il manifesto 21.11.17
Scommesse poco negoziabili
Tempi
presenti. Un saggio a più voci - Carlo Vercellone, Francesco Brancaccio,
Alfonso Giuliani e Pierluigi Vattimo - per discutere de «Il comune come
modo di produzione», pubblicato da ombre corte
di Toni Negri
Non
ci si può certo lamentare che del «comune» non si parli abbastanza. Non
nei Parlamenti, certo. Ma nelle università e nei centri di ricerca in
economia e in filosofia, sembra divenuto topos centrale. Si può
malignare che appena si impone un tema rivoluzionario qual è il
«comune», si scatenano tentativi istituzionali per neutralizzarlo.
Il
libro di Carlo Vercellone, Francesco Brancaccio, Alfonso Giuliani e
Pierluigi Vattimo – Il comune come modo di produzione (ombre corte, pp.
230, euro 20) – rappresenta una solida barriera eretta contro ogni
recupero e un riuscito esperimento per darci un’immagine concreta del
comune. Meglio, ci offre una discussione critica del suo concetto,
dell’astrazione che lo estrae dal reale, per aprirla a un dispositivo di
soggettivazione politica. Oltre a fornire un originale approccio
scientifico al «comune», questo libro possiede anche una forte tonalità
pedagogica e politica.
PER ORDINARE LA LETTURA del libro, scritto
da quattro autori (che perciò contiene qualche utile ripetizione),
dividiamolo in quattro parti: una prima decostruttiva delle teorie del
comune afferenti all’ideologia economica individualista e/o socialista;
una seconda parte costruttiva del concetto di «comune come modo di
produzione»; una terza che affronta il tema del «diritto del comune»; e
una quarta che sviluppa la problematica del comune nell’economia
digitale e della conoscenza.
È noto come nell’ambito delle teorie
economiche a fondamento individualista la stessa possibilità del
«comune» sia stata trasformata in «tragedia», in catastrofe sociale dal
paradosso di Harding, e prudentemente recuperata dalla Ostrom e dalla
sua scuola, affidandola alla «buona volontà». Quanto ai prudhoniani
Dardot/Laval, il comune è analizzato come idea, ragionevole ed
eticamente doverosa, da costruire componendo immaginazione sociologica e
militanza politica. A confronto con queste figure ideologiche,
Vercellone e i suoi compagni rinnovano l’analisi realistica della
«macchina» che produce il comune. Le trasformazioni del lavoro, la sua
cognitivizzazione e la sua qualificazione biopolitica, da un lato, e,
dall’altro, le nuove strutture tecnologiche della produzione
costituiscono base fondamentale del configurarsi del comune come «modo
di produzione» – alla stessa maniera nella quale lo erano la
«manifattura» o la «grande industria» nella classificazione marxiana.
Ma
la determinazione sociologica e tecnologica non è sufficiente. È alla
lotta di classe che si svolge nel sociale per l’appropriazione di quote
di reddito e di welfare, che è riconosciuto un ruolo fondamentale nella
costruzione del comune. «Quando i saperi vivi, incorporati e mobilitati
dal lavoro svolgono nell’organizzazione sociale della produzione un
ruolo preponderante rispetto ai saperi morti, incorporati nel capitale
costante e nell’organizzazione manageriale dell’impresa»; «quando
l’espansione dei servizi collettivi, permette la formazione di quelle
che possiamo chiamare intelligenza collettiva o intellettualità di
massa»; insomma, «quando dallo sviluppo di un’economia fondata sulla
conoscenza comincia a liberarsi ’tempo’ come forza produttiva immediata»
allora si sperimenta la maturazione del nuovo modo di produrre:
cognitivo, cooperativo, affettivo, dunque ’comune’».
È
CARATTERISTICO del pensiero di Vercellone insistere sulla funzione
costitutiva di quelle che chiama «produzioni dell’uomo per l’uomo»:
dall’occupazione che l’operaio sociale ha compiuto del terreno
produttivo e riproduttivo e dalla nuova forma del «salario», estesa al
welfare, si esprime così la nuova faccia dell’operaismo, che ridefinisce
la formula: «sono le lotte che producono lo sviluppo». Ma che
determinano anche la crisi: si spiegano infatti così «le tensioni
economiche e sociali provocate dal proseguimento di una politica di
trasformazione delle produzioni dell’uomo per l’uomo in beni privati.
Essa rischia di destrutturare le condizioni più essenziali alla base
della riproduzione di un’economia fondata sulla conoscenza».
