il manifesto 23.11.17
Ratko Mladic, quale futuro dopo la condanna?
Aja.
La sentenza fa emergere i fallimenti della comunità internazionale. Il
primo: la maggior parte dei 83 condannati sono serbi, mentre molti dei
crimini di croati e musulmano-bosniaci sono stati tralasciati, così come
quelli della Nato. Il secondo:il territorio jugoslavo è oggi diviso
proprio sulle linee ottenute grazie a quei crimini
di Daniele Archibugi
Dopo
Radovan Karadžic, anche Ratko Mladic è stato condannato dal Tribunale
Onu per i crimini nell’ex Jugoslavia. Una condanna perentoria: accusato
di genocidio e ritenuto colpevole per quasi tutti i capi di accusa, non
poteva che ricevere l’ergastolo.
Il suo più efferato crimine, la
strage di Srebrenica del luglio 1995, quando circa ottomila uomini e
ragazzi musulmani furono sterminati a sangue freddo, è ben documentato
da tanti video, foto e testimonianze, diligentemente raccolte dal
Tribunale. Le vedove e le madri musulmano bosniache esultano perché è
stato finalmente punito uno dei principali colpevoli. L’opinione
pubblica mondiale si compiace perché un altro capo spietato è stato
condannato a seguito di un regolare processo.
Una delle tante
vittime riunite per ascoltare la sentenza a Sarajevo ha commentato: «È
un messaggio mandato a tutti coloro che ritengono ancora che più grandi
siano le atrocità commesse e più è probabile farla franca». C’è solo da
sperare che il messaggio sia recapitato perché né ad Aleppo né a Raqqa,
né tantomeno a Washington e Mosca, è stato finora percepito.
Dopo
vent’anni dalla fine delle guerre di Bosnia, la sentenza non può che far
emergere i tanti fallimenti raccolti dalla comunità internazionale e
dai popoli dei Balcani. Il primo, strillato a gran voce dai
serbo-bosniaci, riguarda la parzialità di cui è accusato il Tribunale
dell’Onu.
La maggior parte dei 83 condannati dal Tribunale sono
infatti serbi, mentre molti dei crimini commessi dai croati e dai
musulmano-bosniaci sono stati tralasciati. I serbi sono stati la fazione
militarmente più forte e quindi anche più spietata, ma il Tribunale ha
anche avvalorato una narrazione secondo la quale i musulmani (e, in
minor parte, i croati) fossero le vittime, mentre solo i serbi i
carnefici.
Il fatto poi che il Tribunale non abbia indagato sui
crimini di guerra commessi dalla Nato durante la guerra del 1999,
rendendo vani i tentativi del Procuratore Carla Del Ponte, ha avvalorato
la percezione dei serbi che si trattasse di uno strumento creato per
punire solamente loro.
Il secondo è, invece, la capacità stessa
dei procedimenti penali di facilitare la riconciliazione. Il fatto
stesso che all’Aja e a Sarajevo ci siano oggi gruppi che gioiscono e
altri che, invece, santificano Mladic come un martire, dimostra che né
il Tribunale né tantomeno la cura più antica – l’inesorabile scorrere
del tempo – abbiano rammendato le profonde ferite inferte dalla guerra
civile.
Siamo così di fronte ad una situazione paradossale: da una
parte Mladic, come Karadžic prima di lui, è fermamente condannato per i
crimini di guerra commessi. Dall’altra, il territorio è oggi diviso
proprio sulle linee ottenute grazie a quegli stessi crimini. Le sentenze
del Tribunale sembrano dunque lacrime di coccodrillo versate da chi non
ha avuto il coraggio di impegnare maggiori mezzi e risorse per evitare
che la guerra civile divampasse fino a prendere quelle atroci
dimensioni.
Si deve oggi invocare la riconciliazione dal basso,
quella che fa presente che tutte le etnie hanno subito crimini disumani,
tanto che dalla guerra civile non è scaturito alcun vincitore, ma solo
vinti. Ma anche che capi sanguinari come Mladic sono stati possibili
solamente perché ci sono stati migliaia di fanatici disposti a seguirlo.
Oggi lo offrono come capro espiatorio di una follia collettiva,
assolutamente necessario affinché i nuovi stati scaturiti dalla ex
Jugoslavia possano partecipare al banchetto offerto dall’Unione Europea.
Anche
in Ruanda ha operato un Tribunale ad hoc dell’Onu, che ha potuto
condannare solo poche decine di colpevoli. Ma in Ruanda, anche grazie
all’ispirazione proveniente dal Sudafrica di Nelson Mandela, i processi
penali sono stati poi accompagnati da capillari azioni di condivisa
riconciliazione, le cosiddette Corti Gacaca, che hanno raggiunto ogni
villaggio. In tutti i territori della ex Jugoslavia, tentativi simili si
sono infranti per la mancata disponibilità a riconoscere le sofferenze
degli altri.
Ci vorrà ben altro di una sentenza per ricostruire
una comune narrazione del passato e, ancor di più, per rendere possibile
la coabitazione futura. Lo aveva forse intuito già nel 1994, prima di
tanti altri, la figlia di Mladic, Ana. Dopo aver perso il proprio
fidanzato al fronte, decise di spararsi con la pistola del padre a soli
23 anni. Oggi la sentenza che ha condannato suo padre ha reso giustizia
anche a lei.
*Co-autore di Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi, 2017