il manifesto 21.11.17
Charles Manson, la rockstar del male
Stati uniti. La morte dopo 48 anni trascorsi in carcere dell'uomo che incarna il lato oscuro della controcultura dei sixties
di Andrea Colombo
Charles
Manson, che quando nacque il 12 novembre 1934 era stato battezzato
Charles Midder Maddox e che è morto a 83 anni dopo aver passato in
carcere gli ultimi 48, non è stato solo un feroce assassino e un serial
killer a modo suo anomalo. È stato la rockstar del male, e in quel ruolo
si è cullato sia nei decenni di galera sia in quel breve biennio tra
una detenzione e l’altra, tra il 1967 e il 1969, nel quale insanguinò la
California senza mai ammazzare nessuno con le proprie mani.
L’aura
maligna ma anche carismatica che lo circonda da sempre e che lo ha reso
una specie di demoniaco principe tra i massacratori si deve a questo
più che al numero delle vittime o alla ferocia delle esecuzioni. Manson è
stato il grande manipolatore, il guru che riusciva a infondere nella
sua Family, composta soprattutto da ragazzine giovanissime, fedeltà
assoluta e obbedienza totale, quello che ordinava e a volte
supervisionava omicidi e stragi senza mai sporcarsi direttamente le
mani.
La notte tra il 9 e il 10 novembre 1969, quando Tex Watson,
Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian, che sarebbe
diventata poi la supertestimone dell’accusa, uccisero Sharon Tate,
attrice tanto brava quanto bella, moglie di Roman Polanski incinta di
otto mesi e mezzo, con i suoi quattro ospiti nella villa di Polanski a
Bel Air, Los Angeles, Manson non c’era, anche se aveva deciso e ordinato
la strage. Non fu soddisfatto dal risultato. Troppo panico tra le
vittime, troppo chiasso, poco chiaro il messaggio, quel «Pig» scritto
col sangue di Sharon sulla porta che avrebbe dovuto innescare la guerra
razziale negli states. La notte seguente, quando gli stessi quattro
giovanissimi discepoli più altri due, Leslie Van Houten e Steve “Clem”
Grogan, ammazzarono in un sobborgo di Los Angeles i coniugi La Bianca,
il maestro li accompagnò di persona. Legò le vittime, allestì la scena,
diede indicazioni precise su cosa dovesse essere scritto, ma se la
squagliò prima che la mattanza cominciasse.
Il funesto messaggio, è
risaputo, gli era stato indicato dal White Album dei Beatles. La sempre
citata Helter Skelter era in realtà solo una parte della cupa profezia.
Prestò il nome al grande e sanguinoso sommovimento che Manson aveva il
compito di fomentare dando fuoco con le sue stragi alla miccia: la
grande guerra tra bianchi e neri alla fine della quale lui e i suoi
apostoli avrebbero ereditato l’America. Ma in ogni canzone di
quell’album c’erano una strofa, un passaggio, una paroletta che il
sanguinario profeta interpretava come messaggio rivolto a lui.
Sharon
Tate e i suoi ospiti e poi i La Bianca non furono le sole vittime di
Manson. Altre ce n’erano state prima e ce ne sarebbero state ancora,
anche quando il guru era dietro le sbarre da anni. Nel settembre 1975
Lynette «Squeaky» Fromme, l’adolescente che Manson aveva offerto come
giocattolo sessuale all’80enne proprietario dello Spahn Ranch in cambio
dell’ospitalità gratuita per tutta la tribù, fu arrestata mentre si
preparava a uccidere il presidente Gerald Ford.
A leggerne la
biografia, Charles Manson sembra predestinato a una vita sbagliata sin
dalla culla: figlio di una 16enne, rifiutato dalla madre che una volta
aveva cercato di venderlo a una cameriera senza figli per il modico
prezzo di una birra, senza padre, cresciuto tra un piccolo crimine e
l’altro, quando uscì per l’ultima volta di galera prima delle stragi,
nel ’67, aveva già passato metà della vita in carcere. Ci si era tanto
abituato che chiese di restarci, la sentiva come casa.
Ma non è
questo ad aver fatto di Manson un caso unico nella casistica feroce dei
serial killer. Per molti versi era l’opposto dei massacratori che
popolano le cronache criminologiche. A differenza di Gary Ridgway, che
sembrava tutt’al più un tantinello strano prima che confessasse 71
omicidi, o di Ted Bundy, il bel ragazzo che piaceva alle donne e ne
aveva ammazzate una trentina, Manson non cercava di apparire normale.
Non era uno dei tanti «assassini della porta accanto», quelli che
raggelano il sangue proprio per la loro capacità di nascondersi dietro
un grigio anonimato. Spiritato, allucinato, profetico e carismatico
sembrava, e a modo suo effettivamente era, un prodotto della
controcultura californiana dei sixties.
Le ragazzine scappate di
casa che lo circondavano, l’uso e abuso di droghe allucinogene, il sesso
sfrenato che il piccolo Manson aveva trasformato in strumento di
dominio e controllo («Sono il re della scopata», dichiarò al processo e
le adepte, tutte marchiate con la X della setta, si vantavano della loro
dipendenza sessuale dal maestro), il rock, che Charlie non solo
ascoltava ma suonava anche, con canzoni che erano piaciute a Dennis
Wilson dei Beach Boys tanto da inciderne una, persino il pullman con cui
la Family aveva battuto la West Coast prima di trasferirsi nello Spahn
Ranch, quasi un gemello diabolico di quello con cui i Pranksters di Ken
Kesey avevano inaugurato la stagione hippie: la Manson Family era in
tutto identica alle tante comuni che proliferavano allora ovunque.
Charles, razzista e assassino, allucinato e manipolatore, era il lato
oscuro della controcultura, il Male che poteva celarsi dietro i colori
dell’estate dell’amore proprio come i banali serial killer rivelano
l’orrore che può nascondersi nelle pieghe di un’esistenza convenzionale.
Manson si sentiva e voleva essere una star. Nel più atroce dei modi lo è
stato.