il manifesto 25.11.17
L’infernale elettroshock del quotidiano
Oltre
la follia. «Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio», a
cura di Dario Stefano dell’Aquila e Antonio Esposito. In un libro uscito
per Sensibili alle foglie, tutti i documenti, gli atti processuali e i
racconti di una esistenza interrotta
di Graziella Durante e Giovanna Ferrara
È
dalle pagine di questo giornale che, il 7 gennaio del 1975, Luigi
Pintor scriveva parole definitive sulla morte di «un’innocente arsa
viva» nel rogo del suo letto di contenzione. «Una donna povera di
mezz’età» internata nella sezione «agitate e coercite» del manicomio
giudiziario di Pozzuoli dove arriva nell’ottobre del 1973. «Una donna
che aveva addosso lo stato tutto intero» e che, in poco più di un anno, è
stata perseguitata e uccisa dal dispositivo perverso delle sue
istituzioni. La notizia della sua morte rimbalza sulle pagine dei
quotidiani e crea scompiglio in un’opinione pubblica fino troppo
abituata a rassicuranti resoconti giornalistici della vita manicomiale.
ANTONIA
BERNARDINI è invece una subalterna, marginale e sconfitta. Sul suo
corpo è stato posto lo stigma indelebile della follia e della
pericolosità sociale. Ma la sua morte mette inaspettatamente l’intero
sistema sotto processo. Agita istituzioni e partiti. Pone, con
incredibile forza, interrogativi politici mai nominati prima. Mette a
nudo un dispositivo repressivo che sequestra e silenzia, con metodica
efferatezza, le vite degli ultimi. Nei manicomi, come in carcere, si
muore in primo luogo di classe – scriveva Franco Basaglia in un fondo de
Il Corriere della Sera.
A distanza di quarant’anni, Antonia
Bernardini ci convoca ancora perché l’orrore che ha patito ci desti dal
sogno di una giustizia uguale per tutti. Gli atti processuali, le
cartelle cliniche, i fatti della sua vita, il panorama giornalistico e
televisivo dell’epoca sono raccolti ora da Dario Stefano dell’Aquila e
Antonio Esposito in Storia di Antonia. Viaggio al termine di un
manicomio (Sensibili alle foglie, pp. 304, euro 18): un’inchiesta
condotta con passione e metodo, una botola che si apre e fa luce nei
cunicoli della cura della malattia mentale in un paese democratico.
LA
BIOGRAFIA CLINICA di Antonia ha un lungo passato. Il primo ricovero in
manicomio risale ai suoi sedici anni. Da lì, una interminabile sequenza
di internamenti, alcuni dei quali volontari, ripetuti elettroshock,
neurolettici, camicie di forza e letti di contenimento. Nessun medico
collega i sintomi che la paziente presenta con l’ambiente nel quale
vive: l’infanzia con un padre violento, il degrado delle borgate romane,
un marito assente, una malattia – la tubercolosi polmonare – curata nei
sanatori. A questo inferno quotidiano, Antonia risponde con una
ostinata incapacità a piegarsi all’ingiustizia e alla stigmatizzazione
sociale.
I SUOI FREQUENTI «stati di eccitamento» ascrivibili
d’ufficio al «patologico» sconfinano, in una scontata sequenza, nel
crimine. Ad Antonia accade il 12 settembre del 1973, che un banale
diverbio con un pubblico ufficiale in borghese, alla stazione Termini di
Roma, la strappi via dal mondo, per consegnarla agli istituti di pena,
dove non esiste riabilitazione e non esiste cura. «Un morso guaribile in
quattro giorni» – questo il ‘trauma’ che Antonia procura al militare:
scatta immediato l’ordine di arresto. La donna è condotta a Rebibbia. Da
qui è trasferita al manicomio romano di Santa Maria della Pietà perché
dichiarata «particolarmente aggressiva».