IL
CAPITOLO sul «diritto del comune», scritto da Francesco Brancaccio,
muove dal primato accordato alla prassi sociale e cooperativa, nella
teoria operaista del comune, per costruire il riconoscimento giuridico
dei «beni comuni» nell’ordinamento attuale e per aprire alla possibilità
di concepirli come potenze che compongono il modo di produzione in via
di emersione. Due dispositivi della trattazione.
In primo luogo,
un’insistenza continua, alla maniera di Pashukanis, per evitare la
riduzione del concetto di comune alla fissità di una «proprietà comune»,
di un terzo modello di proprietà – cercando piuttosto di definire un
«regime di inappropriabilità», istituito per proteggere l’accumulazione
di stock di sapere, di risorse, di prodotti dalla loro espropriazione
capitalistica.
In secondo luogo, il discorso si muove tra
l’affermazione del concetto (il comune non è proprietà) e la
determinazione teorico-politica di oltrepassare gli ostacoli che il
diritto attuale pone a ogni superamento della proprietà privata (o
pubblica). Mi sembra che la definitiva conclusione («la proprietà comune
non si definisce come un concorso di diritti di proprietà ma come il
prodotto di un insieme molteplice di diritti e di pratiche d’uso»)
costituisca un forte stimolo ad avanzare – componendo un quadro che,
dopo aver dissolto il «terribile diritto» in un bundle of rights, lo
percorre come dispositivo di soggettivazione comune.
«L’uso
determina un vincolo di destinazione del bene o della risorsa nel senso
dell’inappropriabile. Questo vincolo (come ricorda Paolo Napoli) non è
negativo ma positivo, perché si rivela come un moltiplicatore di
possibilità. Non appropriarsi di una ’cosa’, farne un uso sociale e
condiviso, apre all’invenzione positiva di nuove relazioni sociali, di
nuove forme di vita. L’abbandono della sfera del proprium non è un
limite alla libertà ma un suo potenziamento».
QUANTO PIÙ L’ANALISI
avvicina conclusioni politiche, tanto più diventa prudente. È un buon
segno – significa che la discussione sul comune esce dalle biblioteche e
diventa terreno di programma costituente. Questo ondeggiamento fra il
teorico e il pratico, lo si verifica in più larga misura quando
Vercellone e Giuliani affrontano l’ultima serie di problemi: il comune e
l’economia digitale. Qui la lotta di classe per l’appropriazione della
tecnologia e dei suoi usi viene in prima linea. Vercellone/Giuliani
fissano tre tappe logico-storiche nello sviluppo della rivoluzione
informatica e dei nuovi commons della conoscenza: una fase nella quale
le principali innovazioni sorgono sospinte dal basso; una seconda di
stabilizzazione della dinamica di innovazione open-science e
open-knowledge, in sempre più chiaro conflitto con il modello
proprietario – soccombendo tuttavia alle politiche dei grandi oligopoli,
pur consolidando forme giuridiche originali come il copyleft. Si è
aperta ora una terza fase, nella quale «i protagonisti del modello
proprietario divengono sempre più consapevoli dei limiti che la logica
di chiusura comporta per la loro stessa capacità di innovazione… Per
supplire a questa impasse il capitalismo digitale e bio-tecnologico
mette in opera strategie che cercano di recuperare al suo interno, per
imitazione e cooptazione, il modello dei commons».
UNO SPUNTO di
ottimismo c’è qui nel riconoscimento che l’innovazione nasce fuori (come
già ha visto Christian Marazzi) dal circuito di impresa e se l’impresa
riconcorre l’innovazione, riesce a riconquistarla pagando un prezzo
altissimo all’apertura, all’invenzione e alla libertà dei nuovi commons.
Non è un’illusione quella di poter rompere la gabbia. Al cenno
ottimistico segue tuttavia la consapevolezza che il trittico
commodification, propertization e corporatization che costituisce
l’anima dell’iniziativa capitalista, resta comunque dominante. Come
resistervi?
Ci sono obiettivi, impiantati sull’affermazione che la
proprietà intellettuale deve essere abolita, che possono comunque fin
da ora essere proposti. Ad esempio, l’interdizione della brevettabilità
di tutti i beni informazionali e del vivente, una forte tassazione sui
brevetti, ecc. Vi pare poco? Cominciamo, sostengono i nostri compagni:
«i differenti appunti di questa agenda potrebbero costituire una potente
contro-tendenza rispetto al trittico padronale, contribuendo a liberare
l’economia della conoscenza dal peso della rendita e dai principali
lacci della regolazione neoliberista del capitalismo cognitivo».