mercoledì 22 novembre 2017

il manifesto 22.11.17
Chiara Saraceno: «Impossibile lavorare fino a 75 anni. Servono garanzie per i giovani»
Pensioni: quelli senza. Intervista a Chiara Saraceno, sociologa, autrice di "Il lavoro non basta": «La previdenza complementare non è una soluzione per chi è precario. Se i giovani non hanno un'occupazione regolare, un reddito buono e sicuro, come fanno a iniziare un programma di contribuzione extra con i contratti che durano qualche mese? Come garantire un reddito alle nuove generazioni che entrano tardi nel mercato del lavoro?»
di Roberto Ciccarelli

«È importante fare un’attenta valutazione dei lavori usuranti, chi li fa ha una speranza di vita inferiore. È altrettanto importante considerare le differenze tra persone con alta e bassa istruzione. Andare tardi in pensione è stato un privilegio di classe, per altri è una condanna perché è pagato poco – afferma la sociologa e filosofa Chiara Saraceno – Ma mi è sembrato improprio introdurre nella trattativa sull’innalzamento automatico dell’età pensionabile problemi più ampi».
Quali?
La garanzia di una pensione ai giovani che, diventando vecchi, non avranno un assegno minimo adeguato. Il tema è: come garantirgli un reddito visto che dopo tanti anni di storie precarie non avranno i requisiti? La riflessione è seria, ma non può essere fatta all’ultimo momento, alla fine della legislatura e all’interno della discussione sulla legge di stabilità.
Il governo aveva promesso una «fase due» per parlare delle pensioni dei giovani. Ma non se ne è fatto nulla, salvo una generica disponibilità al dialogo. E la Cgil lamenta l’assenza di una misura per la pensione di garanzia per loro. Tutti parlano del loro futuro, ma nessuno fa nulla. Come lo spiega?
Quella italiana è una popolazione di anziani, e gli anziani sono un elettorato più forte dei giovani. Ma questo non basta per limitare la discussione solo a un aspetto del problema.
Tutti i nati dagli anni Settanta in poi, e coloro che hanno iniziato a lavorare dopo la riforma delle pensioni del 1995, dovranno essere attivi fino a 75 anni come dice il presidente dell’Inps Boeri?
È impossibile pensarlo. È vero che aumenta la durata di vita, succede dal Dopoguerra. Però bisogna guardare non solo a quanti anni si vive in più, ma a quanti anni di buona salute si vivono. Le donne vivono più a lungo degli uomini, ma hanno più anni di cattiva salute. Quest’ultimo è un dato fondamentale, purtroppo si continua a vedere solo il dato dell’aumento della durata della vita.
La condizione dei giovani e di tutti i lavoratori precari o autonomi è risolvibile con lo sviluppo della previdenza complementare?
Viene da ridere. Se i giovani non hanno un’occupazione regolare, un reddito buono e sicuro, come fanno a iniziare un programma di contribuzione extra con i contratti che durano qualche mese? In più devono pagare bollette e affitti, investire per farsi una famiglia. I modelli che ispirano queste soluzioni potevano andare bene con un mercato del lavoro stabile, quello che ha vissuto la mia generazione e quella successiva dei 50enni che non hanno perso il lavoro. Ma non vale per i giovani che ci mettono tanto tempo per entrare e fanno una vita che è una corsa ad ostacoli. Conosco molti genitori, me compresa, che da anni hanno aperto un’assicurazione privata per i figli. Una possibilità riservata solo a chi può permetterselo.
Se è così per i figli, cosa accadrà ai nipoti?
A me hanno consigliato di aprire un piano pensionistico per i nipoti di 7 e 13 anni. Invece di pensare ai loro studi, alla loro vita, si pensa alla pensione che non avranno. Questa è una stortura, è proprio sbagliato.
Dal punto di vista del Welfare, ritiene che il reddito di inclusione (Rei) istituito dal governo Gentiloni sia la soluzione adatta?
È la prima volta che in Italia la questione della povertà è entrata nell’agenda politica, anche se con molto ritardo. Il «Rei» è un embrione di reddito minimo. Ma è solo un embrione perché non riesce a coprire tutti i poveri assoluti e eroga un reddito bassissimo. Una famiglia numerosa prenderà meno di una pensione sociale riservata a una persona. Per i poveri si spende molto meno per gli 80 euro che vanno anche a lavoratori con famiglie abbienti.
Il reddito di base è una soluzione?
ll reddito di base, per come lo ha pensato Philippe Van Parijs, o Anthony Atkinson che parla di «reddito di partecipazione», è concettualmente attraente perché è individuale, è dato a tutti a prescindere dal reddito, è meno costoso dal punto di vista amministrativo. L’idea è che aumenti la libertà e chi è ricco lo restituirà, ma ha bisogno di un grande ripensamento del Welfare. Visto che stiamo andando verso un mondo dove la domanda di lavoro diminuisce e la produttività aumenta, dobbiamo pensare a redistribuire il lavoro e il reddito. Mi sembra molto difficile che possa essere introdotto in Italia e non vedo imminente una campagna per la sua introduzione. Quello che i Cinque Stelle chiamano «reddito di cittadinanza» non è diverso dal «Rei», è solo molto più generoso. A me basterebbe in questa fase cominciare a pensare un reddito sufficiente per i poveri, che possa diventare un’integrazione per chi lavora e non riesce a guadagnare abbastanza per sostenere la famiglia.
Cosa risponde all’obiezione sui costi troppo alti per le misure ispirate al reddito?
Si spendono più di 8 miliardi per gli 80 euro, si è tolto l’Imu alle persone ricche, sono state annullate le tasse ereditarie. Mettiamo in fila queste tre cose e troviamo i fondi. Si è tanto sprecato in questi anni, basterebbe un sistema più razionale per iniziare a sostenere i lavoratori poveri con i figli.