Antonia tenta di
difendersi, assistita da un avvocato d’ufficio, raccontando la sua
versione dei fatti, ma quale attendibilità possono avere le parole di
una pazza? La sua verità è allucinata e compromessa. Si convalida
l’arresto e si dispone la custodia cautelare presso il manicomio
provinciale. L’assurdo congegno di colpa e malattia, pena e cura, reato e
sintomo è ormai innescato. Lo stesso iter formale che segna i ripetuti
trasferimenti di Antonia dal carcere al manicomio mostra inadempienze,
lacune, ritardi. Tra la cancelleria del Tribunale e la direzione degli
istituti carcerari e manicomiali le ordinanze si moltiplicano e si
perdono.
DI URGENZA IN URGENZA, la detenuta, l’internata, la
malata, la criminale Antonia Bernardini arriva nell’ex-convento di
Pozzuoli, a picco sul mare. Qui per cinque giorni è legata al letto di
contenzione senza alcuna motivazione reperibile negli atti. I
quattordici mesi che seguono sono il normale svolgimento della vita di
un’internata in custodia cautelare all’interno di un lager. Un luogo che
solo l’ipocrisia sociale definisce, ancora oggi, ospedale
psichiatrico-giudiziario o anche casa di cura e custodia. Antonia
subisce misure disciplinari disumane che hanno come unico scopo quello
di rendere mansueti i corpi e rispettose le menti. Corpi considerati
dalla medicina e dalla legge, ordigni esplosivi da immobilizzare con le
fascette, con i legacci della camisolle chimique, una somministrazione
di farmaci invalidanti che, a partire dagli anni cinquanta, la
psichiatria sperimenta sulle cavie dimenticate dal mondo.
A
GARANTIRE la piena realizzazione di questo metodico piano di
disumanizzazione, la vigilanza delle suore, ancelle spirituali della
«rieducazione» delle prigioniere. Dalla sala di rianimazione del
Cardarelli dove viene condotta d’urgenza il 28 dicembre del 1974 con
gravissime ustioni su tutto il corpo, mentre lotta tra la vita e la
morte, Antonia dichiarerà al pubblico ministero: «C’è una suora Anna
Teresina che mi metteva ai lavori forzati. Ci legava come Cristo in
croce».
Si apre il processo. Un’inchiesta ministeriale. Si appura
che la pratica della contenzione era disposta, su richiesta delle suore,
dal medico di turno. Sul registro non sono riportate motivazioni e
termine della misura prescritta. Le firme del responsabile erano apposte
prima ancora che fosse applicata. Cominciano le ipotesi. Forse Antonia
voleva fumare e accidentalmente ha lasciato cadere la sigaretta: la
contenzione prevedeva, quindi, tempi tanto lunghi di solitudine da poter
accendere una sigaretta, fumarla e poi spingere il mozzicone chissà
dove? Ipotesi due: una compagna l’ha uccisa, anche se era sola in
stanza. Ipotesi numero tre, la più feroce: si è suicidata perché malata
mentale. In questa ipotesi, abita un’altra perversione dei meccanismi di
controllo.
SE SI UCCIDE un figlio si sottopone l’assassino alle
perizie per stabilire se l’assassino è capace di intendere e di volere,
come si classifica la «normalità» per la legge. Ma se una donna si dà
fuoco perché legata da 43 giorni per un reato minimo, si presuppone che
la sua patologia mentale abiti ogni suo atto, anche quello,
«normalissimo» di cercare di richiamare l’attenzione di qualcuno in un
modo eclatante. Gridava da diverse ore chiedendo un bicchiere d’acqua.
Dopo il processo di primo grado, che commina qualche responsabilità,
arriva la sentenza d’appello: nessun imputato è colpevole. Che
Bernardini fosse legata rientrava nelle possibilità terapeutiche a
disposizione dei medici. Quello in cui è arso un letto con dentro una
donna, era dunque uno scenario lecito.
Se fosse una storia
passata, potremmo dire che l’umanità degli uomini è un valore in
divenire. Ma la storia di Antonia rivive, ancora e ancora, nei «centri»
dove i migranti, sopravvissuti ai loro naufragi, colpevoli solo di voler
vivere, sono accolti ogni giorno. In un dispositivo psichiatrico che
continua a operare, con ottusa ferocia, dentro e fuori alle sue
residenze.