il manifesto 29.11.17
Stefano Rodotà, la dignità sociale dell’uomo
di Gaetano Azzariti
Alle
origini della riscoperta della dignità – nel secondo dopoguerra – ci fu
la reazione agli orrori che avevano portato non solo ad una guerra come
tante altre del passato, ma ad una guerra di distruzione contro
l’umanità, contro la stessa idea di umano: l’olocausto, Auschwitz, ma
anche la bomba atomica avevano oltrepassato ogni limite. Per salvare
l’umanità bisognava ricordarsi che non basta sopravvivere alle tragedie.
Subito
dopo la guerra, nel 1947, la Costituzione italiana fu la prima al mondo
ad individuare nel principio di dignità la leva del riscatto. Ne fa
esplicito riferimento in tre articoli, operando un gioco di rinvii di
straordinario valore.
L’anno successivo la dignità aprirà la Carta
dei diritti dell’Onu. L’8 maggio del 1949 sarà la volta della legge
fondamentale tedesca. Da allora nessuno ha più contestato il valore
della dignità umana. Un successo, indubbiamente.
Non si può però
tacere che, spesso – e forse sempre più – è apparso anche un successo
fatto più di parole che non di concrete azioni. Tant’è che – in seguito –
persino delle guerre sono state dichiarate in nome della dignità di
popoli offesi, contro altri popoli ritenuti indegni. Ciò è potuto
accadere perché è prevalsa la retorica dei concetti sulle istanze
materiali che questi stessi concetti vogliono tutelare.
Il
contributo straordinario di Stefano Rodotà credo sia stato quello di
aver fornito una ricostruzione della dignità antiretorica e storicamente
fondata. Sottolineo solo tre passaggi della sua riflessione che ritengo
possano dare il senso della profondità del suo pensiero.
UNO. Per
Rodotà la dignità è un mezzo per fare assumere «una rilevanza primaria
alla condizione reale della persona». Scriverà che è necessario passare
dal soggetto astratto alla persona concreta. Per questo ciò che deve
essere assicurato non è tanto la dignità immateriale, quanto la più
specifica dignità «sociale», così com’è esplicitamente scritto in
Costituzione. Una dignità che, dunque, non può essere solo individuale,
ma che deve investire per intero la vita di relazione. In tutti i suoi
momenti anche – anzi soprattutto – in quelli più drammatici. Esiste una
dignità del vivere, esiste persino quella del morire, ci ha ricordato in
tanti suoi scritti.
DUE. Su quale fondamento ciò si rende
possibile? Le gambe su cui si regge la ricostruzione della dignità di
Stefano Rodotà sono due: la storia e la norma.
È, infatti,
l’attenzione alla storia che porta Rodotà ad affermare che la nuova
antropologia dell’homo dignus è il frutto di una specifica evoluzione
storica. Ma, al contempo, è anche il risultato di una «grande operazione
giuridica».
Sono la storia e il diritto, assieme, che hanno
finito per produrre una netta cesura rispetto alla diversa antropologia
che aveva dominato il secolo XIX: quella dell’individualismo
proprietario.
Un’antropologia, quest’ultima, che aveva trovato la
sua massima espressione nel Code civil, voluto da Napoleone, nel momento
in cui mise fine alla rivoluzione francese. Imponendo un modello di
regolazione che pose al centro del vivere civile un «terribile» diritto,
quello di proprietà; e che ha configurato l’individuo come soggetto
isolato.
Ciò ha certamente favorito la crescita del capitalismo,
forse ne è stato un suo presupposto necessario, ma ha dovuto pure dare
per scontato che il lavoro potesse essere indegno, così come indegna
poteva essere la vita delle persone concrete.
Questo il modello
dominate nell’Ottocento, che non ha retto dinanzi alla rivoluzione della
dignità. Un radicale cambiamento fu reso possibile – sono parole di
Rodotà – «attraverso la costituzionalizzazione della persona».
