una ragazza viene chiamata per strada in tutte le lingue del mondo –
tutte udibili per le strade di New York.