il manifesto 24.11.17
Camusso: «Non ci fermiamo: pensioni più eque per tutti»
Verso
il 2 dicembre. Susanna Camusso rilancia la mobilitazione: la Cgil in
piazza perché il governo ha dimenticato i giovani e le donne, tradendo
gli impegni già presi. Basta con i tagli sempre ai più deboli: le
risorse si reperiscano rendendo il fisco realmente progressivo Alle
cinque manifestazioni previste ha aderito tutta la sinistra, da Campo
progressista a Mdp-Si-Possibile
di Antonio Sciotto
Sulle
pensioni il governo va avanti deciso e ieri ha presentato l’emendamento
alla manovra che recepisce l’ultima proposta fatta al tavolo, rigettata
dalla Cgil e accettata invece da Cisl e Uil: solo 14 mila esentati
dall’aumento a 67 anni nel 2019, i dati dell’esecutivo confermano che la
platea è molto ristretta, come aveva denunciato la stessa segretaria
Cgil Susanna Camusso.
Che dal manifesto rilancia la mobilitazione
del 2 dicembre e spiega che «il tema non è affatto chiuso». Cinque
cortei – a Roma, Torino, Bari, Cagliari e Palermo – «per permettere la
massima partecipazione e ribadire che è solo l’inizio, perché
continueremo a mobilitarci».
Intanto avete avviato i colloqui con
tutti i gruppi parlamentari. Confidate che sia possibile ottenere
qualcosa nel dibattito sulla manovra?
Chiediamo che si faccia un
passo avanti rispetto alla attuale situazione e che non si consideri
chiusa la vertenza, sia nel dibattito parlamentare sulla legge di
Bilancio ma poi anche successivamente.
Il ministro Padoan dichiara
che lo schema approntato dal governo è «una scelta di sinistra» e che
garantire la sostenibilità finanziaria è un modo di preoccuparsi dei
giovani.
Al contrario, ritengo che quanto proposto dal governo sia
un modo per non pensare ai giovani. Si sta dicendo loro che l’unico
modo per garantire la sostenibilità finanziaria è non modificare il
sistema attuale, in cui o fai parte di una élite che ha una carriera
continuativa e ben retribuita o sei condannato a una pensione
insufficiente per vivere dignitosamente. Noi chiediamo di ridefinire le
regole per garantire un assegno sostenibile ai giovani e alle donne,
temi che peraltro facevano parte del verbale sulla Fase 2 che avevamo
redatto nel 2016. Per dare risposte ai giovani bisogna intervenire ora,
venti o trenta anni prima. Credo si sia persa una grande occasione di
cambiamento.
In effetti il tavolo sulla previdenza è durato due anni. Cosa vi ha fatto alzare alla fine?
Un
clima che si è creato rispetto alle rappresentanze dei lavoratori. In
qualsiasi azienda, quando non si ottempera agli impegni presi, il
sindacato reagisce. Se nel settembre 2016 il governo si impegna a
intervenire per costruire una pensione di garanzia per i giovani e
valorizzare il lavoro di cura, a favore soprattutto delle donne, perché
poi queste questioni scompaiono del tutto nel novembre 2017 e
addirittura non si possono più neanche nominare? Guardavo i titoli dei
giornali del 30 e 31 agosto scorsi: «Arriva la pensione di garanzia per i
giovani», l’esecutivo aveva avanzato una proposta e si discuteva anche
di abbassare la soglia dell’1,5 per potere accedere alla pensione di
vecchiaia. Temi oggi spariti dal tavolo. Un sindacato a queste
condizioni non può dire «sono contento», visto che si è registrata una
retromarcia netta del governo rispetto agli impegni assunti.
Lo stesso avete lamentato per l’aumento a 67 anni.
Quando
l’anno scorso si convenne sull’Ape social, lo facemmo perché
nell’accordo era prevista una Fase 2 che uscisse dalla logica
emergenziale e mettesse in ordine l’intero sistema con regole eque e
universali. Invece siamo tornati alla logica delle deroghe per platee
ristrette. E se nel contempo passa il messaggio che il meccanismo
dell’adeguamento all’aspettativa di vita vale anche per le pensioni
anticipate, vuol dire che progressivamente si vuole cancellare pure
quelle. Intanto i pochi che si vedono applicare la deroga devono però
passare da 20 a 30 anni di contributi: si sommano mille contraddizioni
senza creare un sistema coerente, universale e davvero equo per tutti.
Anche
l’Europa insiste sulla sostenibilità dei nostri conti, e mette i
risparmi sulle pensioni tra gli elementi fondamentali per garantirla.
La
pressione di Bruxelles su lavoro e previdenza fa parte di quella logica
che individua solo nel campo dei diritti sociali il luogo dove reperire
risorse, attraverso tagli continui. Vorrei vedere piuttosto riforme
strutturali sul fisco, sulla corruzione, sull’evasione. In dicembre la
Ue discuterà sul Fiscal compact, sarebbe già un’occasione per cambiare
registro: ma perché in Italia non se ne parla? Gli altri paesi europei
prevedono una tassazione sui grandi patrimoni finanziari e immobiliari,
mentre in Italia scriviamo nel Def che si deve livellare la spesa
sanitaria. Si tratta insomma di fare delle scelte: cominciamo dal
riequilibrio della progressività e dell’equità fiscale, torniamo a
garantire un welfare universale e che copra i più deboli.
Intanto
si è riaperto il dibattito sull’articolo 18, un vostro cavallo di
battaglia che oggi scava il solco tra il Pd e la sinistra. Per Matteo
Renzi non si devono fare «abiure» sul passato, ma basta programmare un
futuro diverso: tornare a far aumentare le quote dei tempi indeterminati
sul totale dei nuovi contratti, precipitate dopo la fine degli
incentivi. Può bastare secondo la Cgil?
Abbiamo presentato la
Carta dei diritti universali del lavoro e quello rimane il nostro punto
di riferimento. Per questo avevamo guardato con favore al fatto che si
fosse riaperto il dibattito in Parlamento con proposte sull’articolo 18.
Aver rimandato quei testi in Commissione è un chiaro modo per non farli
arrivare più al dibattito. C’è certamente un problema di prevalenza dei
rapporti a termine – inclusi gli stage, i tirocini – nonostante le
forti risorse investite nella decontribuzione. Ma vorrei ricordare al Pd
che la liberalizzazione dei contratti a termine l’hanno varata proprio
loro, con la prima fase del Jobs Act: il decreto Poletti ha rimosso le
causali e permesso la ripetibilità praticamente all’infinito.
Insomma, per la Cgil l’articolo 18 rimane importante.
Sì,
perché la necessità di essere adeguatamente protetti rispetto al
licenziamento senza giusta causa non è risolvibile mettendo
semplicemente più incentivi ai contratti a tempo indeterminato.
L’assenza di una tutela fondamentale come l’articolo 18 crea un clima
pesante nei luoghi di lavoro, dove è più difficile esercitare le libertà
sindacali. Lo stesso Pd ammette che i licenziamenti disciplinari sono
aumentati a dismisura, e non dimentichiamo che proprio all’avvio del
Jobs Act si verificarono numerosi licenziamenti di delegati sindacali.
Peraltro l’abrogazione non ha creato l’affollamento di multinazionali
alle porte dell’Italia pronte ad assumere. Mi pare al contrario, viste
le numerose crisi aperte, che tante aziende stiano piuttosto andando
via. Per tutti questi motivi puntiamo a reintrodurre una tutela.