TRE. Che vuol dire, in concreto? Qual è stato il processo storico reale che ha determinato questo ribaltamento?
Il
punto di partenza della riflessione di Rodotà è esplicito. Lo ha
sintetizzato meglio di ogni altro Luigi Mengoni, con queste semplici e
lineari parole: «Il modello antropologico dell’individualismo
proprietario è stato corretto dal diritto del lavoro», volendo in tal
modo indicare che la nuova antropologia è stata fissata con la scrittura
dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che qualifica il nostro
ordinamento democratico in quanto fondato sul principio-valore del
lavoro.
Rodotà va oltre, guardando alla radice di questa
trasformazione, riuscendo a fornire non solo alla dignità, ma anche al
lavoro, una dimensione propriamente costituzionale. Non solo gli
articoli 1 (lavoro) e 3 (dignità sociale), ma è l’intera Costituzione
che si pone alla base di questo cambiamento.
È qui che Rodotà ha
dimostrato la sua grandezza di giurista impegnato. In quelle
straordinarie pagine ove egli, in un crescendo progressivo, esamina le
connessioni tra il principio di dignità e gli altri principi
costituzionali.
Non si limita ad esaminare – magis ut valeat – i
pur fondamentali articoli che richiamano direttamente il concetto di
dignità: l’eguaglianza dei cittadini come mezzo per assicurare la pari
dignità sociale ai sensi dell’articolo 3; la retribuzione dei lavoratori
come condizione per assicurare un’esistenza libera e dignitosa secondo
le auliche espressioni dell’articolo 36; i limiti all’iniziativa
economica privata che non può in nessun caso svolgersi in contrasto con
la dignità umana come impone l’articolo 41. Forse già questo sarebbe
sufficiente.
RODOTÀ, PERÒ, VA OLTRE. Egli dimostra, in uno
straordinario giuoco di rinvii, come sia la Costituzione per intero a
dover essere interpretata alla luce del principio di dignità. Così
l’articolo 1, che rinviene il fondamento democratico della Repubblica
nel lavoro. Così, ancora, l’articolo 2, sui diritti inviolabili e lo
sviluppo della personalità, e così via. Come ebbe a riassumere: la
dignità in sostanza porta a una «complessiva ricostruzione del sistema
costituzionale».
A questa ricostruzione di fondo Rodotà ha
improntata il suo lavoro scientifico, ma anche il suo impegno civile.
Basta qui ricordare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, alla cui stesura contribuì in modo decisivo. Non solo
l’articolo d’apertura, ma l’intero primo capo è integralmente dedicato
alla dignità.
Un ultimo punto che è però decisivo. È legittimo
interrogarsi se sia sufficiente proclamare la dignità perché questa sia
assicurata. Voglio rispondere con le sue parole a questa fondamentale
domanda: «Bisogna chiedersi, a questo punto, se la dignità non sia un
fondamento troppo fragile per reggere tante sfide, indebolita dalla sua
stessa polisemia, da intime ambiguità, da indeterminatezza». Tanto è
consapevole Rodotà dei rischi che si corrono che nel suo testo più
significativo – il diritto di avere diritti – fa seguire al capitolo
sulla dignità un altro che si intitola «Diventare indegni».
C’è
però un passaggio di Rodotà che può spiegare perché, nonostante tutto,
la dignità rappresenta un valore che non può essere abbandonato. «La
dignità appartiene a tutte le persone», quale che sia la sua condizione e
il luogo in cui si trova. È per questo che della dignità non possiamo
fare a meno. Anche se non potremmo mai darla per scontata. È una
conquista da rivendicare ogni giorno.
È stata l’attenzione alla
vita prima delle regole che ha portato Rodotà a definire la dignità
delle persone concrete. È questa la dignità sociale di cui parla la
Costituzione, è questa la dignità di Stefano Rodotà.
Testo
dell’intervento al convegno La vita prima delle regole – Idee ed
esperienze di Stefano Rodotà tenutosi alla camera dei deputati lunedì 27
novembre.